NEL CUORE CHE TI CERCA, di Paolo Di Stefano
Il libro non ricostruisce l’evento da un punto di vista cronachistico. Ci costruisce sopra, invece, un romanzo, nel quale gli eventi della cronaca sono la trama: una bambina di 10 anni, Rita, mentre va a scuola a piedi, viene avvicinata da un tipo, che nel romanzo apparirà sempre e solo nelle descrizioni della bambina come Signor Sergio, che la fa salire su un furgoncino azzurro e la terrà prigioniera in una piccola stanza di sei metri quadrati per otto anni (anche lei).
Il romanzo è strutturato in modo che le voci narranti siano tre: una è quella del padre, una quella della bambina, e una cosiddetta corale, che è quella di persone che in un modo o nell’altro, ossia come testimoni o come persone collegate, hanno avuto a che are con il fattaccio. L’editore ha pensato di staccare le tre diverse voci con tre caratteri tipografici differenti.
Il padre, personaggio goffo, debole, sovrappeso, schiacciato fra l’amore tiepido-morboso per la figlia, il disprezzo di una moglie isterica, un lavoro che non gli interessa, superiori che lo accettano solo per non crearsi problemi, genitori verso i quali non ha mai saputo esprimere un vero affetto e dai quali non l’ha mai ricevuto, una fame irresistibile alla quale risponde mangiando in ogni possibile occasione, e soprattutto un amore verso se stesso deluso da comportamenti sbagliati, di fatto non fa che lamentarsi per tutta la durata del romanzo. La gran parte delle sue esternazioni, all’inizio esprimono lo sgomento per la perdita della figlia, successivamente, più che sulle necessarie indagini per cercare di ritrovarla, si soffermano su particolari della sua vita con i genitori, con la moglie, con il lavoro che vorrebbero approfondirne il carattere, ma che danno uno scarsissimo contributo allo sviluppo del racconto.
La bambina, chiusa in questo sotterraneo, spaventata dal buio, tormentata da una luce bianca, appiattente come quella al neon, si lascia trasportare da fantasie di varia natura: identificazione con personaggi di telenovele TV, interesse per i quiz televisivi, immaginazione di essere ripresa e guardata da tutto il mondo. Nei riguardi del suo rapitore, sembra afflitta quasi da una sindrome di Stoccolma. Il suo rapitore è il debole della situazione, lei il forte. Ella accetta tutte le angherie, quelle sudice, quelle dolorose, quelle paurose per aiutare un essere che le appare debole e disperato e bisognoso di un aiuto che solo lei può dargli. In compenso gli chiede tantissime cose che vengono regolarmente esaudite: man mano che l’età avanza, ella vuole vestiti sempre più eleganti e più sexy, kit per truccarsi in modo sempre più pesante, ha voglia di uscire e farsi vedere (ma non riconoscere), addirittura vuol fare un viaggio fino a Siracusa in onore della festa di Santa Lucia, la santa che per lei è una specie di riferimento.
Solo alla fine, quando il suo rapitore sembra assumere atteggiamenti di disprezzo che coinvolgono la memoria del padre (che lei crede morto), la ragazza (ormai ci avviciniamo ai 18 anni) si sente invadere dall’odio, e trova un’occasione per scappare. Su questa fuga il romanzo praticamente finisce.
Le voci del coro, sono di testimoni dei fatti accaduti subito prima del rapimento, ma anche di persone che conoscevano il rapitore e che ne parlano in modi diversi, come il fratello e la madre, persone che abitavano nella stessa strada dove risiedevano rapitore e rapita, persone che conoscevano il padre e la madre della bambina, e alla fine la voce di un commesso di un supermercato pazzamente innamorato di lei dopo averla vista una sola volta, che sarà poi colui che determinerà l’occasione della fuga.
Questo modo di esprimersi a più voci, anziché ravvivare il clima del romanzo, finisce per appiattirlo. Lo scrittore utilizza diversi stilemi per distinguere le varie voci. La bambina usa un linguaggio pseudo-infantile; un termine ricorrente, soprattutto nelle prime sezioni espositive, è la parola “ovvio“ pronunciata abbastanza spesso; altri stilemi sono le frasi lasciate in sospeso; l’insistere sui concetti di forza e debolezza, sul senso di “schifo”. Il padre fa spesso riferimento al fatto che sta mangiando: una brioche, un panino, etc. Altri stilemi sono le lamentele per il peso, per il disprezzo della moglie, che si esprime solo con parolacce, fra cui la parola “stronzo” riferita al marito domina il linguaggio. I personaggi del coro si esprimono con linguaggi diversi, a seconda di quella che dovrebbe essere la cultura delle singole persone. Ma quello che alla fine appare a chi legge, o quanto meno a me, è che il linguaggio, depurato dagli stilemi, è lo stesso per ogni personaggio: il linguaggio dell’autore.
Un’altro artificio che lo scrittore adotta per cercare di dare un ritmo al racconto, è l’assonanza del termine che conclude ogni sezione espositiva della figlia con l’inizio della sezione espositiva del padre: questa assonanza viene realizzata utilizzando una stessa parola o una stessa breve frase.
Nonostante questi espedienti, il romanzo è decisamente noioso. Sono arrivato a finirlo con grande fatica. Le esposizioni della bambina sono ripetitive; quelle del padre spesso riportano fatti ed eventi della sua infanzia o della nascita della bambina che hanno ben poco a che fare con l’evento principale, il rapimento, o con gli stati d’animo che l’evento ha acceso. La madre è un personaggio che non esiste se non per il tentativo di ravvivare il discorso con qualche parolaccia. Il rapitore è un’ombra che aleggia, e diventa una traccia di personaggio solo in qualche occasione, per esempio nel viaggio a Siracusa, o all’ultimo, poco prima della fuga della ragazza, quando ha il fatale momento di disattenzione. Le voci del coro sono apparizioni fuggevoli, la gran parte delle quali non aggiunge nulla al racconto.
Insomma, su una trama fatiscente, un rapimento, viene costruito un romanzo che non è mai riuscito a destare in me un ben minimo interesse.