I DUE FOSCARI, al Teatro alla Scala
Nelle mie considerazioni sulla stagione scaligera di quest’anno avevo affermato che la programmazione dei Due Foscari avesse un carattere di riempitivo, pur nel contesto di titoli di grande interesse. Il rivedere ieri sera quest’opera, mi ha fatto attenuare quel giudizio, forse troppo negativo, che avevo dato dopo averla vista nel 2003 al Teatro degli Arcimboldi, sotto la direzione di Muti, con la regia di Cesare Lievi e interpretata, oltre che da Leo Nucci, da Francisco Casanova e dalla Dimitra Theodossiou.
Indubbiamente l’opera ha una drammaturgia estremamente debole. Non accade praticamente nulla nel corso dei tra atti (avrei voluto leggere i cinque atti del dramma di Byron dal quale l’opera è tratta, per vedere come il poeta inglese abbia risolto l’impianto drammaturgico, a parte l’episodio della tortura che Verdi ha ritenuto opportuno citare nella musica del preludio, ma non farne oggetto di rappresentazione), se non la messa in scena di un’attesa. Prima l’attesa della sentenza, poi l’attesa della partenza per l’esilio. Solo nell’ultima parte del terzo atto, al momento della deposizione del Doge, il dramma si risolleva un attimo, culminando nella bellissima aria “Questa dunque è l’iniqua mercede” che il Budden definisce “la musica verdiana per baritono al suo grado più nobile”.
Riguardando l’opera, rispetto al 2003, tuttavia non ho potuto fare a meno di apprezzarne maggiormente la musica. Anzitutto, l’uso che Verdi fa dei leitmotiv: uso certamente elementare, ben lontano dal complesso uso che ne fa Wagner, e riferito prevalentemente come annuncio orchestrale dell’ingresso di uno dei personaggi, quello cui il leitmotiv si riferisce. I leitmotiv sono quattro: tre sono collegati all’ingresso dei tre personaggi principali: Jacopo, Lucrezia e il Doge; il quarto è il tema portante della preghiera-cavatina di Lucrezia nel primo atto. Quest’ultimo e il leitmotiv di Jacopo sono molto chiaramente espressi anche nel preludio. Per quanto mi riguarda, questi leitmotiv si basano su temi molto belli: in particolare quello di Jacopo, basato sul suono del clarinetto; quello della preghiera di Lucrezia, basato soprattutto sul suono dei flauti accompagnato dal tremulo del violini (il Budden dice che è la stenografia strumentale di Verdi per indicare una preghiera che sale al cielo) e dagli arpeggi dell’arpa; e quello del Doge, che si sente solo in due occasioni, all’ingresso in scena del Doge: nel primo atto e all’inizio dell’ultima scena del terzo: si tratta di un motivo molto bello, sugli archi, con stacchi asimmetrici e un andamento singhiozzante espressione di grande, infinito dolore.
Interessante è anche l’uso del coro. Se è vero che l’opera, pur facendo riferimento a una vicenda politicamente fra le più complesse della storia della Repubblica del Leone (anche nella Venezia del ‘400 si colpivano gli anelli deboli della catena per danneggiare quelli forti: la condanna del figlio è una chiara mossa effettuata per colpire il Doge, personaggio di grandissimo prestigio e potenza, e costringerlo alle dimissioni) non ne accenna neppure di striscio, è vero che nel coro Verdi fa sentire una specie di orgoglio per quello che è stato un momento luminoso (anche se tormentato) della storia del nostro paese: il rinascimento, e in particolare la Repubblica di Venezia. Il coro, quello maschile, sembra esprimere bene questo orgoglio: a momenti di un procedere cupo (“Silenzio… mistero…) si alternano momenti di slancio “giustizia qui seggio posò”, o anche “Qui forte il Leone col brando, con l’ale”.
Magari, invece di Allevi nei concerti del Quirinale, la RAI potrebbe attrezzare una stagione Operististica a Palazzo Chigi, e rappresentare all’inaugurazione proprio quest’opera (senza voler fare inutili provocazioni forcaiolesche J )
Credo che sia giusto dire nell’opera si avverte l’interesse di Verdi per altri compositori. A parte il discutibile richiamo a Wagner con i Letimotiv, si potrebbe pensare a Beethoven, soprattutto all’intensità dell’incipit del Preludio (l’ouverture dell’Egmont?), o anche l’inizio del secondo atto, in cui Jacopo, solo nella oscura prigione, ricorda il risveglio di Florestano all’inizio del secondo atto del Fidelio: “Notte!… perpetua notte, che qui regni!”. Lo stesso secondo atto, nella sua struttura, mi ha ricordato Mozart nel secondo atto delle nozze di Figaro, con la successione di un’aria, un duetto, un terzetto, e poi un quartetto, e la graduale entrata in scena dei personaggi.
Un altro aspetto che mi ha attirato, è stato l’uso della parola scenica, che Verdi qui utilizza in modo molto convincente. Si possono fare alcuni esempi. Sempre nel secondo atto, quando il Doge, dopo la manifestazione di paterno amore e lo straziante addio al figlio che gli chiede “Ascolta… Ti rivedrò?” risponde “Una volta… Ma il Doge vi sarà!” “E il padre?” “Penerà.” Sempre nel secondo atto, davanti al consiglio dei Dieci riunito per la lettura della sentenza, Jacopo, disperato per l’esilio, chiede ancora al padre: “Mai più dunque ti vedrò?”, e il padre, emozionato, ma apparentemente impassibile gli risponde “Forse in cielo, in terra no…”.
Ecco, secondo me, in un’opera certamente non fra le sue più belle, Verdi dimostra di essere un grande uomo di teatro anche attraverso questi piccoli particolari: la musica afferra le parole e dà loro un tono categorico, apodittico, apre un abisso sui sentimenti.
La rappresentazione. Nulla vi è da aggiungere a quanto già scrissi a proposito della messa in scena agli Arcimboldi del 2003. Scenografie belle, anche se semplici. Illuminazione per lo più scarsa. La struttura della scena è sempre la stessa: gradi pareti in parte rientranti in parte aggettanti con grandi finestre o porte, a volte aperte, a volte coperte da grate, a volte nascoste da grandi quadri, o da cataste di libri, a seconda dell’ambiente che la scena dovrebbe rappresentare: la sala del consiglio, l’abitazione dei Foscari, la Prigione o la piazza degli schiavoni. Come unici arredi qualche sedia di aspetto antico, delle quali una funge anche da scanno ducale. Accanto ai protagonisti e al coro, fanno la loro silenziosa apparizione silenziose ombre con nere maschere, soprattutto dietro le grate della prigione, o sulla nave dell’esilio, quali fantasmi, quelli che appaiono soprattutto nella mente e nei sogni di Jacopo.
Comunque l’ambientazione è del tutto tradizionale, come pure lo sono i costumi: fra essi spicca il costume tutto d’oro del doge, che, nel secondo atto, durante la visita al figlio nel carcere, è coperto da un manto scuro. Nel terzo atto una certa vivacità, nella musica e nei costumi la dà il coro di apertura, che canta la celebre barcarola.
Quello che invece c’è da sottolineare è che alcuni degli esecutori previsti dal teatro nel programma della stagione distribuito sono molto cambiati. Anzitutto come direttore era previsto Carlo Montanaro, mentre sul podio domenica c’era Stefano Ranzani. In secondo luogo un altro cambiamento è stato a carico dell’interprete di Lucrezia: in un primo tempo era stata prevista la Svetla Vassileva. Ma alla prima del 24 settembre ha cantato la soprano canadese Manon Feubel, mentre domenica ha cantato la soprano italo-americana Julianna Di Giacomo.
Il Doge è stato poi interpretato, come previsto, da Leo Nucci, Jacopo Foscari da Fabio Sartori e Loredano da Marco Spotti.
La direzione d’orchestra di Stefano Ranzani è stata quale ci si può aspettare da un direttore verdiano. Direzione rispettosa delle voci, ma nello stesso tempo eloquente e molto chiara.
Gli interpreti. Nucci come sempre è stato grande, anche se ho l’impressione che la sua presenza finisca per rappresentare un ostacolo a una generazione di baritoni più giovani. Nucci è ormai un doge storico, e non si sfugge all’impressione che la sua interpretazione rischi di cadere nella routine. Intendiamoci, si tratta sempre di un’interpretazione magistrale. Ma mi piacerebbe che questo suo magistero si trasmettesse, magari ulteriormente migliorato, a una generazioni di giovani.
Splendida è stata anche la soprano Julianna Di Giacomo. Veramente, una voce splendida, rotonda, intensa, priva di vibrati, con acuti limpidi e bassi ben comprensibili, come si è sentito anche nel salto di due ottave sulla parola “Perdono” alla fine del suo primo intervento nel primo atto. Ben interpretata l‘aggressività del personaggio. Credo sia giusto definirla una soprano verdiana,
Anche Fabio Sartori è stato all’altezza della situazione. Bella voce, intensa. Forse come personaggio un po’ troppo tendente a dar risalto alla passività, e alla lamentazione sulla disgrazie di cui è vittima. A questo proposito Francisco Casanova, nella rappresentazione degli Arcimboldi del 2003, mi era sembrato dare una veste più virile al personaggio.
Spotti, il basso interprete di Loredano ha fatto il suo dovere, completando un cast che mi è sembrato di tutto rilievo.
Gli applausi alla fine sono stati entusiasti e, direi, affettuosi. Al pubblico lo spettacolo è piaciuto molto: certamente merito dell’esecuzione e, non secondariamente, della musica coinvolgente di Giuseppe Verdi.