DA UNA CASA DI MORTI alla Scala. Riflessioni sull’opera e sulla rappresentazione
Nell’attesa di vedere l’opera di Janáček alla Scala, mi sono dedicato alla rilettura di Memorie da una casa di morti, il romanzo di Dostoevskij dal quale il compositore ha tratto il libretto. È stato molto interessante, non solo per la bellezza del libro di Dostoevskij, ma perché mi ha aiutato a capire le scelte di Janáček sia in merito all’organizzazione drammarurgica, sia in merito all’organizzazione della musica, e sia come la musica abbia saputo ricostruire quegli stati d’animo che danno al libro una vigorosa forza rievocativa della dolorosa realtà di un bagno penale siberiano.
Il libro non ha una struttura cronologica, ma si sofferma sui vari particolari della vita carceraria e del lavoro forzato. I detenuti per lo più rifiutano di raccontare le vicende che li hanno portati al bagno penale, ma alcuni di loro si dilungano a descrivere gli eventi che li hanno coinvolti. Il lavoro forzato esercita su di loro impulsi contradditori: un lavoro palesemente inutile li umilia, e vi reagiscono facendo di tutto per rifiutarlo; in altre occasioni e in altri soggetti, invece stimola l’orgoglio dell’impresa compiuta, del risultato, qualunque esso sia e qualunque sia la sua utilità, ottenuto. Una descrizione particolarmente vivace è quella dell’episodio della recita Natalizia, che porta un minimo di varietà e di vitale interesse in quel mondo appiattito e lugubre. Alcuni forzati si improvvisano attori e allestiscono una recita teatrale a profitto degli detenuti, che si accalcano come spettatori. L’atmosfera è allegra e allenta per qualche giorno la tensione sempre presente in un mondo carcerario. In quella occasione anche la rigidità di comportamento della guardie si attenua e sembra estendersi su tutta la comunità un’atmosfera di quasi cordialità. Per finire, l’attenzione dello scrittore è anche attratta dalla natura siberiana, da quel bianco lenzuolo che si estende oltre l’orizzonte visibile al di là delle rive del fiume Irtiš: una natura ostile, certo, ma anche di una bellezza straordinaria, che si apre agli occhi dei forzati, ogni volta che devono uscire dalla recinzione per recarsi al lavoro forzato, come un prepotente invito alla libertà. Poiché questo, in fondo, è il sentimento che sopravvive, nonostante tutto, anche se inconfessato, negli animi dei forzati. Janáček affronta i temi del libro con enorme entusiasmo, e imposta l’opera proprio su questo prepotente invito alla libertà, facendovi ruotare attorno tutti i principali temi, a partire dal tema della sofferenza: non ha caso l’opera comincia con la cattura di un’aquila ferita, e con la preoccupazione dei forzati per il suo destino («aquila, zar della foresta»), e termina con la sua guarigione e il suo volo a ricuperare il bene prezioso che ai forzati è ancora precluso. Anche se l’episodio dell’aquila nel romanzo è del tutto marginale, Janáček ha voluto farne il centro dell’opera, l’anello che si apre all’inizio per richiudersi solo alla fine, dentro il quale si svolge la realtà quotidiana. La libertà, tolta all’uomo a causa dei suoi delitti, può sempre essere riacquistata ed è incarnata dalla speranza che non muore mai. Il finale originale di Janáček non è né tragico né trionfale: la musica si sospende, o meglio diventa ripetitiva come se non dovesse finire mai, mentre sotto le imprecazioni delle guardie, i forzati marciano verso il lavoro. La libertà non è in loro possesso, certo, ma la liberazione di Gorjančikov e il volo dell’aquila («Vedi, non si volta neppure indietro») dimostra che la libertà esiste e che un giorno può essere anche loro. Janáček ricostruisce l’ambiente del bagno penale ricorrendo agli episodi descritti nel libro, senza tuttavia rispettarne l’ordine, fermando l’attenzione sia sui rapporti reciproci fra carcerati, come liti, rapporti di amicizia (particolare risalto viene dato all’amicizia fra Gorjančikov e Aljeja), sia sull’insieme del mondo dei forzati (l’opera ha una carattere corale, nel quale si potrebbe dire che il coro ha un ruolo da protagonista pari a quello dei singoli individui), sia sulla gioia della rappresentazione teatrale (in questo caso pasquale anziché natalizia, per poter sfruttare lo spazio aperto), sia sui racconti delle vicissitudini di alcuni carcerati (quattro per l’esattezza, uno nel primo atto, Luka; uno nel secondo atto: Skuratov; due nel terzo, dei quali l’ultimo, quello di Šiškov è il più lungo e complesso). In sostanza quello che a Janáček sembra interessare particolarmente è quello di trovare il ritmo espressivo che, più che la lettera del libro, ricostruisca le emozioni che Dostoevskij attraverso di esso ci comunica. E questo, nella trasposizione teatrale di un lungo racconto come le Memorie. Giocoforza quindi ridurre il numero dei personaggi, per cui episodi narrati nel libro e riferibili a due o più persone diverse, nel libretto dell’opera vengono attribuite a una sola persona. Quasi completamente invariato è l’episodio della recita teatrale dei detenuti, splendido esempio di teatro nel teatro, se si eccettua la collocazione primaverile anziché invernale, per poter eseguire all’esterno, sul campo di lavoro, la rappresentazione che occupa oltre la metà del secondo atto. Un aspetto drammaturgicamente significativo e che appartiene proprio alla ricerca e alla costruzione di un ritmo espositivo, è la trasposizione temporale, che interessa alcuni episodi: ad esempio, nel primo atto, Luka alla fine del suo racconto, descrive lo strazio della fustigazione cui è stato sottoposto in seguito all‘assassinio di un ufficiale, mentre proprio nello stesso momento torna sulla scena in condizioni pietose Goriančikov, reduce da una punizione totalmente immeritata. Un’altra trasposizione temporale molto evidente c’è alla fine del terzo atto, quando Šiškov descrive l’uccisione della moglie, sedotta da Filka Morozov, proprio mentre nella camerata dell’ospedale Luka, ivi ricoverato per una grave malattia, esala l’ultimo respiro. Si scoprirà ben presto che Luka non è altri che il Filka seduttore. Credo che sia interessante notare come nel terzo atto affiorino alcuni aspetti che potrebbero essere definiti come ispirati al Wozzeck di Berg. Nel terzo atto, il lamento nel sonno dei carcerati mentre Šiškov conduce il suo racconto ricorda il sonno dei soldati nella scena della caserma del Wozzeck. Il racconto dello sgozzamento della moglie da parte di Šiškov , ha lo stesso ritmo del racconto nel quale Wozzeck sgozza Maria. Il finale, in entrambe le opere, evita di assumere un tono di conclusione, più o meno trionfalistica, più o meno tragica, per suggerirci invece che tutto procederà come sempre, anche al di là del racconto e ben oltre la musica che lo ha espresso, e che le vicende narrate non sono altro che un piccolo anello nel fluire del tempo. Mi pare giusto ricordare che la prima rappresentazione del Wozzeck è stata del 1925, mentre Janáček ha cominciato a comporre l’opera alla fine del 1926. La musica, nell’esprimere le vicende e le emozioni si appella alla drammaturgia ripercorrendone il ritmo impressogli da Janáček. L’ouverture non contiene temi presenti nell’opera (con un’unica eccezione alla fine del primo atto): essa infatti, ci raccontano gli storici, era stata composta come parte di un progettato (ma non realizzato) concerto per violino e orchestra. Un aspetto sconvolgente è il passaggio fra la fine dell’ouverture e l’inizio dell’azione, annunciata da un tema straziante, altamente dissonante, costituito da quattro accordi con un timbro lancinante (acuti e gravi in contemporanea), seguito subito dopo da un lamento disperato affidato al corno inglese. Gli studiosi lo definiscono il tema della sofferenza o il tema motto. È il tema sul quale poggia la drammaturgia, e farà la sua comparsa in ogni momento particolarmente drammatico, come per esempio alla fine del primo atto, quanto Gorjančikov rientra in scena dopo la fustigazione. L’opera è assai ricca di temi, che in molti casi sono riferibili a personaggi o a eventi; ma mai nel corso dell’opera assumono il significato di leitmotiv, e meno che meno in senso wagneriano. Anzitutto, i temi sono sempre enunciati nell’orchestra, mentre alle voci è affidato un declamato generalmente drammatico. I temi ci si prospettano come il linguaggio con il quale viene descritta la situazione, spezzettandosi in frammenti che in parte tendono a ricostituirsi, portando a variazioni, modificazioni di vario genere che hanno il compito di dare evidenza agli sviluppi dell’azione. Si possono ricordare all’inizio i temi del comandante e della sua crudeltà gratuita, il tema della danza dei deportati, vari temi dei protagonisti dei racconti, etc. In questo senso funziona, in alcune occasioni, l’aspetto onomatopeico della musica: il rumore delle catene a piedi che compare ogni volta a ricordarci che siamo in presenza di persone non libere, il rumore della sega durante il lavoro dei deportati per demolire un barcone, il suono delle campane per la celebrazione della Pasqua, etc. Oltre al clima claustrofobico e ai temi che scandiscono l’azione descritta nel libro, Janáček non esita a entrare nel merito anche della descrizione del paesaggio: la tundra, il grande lenzuolo bianco che si perde all’orizzonte oltre l’Irtiš, come la vede Dostoevskij, fa la sua comparsa all’inizio del secondo atto con una voce fuori scena che esprime un canto struggente e che dà il senso di una lontananza irraggiungibile. La messa in scena. Chéreau ci presenta subito all’inizio la violenza di un ambiente claustrofobico. La prima scena, quella introdotta dal tema della sofferenza, ci mostra i deportati che si scagliano gli uni contro gli altri per arraffare un mestolo di sbobba in più, mentre le guardie, intervengono a distribuire con gioia bastonate a destra e a manca. Tutto questo in un ambiente grigio, disegnato da Richard Peduzzi, fatto da pareti incombenti, che allontanandosi o riavvicinandosi, inclinandosi, aprendosi e chiudendosi, creano spazi diversi (il reclusorio, il campo di lavoro, il luogo della rappresentazione teatrale, l’infermeria) che ci appaiono come uno spazio sempre uguale, vuoto o con qualche arredo (ad esempio qualche letto per significare l’infermeria), lo spazio chiuso della prigionia. L’inizio violento non fa altro che introdurci all’azione che inizia, nel libretto di Janáček, proprio con una lite fra il prigioniero alto e il prigioniero basso. Il clima di violenza continua con l’arrivo di Gorjančikov, trattato in modo brutale, spogliato, rasato, e subito dopo condannato alla fustigazione senza alcun motivo. Chéreau sottolinea in continuazione il fatto che siamo davanti a un ambiente disumano, nel quale le singole individualità si stemperano nell’affollarsi collettivo dei forzati, che nel loro insieme, si pongono come il protagonista reale dell’opera. Ad esempio è molto bella la scena, dopo l’inizio del primo atto, nella quale i forzati, uscendo seminudi da un’apertura laterale (il regista ricorda qui la scena del bagno collettivo descritta nel romanzo di Dostoevskij ma non presente nell’opera di Janáček), e sotto l’incalzare delle guardie, cantano il dolce e melanconico coro “Neuvidí oko již těk krajů” («I miei occhi non vedranno mai la terra»). Il lavoro forzato viene rappresentato da una pioggia di rifiuti che devono essere ripuliti, o da sacchi di scarpe che devono essere riparate. La fatica e l’umiliazione vengono qui rappresentate dal degrado di un lavoro lurido la cui violenza si esercita tanto sul fisico quanto sull’anima. Un momento di pausa nella violenza dell’opera lo si ha nella seconda parte del secondo atto, con le due rappresentazioni teatrali, Kedril e Don Giovanni, e la pantomima della Bella Mugnaia. Qui Chéreau dà luogo a una fantasmagoria di danze, corse, scene, duelli, comparsa di diavoli che sembrano erompere in una affannosa voglia di vivere, che per una volta viene lasciata libera di esprimersi. I quattro racconti vengono condotti in modo tradizionale, basati soprattutto sulle capacità espressive del cantante. Fra questi, tre sono i personaggi più in vista: Luka, personaggio strafottente, cupo che all’inizio racconta le sofferenze patite sotto la frusta e alla fine, al momento della morte si rivela essere il seduttore della sposa di Šiškov; Skuratov, che racconta la delusione amorosa e l’omicidio di colui che ne è stato il responsabile, responsabile di crescenti manifestazioni di pazzia, per le quali viene più volte assalito e immobilizzato dagli altri detenuti; e Šiškov che incarna il racconto più lungo e più articolato, quale si trova anche nel romanzo di Dostoevskij, e che ci offre il ritratto di un uomo privo di personalità, che subisce ingloriosamente le angherie di Filka Morozov-Luka che proprio in concomitanza con il racconto dell’assassinio di Akulina, esala l’ultimo respiro. L’interpretazione musicale di Esa-Pekka Salonen, il direttore finlandese, è stata superba. Grande nitidezza del suono, e chiarezza nella varietà timbrica con la quale i diversi temi e frammenti di temi vengono esposti. La varietà timbrica è un elemento importantissimo in quest’opera, dove il declamato vocale è accompagnato da un’orchestra che ha un compito altamente espressivo sia attraverso le variazioni di tonalità, sia attraverso le più disparate associazioni strumentali che creano timbri sempre rinnovati: gli ottoni, compresi i corni, i legni compreso l’ottavino, le percussioni, l’associazione di note alte e note basse con la creazione di sensazioni di vuoto, soprattutto interiore. Di fatto l’orchestra è la componente espressiva che dà impulso al declamato vocale e che ne determina il senso drammatico. In questo Salonen ha svolto un ruolo decisivo e di grande intensità emotiva. I diversi cantanti hanno dato il loro contributo in modo superlativo. È difficile fare un elenco, poiché non vi sono veri e propri protagonisti, o passaggi vocali particolarmente impegnativi. L’abilità in questi interpreti consiste soprattutto nel saper realizzare col canto declamato e con le movenze corporee l’azione scenica e il sentimento che l’accompagna. Di ottima prestazione possiamo citare l’interprete di Gorjančikov, Willard White, quello di Šiškov,Peter Mattei, autore del lungo racconto finale, quello di Luka, Stefan Margita, quella del vecchio prigioniero, l’intramontabile Heinz Zednik, e quello di Aljeja che, contrariamente alle preferenze espressa da Janáček, in questa rappresentazione è interpretato da un tenore, Eric Stoklossa, anziché da un soprano. Quest’ultima scelta, secondo me non è stata felicissima. Da una casa di morti è un’opera tutta al maschile: dal coro fino ai singoli protagonisti. La presenza di una voce femminile (come per esempio avviene dell’edizione di Charles Mackerras) mi sembra che contribuisca ad arricchire la varietà timbrica dell’orchestra trasferendola, almeno in parte anche nelle voci. Da notare come il finale, che sembra non concludere la vicenda, colga un po’ di sorpresa gli spettatori che, grazie a Dio, attendono qualche secondo prima di iniziare gli applausi. Questi ultimi sono stati intensi e prolungati a dimostrazione dell’entusiasmo con il quale il pubblico ha assistito alla rappresentazione. Entusiasmo che ho condiviso unendomi al caloroso applauso. Leggi l’analisi musicale di Harry Halbreich