ORIZZONTE MOBILE, di Daniele Del Giudice
In una lettera a Repubblica, Daniele Del Giudice scrive di essere stato colpito dal fatto che si parlasse del suo ultimo libro come destinato a vincere il premio Strega 2009. Non era sua intenzione partecipare alla selezione del premio – ribadisce – né sua né dell’editore. Questo non perché non gli faccia piacere il riconoscimento pubblico, quale può manifestarsi nella vittoria ad un premio letterario («Anche a Montale piacevano i premi, a Quasimodo più ancora che a Montale, piacevano a Carlo Emilio Gadda, per quei pochi che ebbe, piacevano a Pirandello o a Pasolini.» scrive Del Giudice); e neppure perché non stimi e non riconosca l’importanza del premio Strega (anche se, vista la «baraonda di chiacchiere da cui è circondato», ritiene che non sia facile la scelta del vincitore). Ma Orizzonte Mobile, come tutti i libri, una volta usciti dalla penna dello scrittore, assume una propria autonomia. «Il libro stampato non ci appartiene più, e il nostro accompagnarlo è un po’ ridicolo, come se uno pretendesse di spingere avanti ciò che è stato prima. Un premio non riconosce l’autore, serve piuttosto a far conoscere un libro che va comunque per il mondo per suo conto.»
Con queste parole, e con la notizia di essere impegnato nella scrittura di un nuovo romanzo, Del Giudice affida Orizzonte mobile al lettore, il quale è l’unico a poter esprimere un giudizio.
Bene, io sono appunto un lettore, e ho letto il libro.
In realtà, non posso dire che non mi sia piaciuto. Devo però dire che mi è mancato l’entusiasmo della lettura. Forse si tratta di un argomento che non mi coinvolge a sufficienza.
Il libro narra il viaggio dello scrittore in Patagonia, Terra del Fuoco e prolungato fino all’Antartide, a oltre 60 gradi di latitudine sud. Inizia con l’arrivo a Punta Arenas, la città più meridionale del globo, e prosegue con le descrizioni del paesaggio, con le sue cime innevate, i suoi ghiacciai, le sue pampas deserte e ricoperte di vegetazione gialla, i canali nei quali si dirama lo Stretto di Magellano, le infinite isole, isolette che lo popolano, i relitti delle navi che vi sono naufragate; parla del tempo altamente incostante, e inclemente, con folate di vento che si alternano a calma piatta, tempeste subitanee che sorgono all’improvviso e altrettanto improvvisamente cessano. Queste sue puntate alla scoperta e all’ammirazione di un territorio poco noto al turismo di massa, si alternano con il riporto dei diari di alcune spedizioni esplorative del XIX secolo: in particolare di quella Belga, guidata da Adrian de Gerlache de Gomery, e di quella argentina, guidata dall’italiano Giacomo Bove. Così la descrizione del viaggio-gita di Del Giudice sembra quasi immedesimarsi con una vera operazione esplorativa; quelle che sono osservazioni sporadiche, vengono ravvivate da questa alternanza e ci si presentano come una vera offerta di un paesaggio, di un clima, di una popolazione, sia aborigena, sia colonizzatrice, sia missionaria.
Il racconto scorre molto bene: le descrizioni ambientali si trasformano in sentimenti, emozioni.
Le escursioni nella terra del fuoco osservano luoghi storici, come il Fuerte Bulnes, non lontano da Punta Arenas, punto di partenza dell’espansione cilena in Patagonia, le antiche prigioni dove venivano rinchiusi i dissidenti dei vari regimi, gli ammutinamenti e le stragi, la fondazione di Missioni, la ricerca e gli incontri con gli indigeni, la nascita delle “fazende” con l’allevamento delle pecore importate dalla Falkland, ma anche ricordi più recenti, condivisi da abitanti del luogo, come il colpo di stato di Pinochet e le stragi di oppositori che ne sono conseguite. Il racconto delle escursioni di Del Giudice si alterna con i diari delle spedizioni dell’ottocento, che danno conto della storia tormentata di queste regioni: e così il libro è arricchito, in alternanza con il resoconto del viaggio di Del Giudice, delle descrizioni delle difficoltà della Belgica, la nave di de Garlache, il suo arenamento in uno dei canali dello stretto di Magellano e gli sforzi per liberarla e per consentire la prosecuzione della missione; oppure delle vicissitudini della San José, la nave della spedizione Bove, che, in rotta nell’intrico di canali oltre lo stretto di Magellano, per l’esplorazione delle isole della Terra del Fuoco, incappa in un avventuroso naufragio nella baia di Slogett, e l’equipaggio deve essere salvato dalla nave Allen Gardiner che, tuttavia, a sua volta rischia il naufragio nelle stesso circostanze della San José. Nei diari di Bove si trovano anche le descrizioni degli aborigeni fuegini, le tre tribù degli Alakaluf, degli Ona e soprattutto degli Yagan, ridotti in numero sempre minore, in parte distrutti dalle malattie, in parte dalla colonizzazione e dall’estendersi delle “fazendas”, nonostante gli sforzi delle missioni per cercare di salvarli.
Dopo la Terra del Fuoco, il libro prosegue con il viaggio in Antartide, a bordo di un velivolo militare cileno. Il protagonista assoluto di questa regione è la banchisa. La banchisa polare, con la sua infinita distesa di ghiaccio sembra essere costantemente in agguato per imprigionare o addirittura stritolare le navi che vi si addentrano. Sugli iceberg, sui picchi di ghiaccio delle isole, sugli hummocks una fauna variopinta: pinguini nelle diverse varietà, albatros, elefanti marini, foche, e tante altre specie, spesso gelose del proprio territorio, come gli skua che lo difendono da ogni intrusione, si mostrano all’occhio del viaggiatore. Gli edifici sofisticati di basi scientifiche di ogni nazione sollecitano ricordi, come quello di due scienziati tedeschi che, inviati in Antartide dal governo della DDR, dopo la caduta del muro, non possono rientrare in patria perché il loro passaporto non è più riconosciuto: come dire «apolidi in Antartide». Oppure quello della base sovietica Družnaja 1 che sparisce improvvisamente ancor prima di essere occupata, e che viene ritrovata da un satellite mentre naviga su un Iceberg tabulare, lontana centinaia di chilometri. O ancora, il ricordo di pionieri che spesso hanno rischiato e a volte perso la vita nel corso delle loro esplorazioni. Del Giudice racconta episodi di quelle spedizioni, che popolano di tragedie umane, speranze, gesti di solidarietà quelle sterminate distese di bianco, altrimenti disumane. Shackleton, ad esempio, grandissimo esploratore protagonista di una delle avventure più tragiche ma anche più commuoventi delle esplorazioni antartiche, quella dell’Endurance, che, incaricata di fare la prima traversata integrale del continente, fu imprigionata dalla banchisa nel mare di Weddell e costrinse Shackleton e i suoi uomini a trascorrere quasi un anno e mezzo isolati nel ghiaccio. Solo un’audacissima impresa del capitano, che in una barca a remi, in condizioni climatiche spaventose, navigando per centinaia di chilometri riuscì a raggiungere la Georgia del Sud, potè trovare l’aiuto necessario per tornare all’isola Elephant e salvare tutti i componenti dell’equipaggio. Assieme a quella di Shackleton, Del Giudice ricorda anche le altre memorabili imprese, come la gara fra Amundsen e Scott per raggiungere per primi il polo, vinta dal norvegese, e che costò la vita, durante il ritorno allo stesso Scott e ai componenti della spedizione, fra cui Wilson; oppure anche le imprese di un italiano finito nel dimenticatoio, il tenente Giovanni Duse, che anch’egli, durante la spedizione esplorativa di Nordenskjöld, a seguito delle frequenti difficoltà della navigazione polare dovette passare un anno sulla banchisa. Tutti episodi narrati con un grande senso di partecipazione, in un linguaggio scorrevole, frutto di una mente curiosa e affascinata dalla conquista geografica più difficile per l’uomo, e dalla aspra bellezza di quei panorami. Anche in questa occasione, il racconto di Del Giudice è ravvivato con l’alternanza del diario di bordo della spedizione del Belgica, di de Garlache che, come tanti altri, si è trovato prigioniero della banchisa, nella quale ha dovuto passare molti mesi prima di riuscire a liberare la nave e rientrare. Nel racconto di Grlache prende vita la quotidianità di questi eventi terribili, i frenetici tentativi di liberazione, l’angoscia e la paura di non farcela, l’organizzazione necessaria per la sopravvivenza, gli sbandamenti mentali (frequenti nella lunga notte polare, e che rientrano solo quando il sole comincia nuovamente a farsi vivo), l’orrore quando uno di loro non regge, si ammala e muore, etc.
In conclusione il libro riesce a trasformare un semplice resoconto di viaggio, in una esperienza che avvicina il lettore a un episodio della storia umana, l’esplorazione del profondo e inospitale sud del globo, in genere poco conosciuto e spesso trascurato.