Devo confessare che ho visto prima il film. Il libro l’ho letto successivamente, proprio incuriosito dal film. Quel’è stato il problema? Il film mi è parso interessante per una trama da una parte complessa, dall’altra realistico-fantastica, come realistico-fantastiche sono un po’ le trame dei romanzi di Marquez. Quello che mi ha lasciato qualche dubbio, sul film, è stato il modo di raccontarlo: la trama è stata riprodotta fedelmente, ma mi è mancato il calore e il colore che sono un po’ gli elementi che poi, nel corso della lettura ho trovato nel libro di Marquez e che me lo hanno reso così affascinante.
La prosa di Marquez è molto delicata, ricca di annotazioni sottilmente ironiche. I personaggi, in particolare i tre protagonisti, escono dal romanzo vivi, umanamente portatori di contraddizioni, in lotta continua con una realtà che essi vorrebbero piegare ai loro desideri, ma che a sua volta è lei a piegare loro, e osservati da Marquez con simpatia, indulgenza, anzi con tenerezza.
L’ambientazione è la Colombia, uno stato uscito dal colonialismo grazie a Simón Bolívar, il Libertador; il tempo è il volgere del secolo, la fine del 1800 e l’inizio del 1900. Ci sono i ricordi degli eventi drammatici che hanno sconvolto il paese: la guerra contro la Spagna, la guerra dei mille giorni, la guerra civile fra conservatori e liberali, che fra pause di varia durata è sempre pronta a riprendere. Ci sono le stragi provocate dalle epidemie, in particolare quella più violenta e catastrofica il colera. C’è un passaggio di amarissima ironia nel quale i protagonisti vedendo una pianura coperta di cadaveri, si chiedono se la causa della strage sia stata l’epidemia di colera. La risposta proviene dalla costatazione che ogni cadavere aveva i segni di un colpo d’arma da fuoco alla nuca. In un altro momento, in un altro luogo, un’altra distesa simile di cadaveri non presentava questa ferita. Come dire che guerra civile e colera facevano a gara a chi facesse più vittime civili. E c’è anche una natura rutilante, un grande fiume, il Magdalena, che scorre in mezzo a boschi, foreste, animali selvatici, caimani, mandrilli, manati, i grandi mammiferi con la voce di donna che allattano i piccoli. Marquez ama questa natura impervia, il cielo azzurro e limpido, il caldo soffocante, i grandi e improvvisi acquazzoni della stagione delle piogge, e con malinconia ne constata il degrado che l‘uomo, con il taglio degli alberi, la caccia agli animali selvatici, non esita a provocare.
Marquez ci accompagna all’interno della società composita (ex-coloniali, aristocratici dai lunghi e complessi cognomi, ex-schiavi, immigrati borghesi, esseri miserabili, etc.) che popola Cartagena e che costruisce gradualmente il proprio ambiente, le proprie abitudini, i solenni riti religiosi, le feste, spesso intrise di pettegolezzi e maldicenze mescolate a ipocriti sorrisi, i funerali, quelli solenni della gente nobile e in vista, quelli sparuti e frettolosi della povera gente; il modo di vestire, l’eleganza come simbolo di condizione sociale; i viaggi compiuti in Europa come segno di distinzione e di possibilità economiche; l’acquisto, sottolinea ironicamente Marquez, di oggetti europei mai utilizzati, solo per essere mostrati una sola volta e suscitare invidia o ammirazione degli amici. In questa società variegata, che l’occhio di un europeo guarderebbe con sufficienza considerandola una società primitiva che cerca goffamente di imitare il vivere civile, ma che García Marquez descrive con indulgente ironia, si svolgono le fantastiche vicende dei tre protagonisti: il dott. Juvenal Urbino, Fermina Daza e Florentino Ariza.
Florentino Ariza si innamora perdutamente di Fermina Daza in piena adolescenza, dopo un unico sguardo. Fermina sembra all’inizio ricambiare questo sentimento amoroso. È tuttavia fortemente osteggiata al padre che, di origine plebea ma discretamente ricco, sogna per la figlia un matrimonio che la elevi di livello sociale. Fra i due giovani vi sono furtivi scambi di lettere, tentativi di approccio, addirittura richieste di matrimonio, in un’atmosfera di clandestinità, che da una parte arricchisce con preziose annotazioni la descrizione di una società bigotta, e dall’altra fa conoscere sempre più a fondo i caratteri dei due che, al di là delle intemperanze della giovinezza, si manterranno costanti nella sostanza col passare degli anni. Florentino apparirà come ragazzo prima, e poi anche come adulto, sognatore, poco propenso a condividere la vita superficiale e allegra dei suoi coetanei o anche dei suoi protettori, timido e romantico, sempre in cerca di affetto, vestito in modo anacronistico, aggredito e soggiogato dall’amore per Fermina che, una volta insediatosi nel suo animo, non lo lascerà più per tutta la vita, e che si esprimerà in lettere, diari, scritti romantici, composizioni e declamazioni di poesie e anche composizioni musicali che, col violino, suonerà la notte davanti alle finestre dell’amata. La sua vita, sarà per tutta la sua durata condizionata da questo amore, che emergerà sotto forma di ricordi, o di sofferenza, o di paura in ogni occasione che le vicissitudini della vita lo condurranno a vedere (raramente) Fermina o, più spesso, a sapere qualcosa di lei. Florentino non sposerà Fermina, anzi sarà da lei lasciato dopo la breve primavera dell’innamoramento, in modo brusco, quasi irriflessivo: lei lo definirà un’illusione, e gli comunicherà il distacco senza commenti, in linea con quello che vedremo essere il suo carattere. Ma lui non demorderà, e deciderà di rimanerle fedele. Poi le circostanze di un viaggio, fatto proprio nell’inutile tentativo di dimenticare l’oggetto del suo amore, e nel quale subirà una violenza sessuale da parte di una donna sconosciuta, lo attireranno nell’orbita del sesso, dell’amore fisico. Da quel momento, avrà molte donne, alcune per brevi relazioni, altre per relazioni durature: ma tutte nel più ermetico dei segreti, tanto che in giro i soliti (tanti) pettegoli, non vedendolo mai assieme a una donna, spargono la voce che le sue preferenze siano per il sesso maschile. Le donne invece gli si concedono, spesso lo adorano, perché ne capiscono e apprezzano il carattere timido, remissivo, romantico, estremamente riservato e soprattutto bisognoso di affetto: ma nella realtà segretamente bisognoso dell’amore esclusivo di Fermina.
Fermina è l’altro protagonista del romanzo. Dopo aver lasciato Florentino, con un atto improvviso e senza una riflessione approfondita, con altrettanta impulsività e mancanza di spiegazioni, accetta il matrimonio, appoggiato dal padre, con una persona molto in vista, aristocratica, di grande eleganza, e ricchezza: il dott. Juvenal Urbino. Fermina è una donna orgogliosa, intelligente, non conquistabile dalle apparenze, tarda a concedersi. Il corteggiamento di Urbino durerà a lungo, e all’inizio viene respinto con disprezzo come un cedimento al padre e alla sua volontà di arrampicamento sociale. L’amore sentimentale, ma anche quello fisico, sembra mancare del tutto. Anzi, quello fisico viene visto come una minaccia alla sua integrità e alla sua indipendenza. Anche durante il viaggio di nozze, prolungato per due anni in giro per l’Europa, il rapporto coniugale, almeno all’inizio temuto più come una disgrazia che come un piacere, è reso possibile solo attraverso una delicata, affettuosa amorevole conquista da parte del marito. Nel corso del tempo, la vita coniugale si svolge attraverso periodi di pace, periodi di scontro, liti forsennate anche, scoperte di infedeltà (del marito), viaggi solitari, ritorni alla casa d’infanzia. Ma poi, in sostanza, quello che in lei prevale è il rispetto delle regole fatto tuttavia mai in modo supino, ma sempre con una partecipazione orgogliosa della persona. Questo non toglie che anche lei abbia i suoi vizietti segreti, come ad esempio il fumo, l’alcol, etc. che vengono consumati lontano da occhi indiscreti. La descrizione che meglio la definisce e che ne fa Marquez, è la sua andatura da passo da cerva. Il rapporto con Florentino, una volta chiuso, non verrà più riaperto, neppure nel ricordo, se non in fugaci, e subito represse immagini. Ed eventualmente il sentimento suscitato è più quello della compassione che dell’amore. Ma anche nei confronti del marito, a parte i due anni iniziali e sporadici momenti di intimità, non si può parlare di vero amore. Quello che invece più importa è la presenza in società: una presenza elegante, di accordo perfetto e di felicità coniugale sulla quale tutte le persone in vista di Cartagena erano pronte a giurare.
Juvenal Urbino, il marito, è il terzo protagonista. È il personaggio che apre il libro: un personaggio raffinato, di grande eleganza di portamento e di abbigliamento. Lo vediamo mentre constata il suicidio di un suo grande amico, Jeremiah de Sain-Amour, quello che egli definisce un «santo ateo», suo maestro e rivale nel gioco degli scacchi, colui che affermava che «la vecchiaia era uno stato indecente da impedire per tempo». Medico di grande cultura e capacità, laureato nelle migliori università europee, nella società colombiana è dotato di grande autorità anche nei confronti dei governi. Ha dato indicazioni utili per frenare se non ad abolire pestilenze come il colera mediante misure igieniche; ha migliorato l’ospedale nelle sue strutture e nelle sue attrezzature, ha raccolto attorno a sé allievi desiderosi di imparare l’arte medica; cura con onestà e pazienza i ricchi clienti della città, e vive in una casa antica e nobile, circondato, nonostante la giovane età, da rispetto e stima. L’amore per la giovane Fermina lo induce a una corte discreta, raffinata, che passa attraverso il padre, ma che deve tener conto anche della volontà, invero parecchio lunatica, della ragazza. Il matrimonio si celebra col fasto che si conviene a una personalità come la sua. Il viaggio di nozze è uno dei momenti felici del matrimonio. Poi i rapporti cambiano. Da una parte il suo amore per la moglie è un sentimento costante, mentre l’amore di Fermina è più formale che sostanziale e a volte sembra rarefarsi. Nel rapporto egli cerca di mantenere il controllo della famiglia, ma in realtà ne rappresenta il lato debole, soffocato da frequenti sensi di colpa.
Urbino, all’età di 80 anni, morirà per un banalissimo incidente, cadendo da una scala a pioli. La sua morte metterà fine a quel trascorrere di anni in famiglia, fonte oramai più di infelicità che di gioia. Fermina, vedova, finalmente non si sentirà più, nemmeno formalmente sottomessa a qualcuno, sia pure il marito. La sua reazione è quella di liberarsi di tutti i ricordi, mobili, arredi, vestiti che appartenevano al marito, cambiare casa, vivere una vita nuova, nella quale tuttavia, i ricordi, per quanto scacciati, tornano ad affiorare. Metterà fine anche all’infelicità di Florentino, che ha atteso con pazienza e con ansia la morte del suo ignaro rivale, il dott. Urbino. Sono passati molti anni. La gioventù è passata. È arrivata la vecchiaia, per lui e per Fermina. Ma nessuno dei due è d’accordo con Jeremiah de Saint-Amour: la vecchiaia non è uno stato indecente da impedire per tempo. È uno stato, nel quale la vita fluisce e va vissuta. Per questo Florentino alla fine del funerale si presenta alla donna. «Fermina, le disse, ho atteso questa occasione per mezzo secolo, e adesso voglio ripeterle ancora una vola il giuramento della mia fedeltà eterna e il mio amore perenne». La iniziale dura risposta: «Vattene, gli disse. E non farti più vedere negli anni di vita che ti rimangono. […] Che spero siano molto pochi.» è solo un modo di Fermina, col carattere che ha, di riaprire un discorso che sembrava chiuso da anni.
Infatti, nonostante questo duro esordio, fra i due, lentamente, gradualmente, attraverso non tanto il romanticismo della gioventù, ma attraverso riflessioni sui principi della vita, dell’invecchiamento, dell’amore come rapporto, sorge un’attrazione, della quale egli si rende conto come qualcosa di diverso, di nuovo e di più importante dell’amore mitizzato di tutta la sua gioventù; ed ella si rende consapevole che cosa sia il vero amore, quello che nella sua lunga vita aveva subito, ma del quale non aveva mai saputo essere corresponsabile.
Florentino ora è un uomo avanti negli anni, come d’altronde Fermina. La vecchiaia è un ostacolo fisico, e in lei, così attratta dalle apparenze qualche cosa di ignobile. Ma la dolcezza, la vittoria sulla solitudine, l’ampiezza dei pensieri che si incontrano, le esperienze non più viste con rammarico, ma come fonte di saggezza, alla fine hanno la meglio. Stupenda è la descrizione del primo contatto delle due mani: la mano di lui, prendendo la mano di lei, in un primissimo momento sente il segno degli anni, la pelle vizza e fredda, le ossa, le nodosità delle dita: ma il passaggio al calore del contatto umano e affettivo è immediato. L’amore diventa una realtà. Quell’amore che Marquez insegue attraverso i suoi personaggi per quasi tutto il romanzo, senza che mai sembri realizzarsi pienamente, finalmente si realizza nella vecchiaia, quando nel sentire comune l’amore non avrebbe più diritto di cittadinanza. A chi la criticava per il rapporto che si andava stringendo con Florentino, la risposta di Fermina: «Un secolo fa mi hanno rovinato la vita con quel pover’uomo perché eravamo troppo giovani, e adesso vogliono farcelo di nuovo perché siamo troppo vecchi.»
Ora, per i due protagonisti «era come se avessero saltato l’arduo calvario della vita coniugale, e fossero andati dritti all’essenza dell’amore. […] Perché avevano vissuto insieme quanto bastava per accorgersi che l’amore era l’amore in qualsiasi tempo, in qualsiasi parte, ma tanto più denso quanto più era vicino alla morte.»
La scrittura di Marquez è magica: i dialoghi sono pochissimi. Le vicende si dipanano attraverso le descrizioni, ma quali descrizioni! Fatti, motivazioni, caratteristiche, descrizioni ambientali si intersecano continuamente creando mondo, vicenda, personaggi, il tutto spesso punteggiato da osservazioni di ironia leggera, affettuosa, o anche di seria o addirittura feroce ironia.
Per ritornare al film, secondo me il suo difetto principale è quello di riprodurre in modo molto fedele la trama, ma di mancare quell’aspetto che è fondamentalmente il fascino del romanzo. Se è vero che film e romanzo sono due modi di espressione molto diverse, e che quindi dovrebbe essere sbagliato fare raffronti, in realtà l’eccessiva fedeltà del film non può non costringere in questo caso a una valutazione che escluda quello che nel romanzo mi pare essere il lato più affascinante, la leggerezza della scrittura, la ironia e la tenerezza di Marquez verso una natura umana della quale sa mettere a nudo pregi e difetti, facilità e difficoltà, dolore e felicità.
Vedi la lezione di Gabriel García Marquez alla consegna del premio Nobel nel 1982
Questo articolo è stato pubblicato
giovedì, 5 marzo 2009 alle 15:41 e classificato in Film, Libri.
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