CONSIDERAZIONI SULLA MOSTRA MILANESE “L’ILLUMINAZIONE DELLO SGUARDO”
Sono andato a visitarla il 31 marzo, approfittando del fatto che proprio quel giorno William era presente. Egli mi ha accolto, come sempre, con grande affabilità, e ha cominciato a mostrarmi e a spiegarmi il senso dei suoi dipinti esposti.
Subito una Crocifissione: un grande quadro nero sulla parete di fondo, con una mano che emerge: un saluto? Un grido disperato di aiuto? Il nero non è uniforme, ma mostra pennellature di diversa intensità. In basso la fatidica, inquietante affermazione: “IO MENTO”. Xerra mi spiega che si tratta di un suo antico quadro (del 1989) raffigurante una Crocifissione che ha voluto cancellare, ricoprire con una spessa copertura nera. Ma non è un rifiuto, anzi. La mano solitaria che emerge, con quel gesto, è lì per affermarlo, per stringere un legame, che può essere un saluto, una richiesta di aiuto, insomma un coinvolgimento. Cristo è stato crocifisso. Non è tanto importante vederlo; è importante saperlo, e sapere che da quel manto nero, forse con quella stessa mano, ci chiama.
Un discorso analogo Xerra lo fa davanti a un altro quadro, anch’esso coperto da pesanti pennellate nere: Gesù è deposto. Il corpo di Gesù forse si intravede sotto la coltre nera, in vaghe ombre bianche che disegnano forme misteriose; si intravede una clessidra, il tempo che fluisce?… La resurrezione? Certo, Cristo appartiene a tutti noi, alla vita quotidiana, e alla deposizione del suo corpo ormai senza vita fanno corona segni della quotidianità, fotografia ingiallite di nostri antenati, cartoline, lettere sulle quali non importa sapere che cosa ci sia scritto, importa solo sapere che sono state spedite e lette da qualcuno, qualche documento ufficiale che esibisce timbri ormai scoloriti e che ha preoccupato o reso felice qualcuno, ecc.
Altri quadri hanno richiamato la nostra attenzione. Uno di questi è il coperchio di una cassetta di legno (una cassetta contenente armi, mi ha spiegato William) che al centro ha una larga fessura attraverso la quale si vede una tonaca rossa che si prolunga in una mano che sembra voler significare qualche cosa di dolce, di amabile, di accogliente. Non si fa fatica a capire che la tonaca è quella di Cristo e che il gesto è l’espressione del suo amore. Anche qui la figura di Cristo non è intera, è solo suggerita, la si vede attraverso una fessura che nella sua collocazione originale serviva per controllare la presenza delle armi. E Attraverso è appunto il titolo del quadro.
Un altro quadro, anch’esso dal titolo Crocifissione, è una grande tela grigia al centro della quale si staglia una specie di fessura che fa intravedere il frammento di un Cristo che si indovina crocifisso. Il margine della fessura è delimitato da sottili strisce di carta da giornale dove si intravedono delle scritte, quasi tutte incomprensibili, ma una ben leggibile «Noi, indifesi di fronte…». William, davanti a questi ultimi due quadri, commenta: è quasi un omaggio a Fontana. La fessura come mezzo di comunicazione.
Il giro della mostra ci offre, oltre ad altri quadri di William (particolarmente bello mi è sembrato l’antico ritratto del volto di Cristo, con un’espressione dolcissima, al centro di un telaio interinale, per metà coperto e offuscato dal un velo bianco semitrasparente sul quale a penna rossa è scritto obliquamente dal basso all’alto la metà del cuore.), anche alcune incisioni antiche di carattere religioso del XVI e del XVII secolo in parte di anonimi, in due casi di Albrecht Dürer, e due sculture bellissime: un Cristo crocifisso di legno in parte mutilato, e un altro crocifisso in avorio, questo intergo, entrambi del XVI secolo. Questi lavori sembrano quasi fare da corona o da contrappasso all’opera pittorica di Xerra, e all’uso da parte sua di frammenti pittorici del passato, vivificati e reinterpretati dalla sua ricerca.
Ma l’elemento di novità che questa mostra propone è l’affrontamento della pittura di Xerra con l’opera fotografica che detenuti di San Vittore hanno realizzato in un laboratorio sperimentale promosso dalla Associazione di volontariato Sesta Opera San Fedele, e organizzato da Andrea Dall’Asta S.I., Gigliola Foschi e Donatello Occhibianco.
In questa esposizione fotografica i detenuti hanno ripercorso la strada di due racconti biblici, uno dell’Antico Testamento (Caino e Abele) e uno del nuovo testamento (Il cieco di Gerico). Le fotografie definiscono alcuni momenti significativi cristallizzati dell’azione drammatica che si immagina inscenata dai detenuti. Parlando con William e guardando le diverse fotografie è venuto spontaneo pensare alle esperienze quali ci propone Dostoevskij nel suo libro autobiografico Memorie da una casa di morti, ambientato in un bagno penale siberiano ai tempi dello Zar Alessandro I°. La reclusione, sia essa in remoti bagni penali di un lontano passato, sia essa nelle moderne carceri della contemporaneità, ha una costante dimensione comune che coinvolge, e forse sarebbe più giusto dire travolge, i soggetti che la subiscono: la mancanza della libertà e la sensazione di rimpianto, di desiderio impossibile che essa crea. Dostoevskij nel suo libro fa scaturire questa terribile realtà interiore nei semplici particolari che costellano la vita quotidiana dei reclusi; ma soprattutto la fa emergere con forza nella descrizione della recita teatrale che i forzati realizzano in occasione della festa natalizia. Il teatro si offre ai reclusi come l’immedesimazione di un sogno di libertà, una sua realizzazione fittizia nell’immaginario di un protagonismo di vita che non ha confini; come una realizzazione per trasferire nel tempo quello che per il detenuto non è altro che spazio, uno spazio ristretto, nel quale il muoversi non apre nessun futuro, ma ripresenta solamente l’appiattimento su un passato che ritorna in ogni istante della giornata.
Le immagini proposte dai detenuti, ed esposte in questa mostra, ci offrono un’altra manifestazione della forza del teatro nel far rivivere nel detenuto il sogno della libertà. Le fotografie cristallizzano alcuni momenti della rappresentazione, ma ci propongono, pur nella dimensione “spaziale” dell’immagine, la dimensione “temporale” della sequenza.
Caino e Abele vengono rappresentati mentre offrono i loro doni a Dio: Abele riceve la gratitudine del Signore, Caino, no. Resta solo. Chiama il fratello a fare un giro in campagna e lo uccide. Dio gliene chiede conto, ed egli con espressione smarrita capisce che non merita perdono per quello che ha fatto. Se ne andrà lontano, solitario, a vivere nel paese di Nod. Ma la fotografia non ci mostra una conclusione di libertà, bensì ci fa vedere porte munite di inferriate che si ergono davanti al suo cammino. Il peccato non libera l’uomo.
Anche il cieco di Gerico chiede di essere liberato. Il suo problema è la cecità, la sua speranza è Gesù. E Gesù lo libererà, contro il parere di tutti che vorrebbero che il cieco fosse rassegnato alla sua sorte. Gesù è nato per liberarci, e il cieco liberato, lo seguirà. Anche qui nell’ultima foto, sullo sfondo, si vede una porta munita di inferriate. Ma questa volta la porta è alle spalle del cieco liberato.
Spazio e tempo, le due categorie che scandiscono la vita dell’uomo, in questa mostra si incontrano partendo da due momenti diversi, ma entrambi intrisi di religiosità. Da una parte la pittura di Xerra che, offrendoci la logica del frammento come ricupero di un immaginario del passato che viene interrogato, accettato, valorizzato, nel presente trasforma la logica tipicamente “spaziale” di un quadro in una logica “temporale”. Noi vediamo Cristo crocifisso attraverso delle fessure, o lo immaginiamo dietro un velo nero che con la sua mano protesa ci chiama. I carcerati sentono il bisogno di trasformare lo “spazio”, che è l’ambito della loro reclusione, in un tempo, che è offerto loro dalla rappresentazione teatrale. E anche questo avviene attraverso un sentimento di religiosità che ci ricorda come il peccato (Caino e Abele) ci toglie la libertà, mentre è proprio Gesù che può restituircela (il cieco di Gerico).
12 aprile 2010 alle 08:47
caro Rodolfo, ho letto e con grande emozione ti dico che hai scritto colpendo profondamente il segno. Con stima e affettuosità un grazie, William