ISTANBUL. I ricordi e la città, di Orhan Pamuk

 

 pamuk.jpg

Il senso del libro lo scrive lo stesso Pamuk: «Per questo il lettore si è accorto che cercando di raccontare me stesso racconto Istanbul e raccontando Istanbul racconto me stesso…». L’autobiografia, il racconto della sua infanzia, della sua adolescenza e della sua giovinezza si intreccia in continuazione con il racconto della città, delle sue vedute, dei suoi panorami, dei suoi quartieri, delle sue strade, delle sue case: nei luoghi turistici, certo, ma soprattutto nei sobborghi, nei quartieri dimenticati e nella gente che li popola.

Pamuk ha scelto di vivere, studiare, lavorare a Istanbul. Istanbul è la sua terra; è una città triste ed egli stesso avverte questa tristezza e se la fa propria. «Ciò che tento di raccontare – scrive – è la scoperta di questo sentimento come concetto, la sua definizione, la sua articolazione, le sue prime apparizioni nelle opere di eccellenti poeti francesi (Gautier sotto ‘influenza del suo malinconico amico Nerval)».

E a Istanbul la tristezza nasce dalla città, dai suoi luoghi; ma è una tristezza storica, è una tristezza che lega il tessuto urbano ai suoi abitanti. È la tristezza di una città che è stata la capitale di un impero sontuoso, l’impero ottomano, e che dopo la sua caduta, è andata disfacendosi, lasciando solo il ricordo di rovine. Girando per le strade si scorgono i resti degli incendi che sempre più frequentemente hanno distrutto le grandi ville signorili, fatte di legno; si vedono le mura bizantine che si sgretolano; si vedono le viuzze lastricate fiancheggiate da case poverissime; ma si possono vedere anche i quartieri dove vivono e abitano i ricchi, con palazzi “occidentalizzati”. Non si tratta di una città nella quale si fa emergere il pittoresco: è soprattutto una «Istanbul in bianco e nero».

Il balzo che intercorre fra la caduta dell’impero ottomano e la nascita della Turchia come repubblica ha una direzione precisa: l’occidentalizzazione. Tutto è impostato al fine di lasciare alle spalle una cultura considerata obsoleta, tramontata; i modelli di vita cui si ispira la nuova Turchia, ma anche i modelli artistici nella letteratura, nelle arti figurative, sono i grandi artisti francesi, soprattutto gli scrittori e in particolare i grandi viaggiatori: Gérard de Nerval, lo scrittore malinconico, autore del libro Viaggio in Oriente del 1843); Théophile Gautier, autore di Costantinopoli del 1852, che scrive con lo spirito del cronista, che si traveste da mussulmano, partecipa ai divertimenti del Ramadan, e dà di Costantinopoli l’immagine di un oriente esotico, quello che più interessa il lettore occidentale, e infine Gustave Flaubert che ha lasciato numerose descrizioni della città nelle sue lettere.

Leggere gli scrittori occidentali alla fine diventa un dovere. L’occidentalizzazione dello stato deve andare di pari passo con l‘occidentalizzazione della cultura: molte cose cambiano: viene sciolto l’esercito dei giannizzeri e viene sostituito da un esercito più disciplinato nello stile occidentale; vengono banditi gli ordini del dervisci, religiosi che per devozione si infilavano spiedi in varie parti del corpo; viene abbandonato l’abbigliamento ottomano per essere sostituito da quello occidentale; spariscono gli harem; si passa dall’alfabeto arabo all’alfabeto latino; vengono spostate le tombe, che un tempo erano disseminate all’interno delle piazze e della strade cittadine, e trasferite in cimiteri circondati da alte mura, simili a prigioni; viene dichiarata guerra ai cani randagi che infestavano le vie dalla città.

L’occidentalizzazione di Istanbul è un processo che tende a seppellire, più che a valorizzare le vestigia del passato: del passato ottomano, ma anche del passato bizantino. Questa perdita della memoria finisce per essere una della cause principali della tristezza che Pamuk vede come caratteristica diffusa della città e dei suoi abitanti. «Lo sforzo per l’occidentalizzazione – scrive Pamuk – mi è parso sempre trarre origine, più che dal desiderio di modernizzazione, dalla voglia di liberarsi degli oggetti carichi di tristi e dolorosi ricordi rimasti fra le rovine di quel mondo, proprio come si buttano via gli abiti, i gioielli, gli oggetti e le struggenti fotografie di una persona amata morta all’improvviso».

Ci sono quattro scrittori che Pamuk ama particolarmente: sono scrittori turchi, di Istanbul, Yahya Kemal , Tanpınar , Abdülhak Şinasi Hisar, e Reşat Ekrem Koçu, che capiscono e apprezzano gli scrittori occidentali, ne assorbono il sentimento di tristezza e malinconia, ma si rifiutano di occidentalizzare rinnegando quella che per loro è una cultura ancora viva, anche se in decadenza irreversibile. Per questo il sentimento principale che impregna i loro scritti sulla città è proprio la tristezza.

Ma che cosa è la tristezza di Istanbul?

«Prima di cercare di capire quel sentimento unico che riunisce la città e i suoi abitanti, ricordiamo che il vero tema di un quadro di paesaggio non è soltanto il paesaggio in sé ma anche l’emozione che suscita. […] Ma adesso voglio parlare non della malinconia di Istanbul, bensì della tristezza, uno stato d’animo simile, interiorizzato con orgoglio e condiviso da tutta la comunità. Questo significa vedere i luoghi e i momenti in cui il sentimento e l’ambiente che lo rispecchia si mescono tra loro. Parlo del buio serale che scende presto, dei padri che tornano a casa sotto i lampioni dei quartieri periferici, con il sacchetto in mano. Parlo dei librai anziani che, dopo una delle frequenti crisi economiche, aspettano tutto il giorno, tremando dal freddo, un lettore; dei barbieri che si lamentano del calo della clientela; dei marinai che lavano i vecchi battelli del Bosforo, ancorati ai moli vuoti, sui quali si addormenteranno fra poco, e nel frattempo danno un’occhiata alla televisione piccola e lontana, in bianco e nero; dei bambini che giocano a pallone tra le auto sulle strade strette e lastricate; delle donne con le sciarpe in testa e i sacchetti di plastica in mano, che aspettano silenziosamente l’autobus nelle fermate di periferia; delle rimesse per le barche delle vecchio yalı; delle sale da tè piene zeppe di disoccupati; dei ruffiani che, pazienti, nelle sere d’estate gironzolano su e giù per i marciapiedi con la speranza di trovare un turista ubriaco nella piazza più grande della città; della folla che nelle sere d’inverno, corre per prendere in tempo il battello; delle donne che la sera, in attesa dei loro mariti, socchiudono le tende per dare un’occhiata fuori; dei vecchi col cappello che vendono piccoli libri, rosari e profumi nei cortili delle moschee; degli ingressi di decine di migliaia di palazzi simili tra loro; degli edifici di legno trasformati in uffici comunali che un tempo, quando erano ville private avevano pavimenti di legno che scricchiolavano a ogni passo; delle altalene fuori uso nei parchi vuoti; delle sirene dei battelli che urlano nella nebbia; delle mura bizantine ormai in rovina; delle piazze dei marcati che si svuotano la sera; dei ruderi degli antichi conventi; di decine di migliaia di palazzi con facciate incolori per la sporcizia, la ruggine, la fuliggine e la polvere; dei gabbiani immobili sotto la pioggia sulle imbarcazioni pieni di cozze e alghe; delle secolari, grandi case signorili, con i camini che emettono, nel giorno più freddo dell’anno, un fumo sottilissimo, quasi invisibile; della folla di uomini che pescano dal ponte di Galata; delle sale fredde delle biblioteche; dei fotografi ambulanti; dell’odore nelle sale cinematografiche, una volta famose e dai soffitti dorati, dove adesso gli uomini entrano di soppiatto per guardare film porno; dei viali dove con il calar del sole non può vedere neanche una donna; delle folla ammassata nelle giornate di libeccio, calde e ventilate, davanti alla porta dei bordelli controllati dal Comune; delle donne in fila davanti ai punti vendita di carne scontata; delle lampade spente sui fili stesi fra i minareti durante le feste; dei manifesti strappati e scarabocchiati qua e là; delle stanche vetture americane degli anni Cinquanta che scoppiettano sulle strade sporche e le ripide salite della città, e che se fossero in una metropoli occidentale finirebbero in un museo e non girerebbero come taxi collettivi; della massa di persone che affolla gli autobus; delle moschee in cui vengono continuamente rubate le lastre di piombo e le grondaie; dei cimiteri che vivono nella città come un secondo mondo e dei cipressi; delle fievoli lampade accese di sera nei battelli della linea marittima Kadıköy-Karaköy; dei bambini che cercano di piazzare un pacchetto di fazzoletti di carta; degli orologi sulle torti, dove non guarda nessuno; delle vittorie ottomane che i bambini leggono sui libri di storia e delle bastonate che prendono poi la sera a casa; dell’attesa timorosa degli “addetti” durante i frequenti coprifuochi, imposti con la scusa di un censimento demografico, o di una caccia ai terroristi; delle lettere pubblicate in minuscoli spazi di giornali; dei lettori che si lamentano della cupola della moschea di trecento anni fa del quartiere, che ormai sta cedendo, e si chiedono dove sia lo stato; di tutti i gradini rotti, in parti e forme differenti; dei sottopassaggi situati nei luoghi più affollati della città; dell’uomo che vende da quarant’anni, sempre nello stesso posto, cartoline; dei mendicanti che si incontrano nei punti più imprevedibili della città, e dei mendicanti che ogni giorno, allo stesso angolo, dicono le stesse frasi; del forte odore di piscio che vi raggiunge a un tratto nei viali affollati, nei battelli, nelle gallerie e nelle zone di transito; delle giovani donne che leggono la rubrica di posta di Güzin Abla, sull’“Hürriyet”; dei tramonti che colorano le finestre, a Üsküdar, di un arancione quasi scarlatto; di quelle primo ore mattutine in cui tutti dormono, tranne i pescatori che prendono il largo; di quelle due capre nel recinto di quella specie di zoo, al parco Gülhane, e di quei tre gatti annoiati; dei cantanti di terza classa che imitano le popstar americane e turche; degli studenti che si annoiano alle interminabili lezioni d’inglese, imparando in sei anni soltanto a dire yes e no; degli emigrati che aspettano sul ponte di Galata; degli avanzi di verdura, frutta, carta, pacchi, sacchetti di plastica, scatole e cassette nei mercati affollati di giorno e chiusi la sera; delle donne affascinanti con il foulard in testa che discutono timidamente con i venditori; delle giovani madri che trascinano i loro figli; della veduta del Corno d’Oro, quando si guarda dal ponte di Galata verso Eyüp; dei venditori di ciambelle che, mentre aspettano i clienti sulla scalo, si distraggono osservando il panorama; delle sirene dei battelli che suonano improvvisamente tutte insieme, una volta all’anno per un minuto di silenzio, quando l’intera città si ferma compita per ricordare Atatürk; delle antiche fontane, ormai masse marmoree senza rubinetto, con gradini che adesso sono sepolti dall’asfalto delle strade; delle ragazze che lavorano tutta la notte per uno stipendio da fame, a ripulire le stanze piene zeppe di imbastitrici e macchine per cucire bottoni, dove un tempo famiglie di classe media, dottori, avvocati e insegnanti con mogli e figli la sera ascoltavano la radio; del disordine e del degrado; delle cicogne di cui tutta la città si accorge verso l’autunno, mentre passano sopra il Bosforo e le isole, in arrivo dai Balcani, dell’Europa orientale e settentrionale, per andare a sud e delle folle di uomini della mia infanzia, che tronavano a casa fumandosi una sigaretta dopo aver assistito a una delle partite di calcio della nazionale, sempre pesantemente sconfitta.

«Quando percepiamo a fondo questo sentimento, e i paesaggi, gli angoli, le persone che lo trasmettono alla città, quando ci cresciamo insieme, a un certo punto quella sensazione di tristezza, simile al vapore che comincia a muoversi sottile sulle acqua della stretto nelle fredde e assolate mattine d’inverno, acquista forme sempre più concrete ed evidenti.»

Pamuk ama la città in cui è cresciuto, e ne fa propria la tristezza. È figlio di una famiglia borghese, benestante con alterne sorti di fortuna. Il padre è spesso assente, intraprende iniziative economiche che si concludono con fallimenti, costringe la famiglia a traslochi, mantiene un’amante, litiga spesso ferocemente con la moglie ma, tutto sommato, la famiglia rimane unita. Il piccolo Orhan cresce in un clima stimolante, fra l’amore della madre, le liti con il fratello e l’amore per la città. Il Bosforo, questo braccio di mare così presente, fa parte del panorama irrinunciabile, visibile dalle finestre di casa, con le sue navi che lo attraversano e che a volte si scontrano provocando incendi clamorosi, e delle quali Orhan, come molti altri ragazzi, conta il passaggio con precisione quasi maniacale. Il panorama del Bosforo è uno degli obiettivi preferiti di un grande disegnatore Antoine-Ignace Melling, un «vero europeo» lo definisce Pamuk con ascendenza italiane e francesi, che lavorava come consulente artistico della sorella del Sultano Selim III, Hatice Sultan e che, dopo la conquista dell’Egitto da parte di Napoleone, viene licenziato ad nutum, senza spiegazioni. Melling ritrae una Istanbul quale appare la sontuosa città capitale dell’impero ottomano. E con questi ritratti si confronta l’Istanbul dell’infanzia di Orhan, contribuendone a far sorgere il sentimento di tristezza.

Queste vedute, oltre alle vedute dei borghi della periferie, delle strade strette, umide, d’inverno coperte di neve, sono un potente stimolo visivo che nel ragazzo sollecitano l’amore per la pittura. Diventare pittore è la sua grande aspirazione. Dipingere vedute della città, panorami, scorci di strade periferiche fotografate e riprese nel disegno e nella pittura è l’attività che lo riempie negli anni dell’adolescenza, e  che cerca di perfezionare, ispirandosi ai pittori dell’impressionismo francese: Monet e soprattutto Utrillo. Proprio il suo amore per la pittura lo accompagna a conoscere la fanciulla che sarà il suo primo amore, e anche la sua prima modella. E proprio il suo desiderio di diventare pittore porrà fine a questo amore osteggiato dal padre della ragazza, che teme che la figlia possa essere coinvolta in una vita da bohème.

Questo timore è anche il timore della madre, che spinge il figlio a non interrompere gli studi universitari, e di rinviare la scelta a dopo il compimento degli studi. Orhan resiste alle pressioni materne, ma alla fine, proprio nell’ultima riga del libro «Non diventerò pittore, – dissi. – diventerò scrittore, io».

Ma anche come scrittore il fascino dell’immagine in lui è sempre vivo e presente: il libro infatti è riccamente corredato da numerose fotografie, in gran parte si tratta delle splendide fotografie in bianco e nero di Ara Güler, ma anche di Selahattinn Giz, di Hilmi Şahnek, Abdullah Biraderler (bellissime ville di legno, poi andate distrutte), e di altri, come anche fotografie della famiglia. E inoltre dalla riproduzione di diversi disegni di Antoine-Ignace Melling.

Leggi la Lezione di Orhan Pamuk al Premio Nobel (2006) 

Scrivi un commento