CONTA LE STELLE, SE PUOI di Elena Loewenthal

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Il romanzo potrebbe essere definito una saga: la saga di una famiglia di Ebrei piemontesi, che inizia con il viaggio di “nonno Moise” da giovane. Tirando il suo carretto di stracci, egli si allontana dalla casa dei genitori a Fossano e inizia la sua conquista del mondo.

Nonno Moise è intraprendente, saprà sfruttare la propria abilità nel commercio, diventerà ricco, o quanto meno benestante, si sposerà, avrà diverse figlie che a loro volta si sposeranno dando luogo a una discendenza; dopo la morte della prima moglie, si risposerà, e avrà ancora figli. E gradualmente la famiglia si ingrandirà, con nuovi matrimoni figli e nipoti, che, appunto, daranno vita a una saga. È la saga di una qualunque famiglia, piemontese, italiana, ebrea, non vuol dire, ma, ovviamente, con le sue particolarità. Una famiglia unita per quanto riguarda affetti, ricordi, addirittura somiglianze fisiche; ma dispersa, o meglio disseminata. Le decine di figli, nipoti, pronipoti partono per andare a sistemarsi in ogni angolo del mondo. C’è chi andrà in Israele diventando sionista, c’è chi andrà nelle Americhe, c’è chi rimarrà in Italia, ma cambiando regione (per esempio la Sardegna). In tutto questo andare, che con un certo dispiacere, ma neppure troppo, nonno Moise constata, si è voluto vedere la vocazione alla diaspora del popolo ebreo; diaspora come difesa dell’identità messa a rischio dagli eventi della storia, ma anche diaspora come punizione di Dio. La Loewenthal vuole rovesciare questa concezione. La diaspora della famiglia di nonno Moise non è provocata da fatti negativi, non è sintomo di una punizione, ma al contrario, è l’idea di una proliferazione, di una volontà di popolare il mondo di persone normali, affezionate alla famiglia, al lavoro, speranzose nel futuro.

Ecco, proprio questo “rovesciamento”, al quale la Loewenthal ci chiama, è un po’ la chiave di volta del libro: questa famiglia ebraica, la cui storia comincia alla fine dell’Ottocento, percorre le sua microstoria in un Paese la cui macrostoria non è propriamente quella verificatasi e che conosciamo. Nel 1922 ci sarà, sì, la marcia su Roma, Mussolini, prenderà il potere, ci sarà il delitto Matteotti. Ma il fascismo non sarà in grado di rovinare il Paese. Nel 1924 Mussolini morirà preda di una attacco apoplettico.

La storia avrà così un percorso del tutto diverso: non ci saranno leggi razziali, non ci sarà la seconda guerra mondiale, non ci sarà la Shoah. Il 1938, anno storicamente terribile, l’inizio delle persecuzioni sistematiche contro gli ebrei, l’anno che ha aperto le cateratte della guerra, che ha portato alla Shoah, per la Loewenthal è diventato invece l’anno splendido della nascita dello Stato di Israele, della partenza del Re e dell’origine della Repubblica Italiana. Le vicende della famiglia dei discendenti di nonno Moise non avranno le tragiche conseguenze che nella realtà si sono verificate. Al contrario, esse si dipaneranno in modo “normale” come le vicende di qualsiasi altra famiglia, fra matrimoni, nascite, affetti, gelosie, carriere, etc, popolando il mondo con la loro vivacità, con le loro prospettive, dove l’essere ebreo è una normale evenienza come quella di professare altre religioni o di aderire ad altre culture. Il libro, anche se si chiude con la morte di nonno Moise (proprio nel 1938), e ha qualche appendice posteriore per arrivare fino al 2003 seguendo la vita e gli avvenimenti di alcuni nipoti, o bisnipoti che sia, di fatto non ha una fine: è solo un segmento di una retta che si prolunga all’infinito: la vita continua.

C’è da citare una frase della Loewenthal in nota al libro: “Ho cercato di lasciare tutto o quasi com’era e come è stato, ma senza la Shoah. Perché la Shoah non sta dentro, sta fuori dalla nostra storia. È silenzio di morte, invece che vita e parole”

Per questo proposito, il libro non può non suscitare la mia ammirazione e la mia condivisione.

Purtroppo, questa mia ammirazione per la scrittrice e per lo stimolo che l’ha ispirata e sostenuta nel costruire la storia, non si estende al libro come offerta alla lettura. Non che la Loewenthal non sia una brava scrittrice. La sua lingua è scorrevole, piana, dolce, non aliena a osservazioni di leggera ironia. I caratteri sono ben delineati: i principali (forse non si possono chiamare protagonisti veri e propri) in buon dettaglio, gli altri un po’ schizzati, ma abbastanza riconoscibili. La macrostoria è dichiaratamente falsa. Ma la Loewenthal sa benissimo che la storia non si fa né con i se, né con i ma. E la deformazione della storia, per quanto del tutto improbabile dal punto di vista della verosimiglianza (non è affatto pensabile che la morte di Mussolini abbia cambiato i destini d’Europa, o addirittura del mondo) è stata voluta e semplificata proprio per ottenere quello scopo intrinseco all’affermazione citata in nota al libro. Quindi neppure questo aspetto, a mio avviso, può essere fonte di critica.

Quello che invece credo che sia criticabile nel libro è che non c’è una vera e propria storia. La Loewenthal parla di Favola. In realtà io leggo frammenti di Favola che tuttavia, anche messi assieme, non riescono a costruirne una complessiva. E allora, in nota al libro la scrittrice sente la necessità di disegnare tutta la genealogia della famiglia, e poi addirittura una cronologia degli eventi che la riguardano, senza le quali spiegazioni, si rischia di perderci, o meglio di disperderci, proprio come la famiglia della saga.

Alla fine la lettura non è stata per me avvincente, ma abbastanza noiosa.

 

Nel merito poi delle vicende ci si potrebbe porre delle domande: ad esempio, nonno Moise è preoccupato per la marcia su Roma e odia Mussolini (o Musolino, come lo chiama lui, negandogli il plurale). Perché? Perché è ebreo è ha la premonizione che farà le leggi razziali? Mi sembra improbabile. L’ostilità a Mussolini era specificamente radicata nei socialisti. Nonno Moise è socialista? Non viene detto. E oltretutto non vi sono indizi in quel senso.

Altro aspetto: Nonno Moise è italiano. Lo afferma e lo sostiene fino al punto di vietare che in casa sua si parli il francese o il dialetto piemontese. L’Italia è unita e la lingua è l’italiano, dice in diverse occasioni. Ma anche qui non è chiaro da dove nasca questo sentimento patriottico. C’è un profondo senso di riconoscenza per Carlo Alberto: ma non perché si sia impegnato a conseguire l’unità d’Italia, ma perché ha liberato gli ebrei dal Ghetto. Certo, questa riconoscenza è ultracomprensibile, ma non ha nulla a che fare col sentimento nazionale.

Non solo, ma l’Unità d’Italia è stato un fenomeno controverso. Secondo alcuni, non a torto a mio avviso, più che una vera unità è stata una espansione del regno di Sardegna con una vera e propria colonizzazione del meridione da parte della monarchia sabauda. Qual’era il vero modo di pensare degli ebrei piemontesi? Quali collegamenti, quali sentimenti nazionali potevano condividere, ad esempio, con gli ebrei del regno delle due Sicilie? Carlo Levi dà una lettura molto diversa in Cristo si è fermato a Eboli.

La Loewenthal, nel libro, cerca anche di entrare nel merito della nascita del sionismo come sentimento (che possiamo definire) patriottico. Giustissimo. Ma non valeva la pena di approfondire, o anche solo accennare, come le comunità ebraiche del Nord si rapportavano alle comunità ebraiche del Sud nell’ambito dell’Unità nazionale?

Un’ultima osservazione. La saga riguarda una famiglia di ebrei (o una famiglia ebrea?). Quindi è ovvio che i personaggi protagonisti siano ebrei; che i rapporti fra i parenti siano rapporti fra ebrei, e che quindi i problemi che contribuiscono a legarli o a dividerli (per esempio la circoncisione, le feste religiose, i simbolismi, etc) siano legati al mondo dell’ebraismo. Ma rapporti con i non ebrei non esistono? Nel libro non se ne fa cenno. Vi sono due persone non ebree che entrano nella storia. Una è la seconda moglie di nonno Moise, che viene convertita e farà parte della cultura ebraica a tutti gli effetti. L’altra è un personaggio del quale si dice che sembra essere cristiano, ma non se ne sa più nulla. Ma, poiché gli ebrei hanno festeggiato oltre che apprezzato la libertà che un monarca sabaudo ha concesso loro, non era il caso di, se non approfondire, almeno offrire il senso del rapporto fra due culture che si incontrano, uscendo da una stato di subordinazione l’una nei confronti dell’altra? Se si immagina la storia della famiglia (comunità) ebraica senza la Shoah, non è impossibile pensare che questa storia “ripulita” abbia influenzato anche i non ebrei e quindi anche i rapporti fra ebrei e gentili. Forse valeva la pena di soffermarcisi.

In conclusione, credo che il mio giudizio sul libro non possa essere positivo. Il tema toccato, le esigenze sentite dalla scrittrice, secondo me, avrebbero potuto trovare un modo più efficace e convincente per essere espresse.

Ascolta l’intervista a Elena Loewenthal a Fahrenheit su radio3 

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