CARMEN alla Scala: riflessioni sulla messa in scena
La Carmen è forse l’opera più rappresentata in assoluto nei teatri. Su di essa sono stati scritti fior di articoli e di analisi. Parlarne sembrerebbe commettere un atto di presunzione. Tuttavia se voglio cercare di esprimere qualche cosa di sensato su una rappresentazione in ambiente teatrale, credo che qualche riflessione, almeno per esprimere ciò che di questa opera ho capito, e di conseguenza ciò che ho capito della sua messa in scena, mi sembra necessario fare. L’attributo che continua a venirmi alla mente quando penso a quest’opera è “perfezione”.
Perfezione nella drammaturgia, perfezione nell’ambientazione, perfezione nella caratterizzazione dei personaggi, perfezione nella musica come linguaggio che esprime i diversi elementi costitutivi, e perfezione soprattutto nella loro interazione.
La drammaturgia: quattro atti, quattro punti della curva. Nel primo atto la seduzione, nel secondo atto la passione, nel terzo atto la crisi, nel quarto atto la morte: in sostanza la struttura dell’opera.
L’ambientazione realizza sulla scena la drammaturgia nei quattro atti: le strade neutre di una cittadina, una taverna dove si danza e si beve in allegria, una selvaggia montagna notturna, una strada davanti alla plaza de toros, dove si sta celebrando un rito di morte. Questa è la sovrastruttura.
I personaggi protagonisti, presentati nel primo atto con il loro carattere, sviluppano le loro tensioni nel procedere della vicenda in modo gradualmente crescente fino al culmine della tragedia.
La musica è il linguaggio che esprime gli aspetti dell’articolazione drammaturgica, con temi appropriati e altamente espressivi, nell’orchestra e nel canto.
Tutto questi elementi convivono in una costruzione di grandissimo equilibrio, dal ritmo incalzante, fatta di contrasti, di accelerazioni, di momenti di pausa, di improvvise forzature che tengono l’ascoltatore incollato fino alla fine. A me sembra appropriato parlare di “perfezione”.
Con queste premesse, mi sembra logico pensare che un allestimento che si rispetti debba saper esaltare lo sviluppo drammaturgico nei suoi costituenti (seduzione, passione, crisi, morte) sviluppandone, sulla base di una interpretazione coerente, le caratteristiche sovrastrutturali, cioè ambientazione, scenografia, carattere dei personaggi etc. In sostanza, mi sentirei di dire: fare teatro.
La sensazione che mi ha provocato la messa in scena di Emma Dante è quella di avere assistito a vero teatro, direi, se mi è consentito, grande teatro.
Questo credo che sia possibile affermarlo dopo aver visto l’opera in sala. La visione del palcoscenico nella sua estensione mi ha dato una sensazione molto più ricca di quella che ho potuto constatare nella visione TV. I movimenti dei personaggi e delle masse, le luci che creano contrasti chiaroscurali, la profondità prospettica delle scene, sono tutti fattori che danno vita e vivacità all’ambientazione, e affascinano lo spettatore che si sente compartecipe, quasi immerso nella vicenda. Ciò, per forza maggiore, non accade nella piatta immagine offerta da uno schermo, anche elaborato dai migliori registi del video.
Emma Dante, a mio avviso, ha saputo creare quella vivacità richiesta attraverso un’ambientazione ricca di spunti inventivi, fortemente caratterizzata da simbologie che esaltano la drammaturgia.
Gli ambienti sono quelli classici nei quattro atti, le scenografie sono ben descrittive. La vivacità viene creata soprattutto dai movimenti della masse, che sfruttano pienamente l’ampio spazio del palcoscenico, dai reciproci rapporti dei protagonisti, dalla fitta rete di simbolismi che accompagnano l’azione e che ne interpretano il significato in funzione della struttura.
Ad esempio nel primo atto, la seduzione non è da ricercare solo nell’habanera o nella seguedilla, che, certamente sono i momenti cruciali; i movimenti e i costumi delle sigaraie, sottovesti bianche che lasciano intravvedere braccia e gambe candide che si agitano, si annodano, si scontrano, attorno alla vasca centrale piena di fiori assieme alle ragazzine che circondano Carmen mentre canta, oppure ancora nel momento della rissa, sono strumenti che creano nello spettatore un’attesa di qualche cosa che ha a che fare con l’attrazione sessuale. E così come, proprio per forma di contrasto fra i momenti cruciali della seduzione, si interpone la presenza di Micaela e il ricordo della madre. Micaela, espressione del perbenismo, è sempre seguita (anche nel terzo atto) da due chierici che portano una croce (inclinata, tuttavia) e da un prete dal cappello e dalla tonaca nera (qualcuno ha osservato: una specie di leitmotiv visivo), e nel momento culminante del suo colloquio con José trasforma con un gesto l’abito nero che indossa in un abito bianco da sposa. La seduzione non viene realizzata con i tradizionali ammiccamenti di Carmen agli uomini che la circondano quanto canta l‘habanera, ma con un complesso richiamo della donna come offerta e attrazione sessuale, quindi portatrice di tentazione e di peccato, e alla religione come contrasto inefficace. E già nel primo atto la seduzione, che si manifesta più come sofferenza che come gioia (vedi le grosse e visibili corde che legano Carmen che deve essere portata alla prigione), si accompagna a un presagio di morte: al levarsi del sipario, appena spente le note del tema del destino del preludio, il palcoscenico è attraversato da un carro funebre sovrastato a una statua tutta ammantata di nero.
Nel secondo atto, quello della passione amorosa, l’ambientazione nella taverna di Lilas Pastia è pervasa da grande allegria, canti e danze (uno splendido crescendo associato ad accelerazione dei tempi che culmina con un turbine sonoro, ben rappresentato sulla scena da una danza collettiva frenetica, che ricorda il Bolero di Ravel). Ma subito dopo, in modo quasi inapparente fanno nuovamente la loro comparsa i presagi di morte. Escamillo canta le sue couplets a una folla festosa, mentre lugubri figure bianche mascherate dipanano sulla scena cartelloni che illustrano la morte del toro. Queste figure bianche mascherate saranno sempre presenti al seguito del torero (altro leitmotiv visivo) nei vari atti.
Il quintetto che segue è uno dei passaggi più avvincenti dell’opera. I cinque stanno programmando una spedizione. La Dante ha preferito popolare la scena con gruppi di contrabbandieri che sul fondo giocano a carte, per evitare che il palcoscenico rimanga semivuoto troppo a lungo. La scena così si anima e ci prepara alla parte centrale dell’atto.
La scena della passione è mostrata in modo abbastanza tradizionale: una specie di tappeto steso a terra, con candelabri, brocche, piatti di ogni ben di Dio. Qui la regista ha ritenuto non necessario richiamare altre sensazioni se non quella dello scontro-incontro amoroso fra i due protagonisti. Carmen ballerà, da brava gitana, una danza spagnola con accompagnamento di castañuelas (in questo caso suonate nell’orchestra) che culminerà, dopo un transitorio vivace contrasto, in un bellissimo assolo del corno inglese e nella dolcissima romanza “La fleur que tu m’avais jetée”; è la svolta decisiva nel rapporto fra i due, e, soprattutto, nella vita di José. Molto bella in questo episodio è la temporanea ma repentina ribellione di Josè ai suadenti inviti alla libertà che gli fa Carmen: un brusco accordo sul quale José si retrae prontamente, e che mi ha ricordato l’episodio in cui Parsifal si ribella alla seduzione di Kundry.
Il terzo atto è preceduto da un sognante interludio, dove arpa e flauto evocano una serena notte con chiaro di luna. La scena rappresenta proprio questa notte “musicale”, con un colore di un limpidamente intenso blu illuminato al centro da un dolce chiarore. Una specie di bosco di alberi fatti da uomini rivestiti portanti sulla testa un cespuglio domina l’arredo scenico. Gli stessi uomini poi popoleranno la scena, spogliandosi e deponendo i cespugli sul terreno. Sullo sfondo si snoda l’erta salita percorsa dai contrabbandieri carichi di pesanti colli nella loro stanca marcia ben descritta dall’orchestra. I momenti chiave dell’atto, secondo me sono due: il trio delle carte e il duello. In entrambi sovrasta una premonizione di morte, questa volta molto intensa ed esplicita. Nel trio delle carte, Carmen invano cerca una via di fuga: la carta “impitoyable” gli predirà che il suo destino è la morte, “Toujours la mort!” E mentre Carmen canta, persone velate, quasi fantasmi della notte, disseminano di croci la scena sopra corpi di persone sdraiate e immobili, apparentemente morte. Una cosa straordinaria di questo trio è l’alternanza di tono, di colore fra le strofe cantate da Mercedes e Frasquita di sorridente leggerezza, e l’intervento drammatico centrale di Carmen: alternanza che si propaga sulla scena quando i corpi morti che appaiono tali durante il canto di Carmen, si ravvivano e riprendono la loro veste di contrabbandieri in procinto di compiere la spedizione durante il canto di Mercedes e Frasquita.
Il duello fra José e Escamillo in questo allestimento viene proposto integralmente: Escamillo combatte solo per difendersi, e quando ha ragione di José, lo grazia, per essere immediatamente dopo aggredito a tradimento da quest’ultimo. Sarà salvato dal tempestivo intervento di Carmen. Ciò, nonostante le imprecazioni e la violenza di José, determinerà la crisi e la svolta conseguente. L’amore di Carmen per José si sta spegnendo e sta nascendo il nuovo tragico rapporto col torero. La morte farà nuovamente il suo ingresso spietato e violento nella scena finale quando Micaela, sempre seguita dai tre religiosi che portano la croce, cercherà, inutilmente, di strappare José al suo destino. L’annuncio della morte della madre, e la tragedia che ne seguirà, viene qui simboleggiata dalla morte (non prevista nel libretto) di Micaela che, anche in questa occasione dismette l’abito nero per vestire nuovamente l’abito da sposa. Viene riproposto l’andamento ellittico della drammaturgia con un palese richiamo al primo, inutile incontro di José e Micaela nel primo atto.
Nel quarto atto la tensione sembra dissolversi in un intermezzo di musica tipicamente spagnola e nella festa di popolo che precede la corrida. Ma la corrida è comunque un simbolo di morte, e lo scontro fra Carmen e José si svolgerà sotto questa egida: dapprima in toni lamentosi, supplichevoli, poi sempre più violenti: dalle suppliche alle minacce, dalle minacce alla violenza e allo stupro, fino alla morte e alla disperazione. La morte di Carmen non si vede, non c’è bisogno di mostrarla. All’atto stesso della coltellata un gruppo di donne vestite di nero la circonda e la sottrae agli occhi dello spettatore. In compenso, mentre José manda l’urlo disperato “ma Carmen adorée!” il carro funebre che ha dato inizio alla rappresentazione, la chiude percorrendo lo spazio scenico in direzione invertita. Il cerchio della drammaturgia si chiude definitivamente.
In sostanza quello che ho avuto la possibilità di vedere è stato uno spettacolo avvincente, teso, perfettamente coerente con il ritmo incalzante dell’opera di Bizet e rispettoso dell’equilibrio che si dipana lungo i quattro atti. Non è un caso che nelle prove ci sia stata una stretta collaborazione di regista e direttore d’orchestra, come documentato dallo speciale di Chetempochefà.
Certamente, se si scende nei particolari si possono fare osservazioni di varia natura, e in effetti molte, più o meno secondo me giustificate, ne sono state fatte. Una delle più criticate è stata lo stupro alle fine del quarto atto. Ovviamente non concordo con una critica di questo genere. Siamo in un teatro, e forme di realismo, anche estreme, che sottendano una simbologia, non mi sembra che possano essere definite scandalose. Altre critiche, sono state portate alla realizzazione del quintetto in un ambiente affollato. Anche questo ha una spiegazione di equilibrio scenico generale, e non mi sembra che interrompa o modifichi lo svolgimento della vicenda. Qualcuno ha trovato ridicola la trasformazione di Micaela, altri la scelta di farla morire all’annuncio della morte della madre di José, altri ancora hanno trovato non pertinente la scena dei coltelli in mano alle fanciulle; qualcuno addirittura ha parlato di un’ambientazione più siciliana che spagnola, e così via. Certamente ogni aspetto della messa in scena può essere sottoposto a critiche più o meno giustificate, o più o meno condivise. Quello che però a me sembra importante è che la realizzazione nel suo complesso sia stata affascinante, e, come ho già detto, definibile come vero, grande teatro.
La realizzazione musicale è stata di ottimo livello. La direzione di Barenboim è stata effervescente già a partire dal preludio. I colori orchestrali molto vivaci, o intensamente romantici, o, al contrario, nei momenti critici, cupi e ricchi del presagio di morte che la musica non lesina di preannunciare. Sullo stesso livello si possono mettere le voci: ottimo Kaufmann, che col canto è riuscito a dare una veste al comportamento succube di José, al suo perenne conflitto interiore (il “canari”, come lo definisce Carmen), alla sua irrazionale (?) gelosia, alla sua violenza e alla sua disperazione. Carmen interpretata da Anita Rachvelishvili, si è dimostrata una Carmen di tutto rispetto. Ha cantato molto bene, interpretando nel canto il suo essere fonte di seduzione. E questo è tanto più significativo in quanto è una debuttante: certamente alla Scala e nella Carmen, ma credo anche in assoluto. Forse un briciolo di esperienza in più l’avrebbe aiutata ad accentuare la sensualità, elemento che credo indispensabile per caratterizzare l’affascinante zingara. Sono convinto che, se non rovina la voce, come spesso accade dopo successi improvvisi e magari inaspettati, potrà diventare (se ancora non è già) una grande mezzosoprano.
Pur essendo entrambi eccellenti, avendo contribuito al successo della rappresentazione, un gradino più basso mi sembra siano collocabili Erwin Schrott nel ruolo di Escamillo e ancor più Adriana Damato nel ruolo di Micaela. Di Schrott direi che il suo difetto principale è quello di apparire un personaggio forse un po’ troppo “leccato”. La Dante ha voluto interpretare il ruolo di Escamillo, secondo me, con una sottile ironia, macabra, se vogliamo (è un apportatore di morte) ma certamente non eroica; non mi sembra che Schrott abbaia saputo realizzare in modo soddisfacente il ruolo assegnatogli. Adriana Damato mi pare che abbia mostrato dei limiti vocali, e dal punto di vista interpretativo mi è sembrata piuttosto piatta. I suoi interventi, sia nel duetto con José nel primo a atto, e soprattutto nel’aria del terzo atto non mi sono sembrati memorabili.
Buoni incondizionatamente i personaggi minori: Frasquita (Michéle Loisier) Mercedes (Adriana Kucerova) Il Dancairo (Francis Dudziak), il Remendado (Rodolphe Briand), Zuniga (Gabor Bretz) e Morales (Mathias Hausmann).
Applausi entusiastici e commenti molto favorevoli si sono avuti sia alla fine degli atti che alla fine dell’opera.
Leggi l’analisi musicale di Jean de Solliers su ASO
Vedi il post sulla rappresentazione della Carmen al Teatro degli Arcimboldi del 30 giugno 2004