L’AFFARE MAKROPULOS, di Leóš Janáček
Il libretto è tratto da una commedia di Čapek. Ma fra le due opere, quella del drammaturgo e quella del musicista, ci sono delle differenze sostanziali. La prima è una commedia con risvolti che vanno dalla satira (ad esempio sulle lungaggine della giustizia), alla psicologia-psicanalisi (per esempio il complesso di Edipo e l’attrazione che Emilia esercita su un suo bis-bis-bis-nipote che lei considera quasi fosse suo figlio), alle riflessioni sulla paura della morte, sulla funzione dell’arte, etc. Purtroppo il testo della commedia è attualmente irrecuperabile nelle librerie e non ho potuto leggerlo direttamente. Nella seconda questi aspetti compaiono solo in secondo piano, mentre vengono accesi i riflettori sulla figura di Emilia: sulla sua bellezza, sul fascino che esercita sugli uomini, sul suo carattere cinico e nello stesso tempo sensuale, ma anche sul suo inevitabile senso di solitudine che alla fine le farà accettare quella morte della quale per tutta la durata dell’opera ha dimostrato di aver paura.
La struttura drammaturgica è insolita. Non si ravvisa una parabola con la classica articolazione “presentazione, sviluppo e conclusione“. L’evoluzione tende ad essere lineare, con una soluzione che sembra riflettersi su se stessa e riportarci all’inizio.
Il primo atto si presenta sostanzialmente come un antefatto: vi vengono narrati gli eventi di una causa di eredità fra due famiglie, la famiglia MacGregor e la famiglia Prus, originatisi cento anni prima, alla morte un antico amante di Emilia. In questo modo il passato lontano della donna sembra riaccendersi in una situazione di conflitto in atto.
Il secondo atto è dedicato soprattutto a descrivere il fascino della donna, della quale sorgono amanti dal passato (come il vecchio Hauk), ma dalla quale vengono attratti fatalmente anche uomini del presente, come Gregor e il giovane Janek, e soprattutto il vecchio barone Prus. Nei due atti comunque inizia e si sviluppa la ricerca del documento che contiene la formula della sopravvivenza e della giovinezza, e si manifesta la sua angoscia di non trovarlo e la conseguente paura della morte. Nel contempo coinvolgono la donna vicende che, avendo radici nel passato, trovano riscontri brutali nell’attualità.
Nel terzo atto il documento viene recuperato, ma nel corso di una specie di processo montato contro di lei dai diversi personaggi della vicenda, Emilia ricostruisce il ricordo della sua vita di eterna giovinezza sentendone profondamente la solitudine, e tutto sommato la vacuità, e quindi abbandonandosi alla morte.
Alla complessità drammaturgica corrisponde una complessità musicale. Anzitutto non vi sono arie, duetti, brani d’assieme o cori. Il canto è un declamato, a volte addirittura uno sprechgesang. Quello che arricchisce il linguaggio è un intervento orchestrale multiforme ed estremamente colorito. I temi sono numerosi, e si riferiscono sia ai personaggi (molto bello è il tema dolce e malinconico associato alla protagonista), sia alle situazioni. La caratteristica della musica di Janáček, che ho riscontrato nelle altre opere viste (direi soprattutto nella Piccola volpe astuta) è la frammentazione. I temi vengono frammentati, proposti con armonie (assieme alla scala diatonica, Janáček ama ricorrere a scale modali e di altro tipo) e timbri estremamente variabili, e insoliti, come associazione di timbri acuti e gravi, interventi del corno inglese, della viola d’amore, di assolo del violino o del flauto, etc. , della viola d’amore, di assolo del violino o del flauto, etc. La frammentazione dà luogo a intersezioni, interazioni e a volte anche a ripetizioni ossessive, che hanno finito per ricordarmi certe forme presenti nelle opere dei minimalisti. La musica in questo modo illustra la singolare drammaturgia, presentando alternanze di momenti di spigolosità a momenti di dolcezza, dando tuttavia la sensazione di una musica sempre oscillante, aliena da ogni richiamo di simmetria o di quadratura.
Nelle varie recensioni ho sentito a volte parlare di assonanze pucciniane. Francamente questo collegamento mi sfugge, in generale. Tuttavia un episodio mi ha richiamato alla mente la musica di Puccini: la affannosa ricerca che nel terzo atti i personaggi che vogliono intentare un processo a Marty fanno nelle cose di proprietà della donna al fine di trovare qualche segnale che sciolga quello che per loro è ancora un inesplicabile mistero. L’episodio pucciniano in questo caso è quello del Gianni Schicchi: l’affannosa ricerca che i parenti di Buoso fanno nelle cose del morto per trovare il testamento. In entrambi i casi la musica ha un andamento incalzante, che esprime molto bene l’ansia dei “ricercatori”.
Il carattere spigoloso e distorto della musica ha ispirato a Ronconi una regia basata su una scenografia che potrei definire geniale. Le scene sono piuttosto schematiche, e tutto sommato semplici, anche se non minimaliste. Gli arredi scenici hanno tutti una caratteristica comune: nel primo atto l’enorme biblioteca di atti giudiziari, nel secondo atto lo scorcio di una sala teatrale sul fondo, e nel terzo atto gli arredi della stanza d’albergo, sono inclinati, obliqui, storti, in assonanza con la spigolosità della musica. Al centro della tre scene si ripete una lunga strada coperta da una specie di passatoia rossa, e inclinata in diversi sensi (in quello della lunghezza e in senso laterale) in modo da essere simbolicamente l’immagine di un tempo sbilenco, quello che contrappone una donna di trecento anni a una società di normale durata dell’invecchiamento, e che porta le esperienze del suo lungo passato in questa società. Il tempo, alla fine potrebbe essere considerato, se non il vero protagonista dell’opera, almeno il background, il tema di base, sul quale poggiano gli eventi.
La direzione orchestrale è stata magistrale. Marco Letonja ha saputo fare una lettura di una chiarezza straordinaria nell’intrico tematico e di frammenti che caratterizzano la musica di quest’opera. Ho registrato e ascoltato la diretta RAI, e, francamente, in quell’occasione non avevo avuto questa impressione. Ancora una volta devo rilevare la fondamentale differenza fra un ascolto radiofonico e un ascolto in teatro. Nell’ascolto radiofonico, che pure ha il vantaggio di poter essere ascoltato e riascoltato, certi particolari, a volte addirittura essenziali, sembrano sfuggire, ciò che a teatro, ovviamente, non avviene. In questo caso la chiarezza della lettura, a teatro, mi ha gradevolmente aiutato ad entrare nello spirito e nei misteri di quest’opera.
I cantanti sono stati tutti all’altezza. Non essendovi arie o brani di particolare impegno tecnico (almeno questo mi è sembrato) l’osservazione andava fatto proprio su quel recitar cantando che è un po’ alla base di tutte le opere di Janáček. E tutti hanno dato vita a personaggi credibili, vivi, capaci di esprimere le loro pulsioni, le loro passioni. Ma una particolare citazione merita la strepitosa Angela Denoke (già mirabile interprete nella Kat’a Kabanová, nel Cardillac di Hindemith e nella Città morta di Korngold) nel ruolo della protagonista. Una prestazione formidabile, nella capacità di alternare dolcezza, cinismo, sensualità, ira, paura, disperazione, rassegnazione. Devo dire che la sua prestazione non ha avuto nulla da invidiare alle prestazioni di un’altra cantante che è stata grande protagonista della figura di Emilia Marty, e di altri personaggi nelle opere di Janáček (come la Kostelnicka in Jenufa): Anja Silja
Il pubblico ha gradito l’opera: il teatro, pur non essendo straboccante, era abbastanza affollato. Alla fine dei primi due atti gli applausi sono stati abbastanza tiepidi, ma alla conclusione dell’opera il pubblico ha applaudito con più entusiasmo e ha attribuito un’ovazione sia alla Denoke sia al direttore.
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Vedi l’analisi musicologica di Jean-François Boukobza in ASO: