VEDI ALLA VOCE: AMORE, di David Grossman

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«L’arbitrio di una forza esterna che irrompe con violenza nella vita di un uomo, di un’anima, è il tema ricorrente in quasi ogni mio libro. In Vedi alla voce: amore era il nazismo». Con queste parole David Grossman fornisce la chiave di lettura di un romanzo complesso, di rara intensità, che ha come argomento l’olocausto. Nella prefazione, Paolo Mauri scrive: «L’enorme letteratura sull’Olocausto si può dividere, molto approssimativamente, in due grandi filoni: quello che mostra la Cosa e quello che, la Cosa, la interroga. Nel primo caso l’esibizione (ben diversa dalla fredda documentazione che, per esempio, si può vedere oggi in quelli che furono i lager) è simile alla pornografia. Si mostra l’orrore come si mostra la carne e il lettore si trasforma in un voyeur dell’orrore. […] Il secondo filone, [è] quello che la Cosa la interroga, senza tacerne i dettagli significativi, ma senza sentire il bisogno di mostrarla». In questo filone «la Cosa viene esplorata nella facce della gente, nelle parole: anch’esse così normali da far più orrore di un mostro vero e proprio; viene ricostruita nei ricordi dei superstiti (vittime e assassini), anch’essi così comuni e pieni – parlo delle vittime – di dolore e di lacrime da far pensare: ma come è potuto accadere così normalmente

Vedi alla voce: amore appartiene certamente a questo secondo filone. Il romanzo è articolato in quattro grandi sezioni: nella prima si approfondisce il rapporto fra l’olocausto, come vissuto dai superstiti, e l’infanzia, i “figli dell’olocausto”. Nelle sezioni successive, il protagonista della prima sezione, il bambino Shlomo-Momik, cresciuto ricostruisce il pensiero di un grande scrittore ebreo da lui particolarmente ammirato-amato, Bruno Schulz, e poi, attraverso i racconti del nonno, a sua volta scrittore di fiabe per l’infanzia, si interroga sul senso e lo svolgersi dell’arbitrio della forza esterna rappresentata dal nazismo che, nel suo irrompere con violenza, condiziona e corrompe la vita dell’uomo: dell’uomo vittima, dell’uomo assassino, dell’uomo testimone, dell’uomo come espressione vivente dell’anima: l’olocausto.

Nella prima sezione Momik è il figlio dei coniugi Neumann, superstiti dell’olocausto immigrati in Israele. Come tutti i superstiti, si astengono, per pudore, per rabbia, per dolore, dal parlare di quel terribile periodo della loro vita, e meno che meno ne parlano con il figlio. Assieme ai due genitori di Momik, nell’ambiente di una Gerusalemme ancora povera, abitata da persone che negli anni della guerra hanno perso tutto, parenti, amici, beni, e che in questa città hanno trovato l’ultimo rifugio da una vita sconvolta, vivono diversi superstiti: alcuni sono stati capaci di ricostruirsi una parvenza di vita normale, come la famiglia di Momik, altri sono scivolati in una sottospecie di vita dove il ricordo cessa di avere contorni e si esprime solo con manifestazioni di dolore indistinto che soffocano il manifestarsi della ragione.

Momik è un ragazzo stimolato dalla curiosità. Le confuse allusioni che riesce a percepire nei discorsi degli adulti, riferite a un passato misterioso, mai esplicitamente nominato, lo spingono alla ricerca di una risposta. La sua giovanissima età, la sua innocenza non gli consentono di immaginare una realtà crudele, come l’esistenza dei lager, di campi di sterminio, della camere a gas, etc. Le ricostruzioni che riesce a concepire da indizi sporadici e mai esposti organicamente, hanno sempre qualche cosa di ingenuo, ma non approdano mai a una ricostruzione definitiva e soddisfacente. Ad esempio i numeri tatuati sul braccio dei genitori e di altri persone del quartiere stimolano in lui una ricerca matematica, la ricerca di un codice che spiegasse altri fattori misteriosi, come il significato di “Quel paese lì”, mai nominato, e dal quale molte delle persone del quartiere provenivano; oppure una misteriosa bestia, la “belva nazista” della quale si parlava con terrore tanto veniva considerata feroce e maledetta, e che Momik, con ingenue trovate, si industriava a far rivivere e sconfiggere in modo definitivo. Tutti questi “indizi” meritevoli di approfondimento, suscitavano in Momik il gusto di investigazione, con annotazioni su un apposito quaderno delle “scoperte” che credeva di avere raggiunto, e così via.

Quello che ne risulta è la consapevolezza che la tragedia dell’Olocausto irrompe nell’animo del bambino condizionandone pesantemente le valutazioni degli eventi futuri, e quindi scelte, sentimenti, comportamenti, etc. Domanda implicita: i bambini devono essere messi al corrente della tragedia dell’olocausto? E se sì, quale si pensa che possa essere la loro reazione e, soprattutto, l’influenza che questa conoscenza avrà sulla loro vita futura?

 

Nella seconda sezione Momik non è più un bambino, è uno scrittore che insegue il pensiero e l’opera di un suo mito,  Bruno Schulz, un grande scrittore ebreo polacco ucciso nel getto di Drohobycz da un ufficiale nazista per far dispetto ad un altro ufficiale suo “nemico”. «E questo Felix Landau aveva un nemico – un altro ufficiale delle SS chiamato Karl Günther. E il diciannove novembre del millenovecento e quarantadue, all’angolo di via Czacky con via Mickiewicz, Karl Günther sparò a Bruno un colpo e poi – così dicono – andò da Landau e gli disse così: “Tu hai ammazzato il mio ebreo e io ora ho ammazzato il tuo”». L’orrore di questa espressione porta a concludere Shlomo che Bruno Schulz non sia morto; che egli sia fuggito da Drohobycz per arrivare fino a Danzica, per immergersi nel mare e unirsi a un folto gruppo di storioni, portandosi appresso il suo ultimo romanzo, Il Messia, del quale purtroppo non si è più trovata traccia. «I salmoni sono solo un viaggio rivestito di carne. Una morte a cui sono state attaccate pinne e vi sono incise due branchie e, oh che grande e variopinto ballo in maschera della morte!». Bruno, per Shlomo, è lo scrittore della vita e della disperazione: «Allora lo prendeva la tristezza, perché capiva che per loro stessa natura degli esseri umani non sono capaci di sentire che è stata data loro, una certa volta, la vita. Di sentirlo davvero, con un’acutezza e un’emozione primordiali. Quando è stata data loro la vita non erano stati capaci di comprendere il valore del dono, e dopo non si erano più affaticati a rifletterci su. E perciò sentono la vita solo nel suo lento rifluire dal loro corpo; sentono solo il proprio spegnersi, il proprio finire lento e sicuro. Dunque è un errore chiamarla “vita”».

Shlomo cerca in Shultz la risposta alle domande che la consapevolezza dell’olocausto gli pone. «Ci sono degli uomini che amano […], ci sono uomini che proprio dall’Olocausto hanno tratto la conclusione opposta. E non è forse vero che da quello che è successo lì si possono trarre tutte e due le conclusioni? E l’Olocausto giustifica in certo qual modo i due opposti approcci alla vita, no? E ci sono anche uomini che amano e perdonano e fanno del bene anche senza nessun rapporto con l’Olocausto. Senza pensarci giorno e notte». Ma non è in Schulz che le troverà. «…e il suo più grande desiderio fin da bambino, non era solo di scoprire un altro mondo, ma anche di scoprire un’altra lingua con la quale lui, Bruno, potesse descrivere quel mondo…». Le potrà trovare invece nelle fiabe che nonno Wasserman raccontava ai bambini.

Ayalah, per breve periodo sua amante, lo introduce nella stanza bianca del Yad Vashem il memoriale delle vittime ebree dell’olocausto. In quella stanza i ricordi, le voci, le sofferenze  irromperanno nella sua mente, si condenseranno nella figura del nonno Wasserman, il nonno che Momik aveva conosciuto da piccolo, superstite di ritorno “da quel paese lì”: personaggio privo di ogni possibile comunicazione con i circostanti,  e che parlando in continuazione fra sé, diceva cose per il bambino incomprensibili, e citava in continuazione una figura misteriosa, herrneigel, col quale sembrava avere rapporti a volte di sudditanza, a volte di conflitto, a volte di supremazia. Shlomo nella stanza bianca dà vita a nonno Wasserman, lo scrittore di storie per bambini, delle avventure della banda dei Ragazzi del Cuore che intervengono ovunque per risolvere torti, per aiutare i più deboli. Wasserman arriva al lager, vive il momento della selezione; vede la moglie incamminarsi per la himmelstrasse, la “via del cielo”, il percorso fra due file di ucraini assassini che la porterà alla camera a gas; vede la figlia uccisa a sangue freddo dal comandante del campo con un colpo di pistola, si sente strappare dal rito della selezione per essere condotto proprio dal comandante che gli ha ucciso la figlia, l’obersturmbannführer (tenente colonnello) Neigel, che lo ha riconosciuto come lo scrittore delle storie per bambini che egli, nella sua infanzia aveva letto e apprezzato. Wasserman, lo scrittore non può morire. Lo vietano le sue storie: lo scrittore non muore poiché non muoiono le sue opere, e ogni tentativo di ucciderlo fallisce. Neigel (Herr Neigel, lo appella Wasserman) vorrebbe riascoltare dalla sua voce quelle belle storie che lo avevano affascinato, le storie dei Ragazzi di Cuore. Neigel è un uomo tutto d’un pezzo, freddo, cinico, che esercita il suo ruolo di comandante senza provare alcun sentimento che gli hanno insegnato essere negativo, come compassione, indulgenza etc. Non ha amici, non ha distrazioni. Potremmo definirlo un assassino robotico. L’unica che gli pare di potersi concedere è quella di ascoltare dalla viva voce di Wasserman quelle belle storie che nell’infanzia lo avevamo tanto emozionato, la sera, dopo il lavoro, per distrarsi, ricaricare le batterie che il lavoro quotidiano via via gli fa scaricare. Wasserman accetta, all’inizio con riluttanza, poi intravede una strada che gli potrebbe consentire di entrare nell’animo di Neigel, forse capirne la logica mostruosa, forse ricuperare in lui quei sentimenti che le sue storie gli avevano a suo tempo, prima delle distorsioni provocate dall’appartenenza alle SS, suscitato.

Gli racconterà ancora la storia dei Ragazzi del Cuore, ma non dei ragazzi di allora. Da allora i ragazzi sono invecchiati, è passato molto tempo; la banda, disciolta per decenni, pian piano si ricostituisce; prima in una caverna di una miniera, poi allo zoo di Lvov. Ci sono ancora Otto Brieg, il capo con il suo carisma, c’è ancora Albert Fried, il medico, e via via tutti gli altri: Paola, la sorella di Otto e moglie di Fried; Aharon Markus l’intrigo dei sentimenti, Hannah Citrin la bellissima prostituta, Yedidiah Munin sessuomane, il prof. Sergej, l’inventore di due misteriose macchine: l’urlo, un intreccio di tubi ermeticamente sigillati, nei quali poteva essere immesso un urlo, che attraverso misteriosi giochi di sponda di echi veniva amplificato; l’altra, denominata il Prometeo, consistente in una circonferenza di 360 specchi tutti orientati verso il centro del cerchio, capaci di riflettere all’infinito nella varie proiezioni un’immagine, che alla fine si disfaceva, lasciando solo poche tracce sul terreno; il prestigiatore Herotion, che tuttavia disprezzava l’illusionismo e si illudeva di avere poteri soprannaturali; e altri ancora. Tutti, o molti di loro Shlomo li ricostruisce sulla base di ricordi dei vecchi che, nella sua infanzia, soleva incontrare lungo i vicoli del quartiere, seduti tutti a assieme a parlare con nonno Wasserman, ricostruendo momenti di una vita trascorsa e deformata dall’irruzione della violenza. A questi “ragazzi” invecchiati, che dopo anni di assenza avevano sentito il bisogno di rincontrarsi, Wasserman aggiunge un nuovo essere: un neonato, Kasik, che ha una particolarità: di crescere e invecchiare molto rapidamente in modo da compiere il ciclo vitale entro le 24 ore, passando nell’arco di minuti e di ore attraverso tutti i vortici nei quali la vita lo (ci) trascina.

Il racconto sembra interessare viepiù Neigel, che ne viene coinvolto, entrando spesso in discussione con le scelte di Wasserman. E mentre Wasserman racconta la storia, nel lager, visti attraverso il filtro di un occhio coinvolto, ma apparentemente distante, si svolgono gli orrori ben noti: lo sferragliare dell’arrivo dei treni carichi di vittime predestinate, l’apparente aspetto di stazione della banchina d’arrivo, con tanto di dolci esposti per ingannare i bambini, la tortura della selezione, il percorso della via del cielo fatto dagli ebrei “inutili”, la ferocia degli aguzzini ucraini al servizio dei nazisti, la funzione “rassicurante” di gruppi di ebrei, i cosiddetti “azzurri”, le loro periodiche sostituzioni – equivalenti a condanne a morte – da parte ed ad arbitrio del comandante, le uccisioni a sangue freddo di qualche ebreo che ha mostrato il coraggio di ribellarsi, e così via. Il tutto raccontato come se nel lager stessero avvenendo fatti di normale amministrazione, il cui orrore non sta nelle descrizioni e nelle immagini suscitate, ma nell’oggettiva quotidianità dei fatti. Quello che è al centro del racconto è tuttavia il rapporto sottile, coinvolgente, fra Wasserman con la sua storia e il comandante Neigel, rapporto che finisce di penetrare nel profondo del nazista, rivelando la possibilità che nella concezione fredda di un adesione ad una ideologia e ad un dovere da compiere che si è scelto, possa sorgere e introdursi uno sconvolgimento profondo (la contraddizione dei valori e della morale) che potrà essere risolto solo dal suicidio.

Il modo di raccontare di David Grossman è complesso. Non viene seguito alcun ordine cronologico, e neppure un ordine dettato dall’importanza o alla drammaticità degli eventi; bensì l’ordine è dettato dalle emozioni che si trasferiscono da un quadro all’altro del racconto, giungendo in questo modo, e molto gradualmente, a ricreare ambienti, personaggi con la loro psicologia, eventi nel loro svolgersi concreto. Le voci singole a volte sono voci narranti, a volte oggetto di scontro, a volte immagini della memoria: ma in diversi momenti, in diverse condizioni le voci si sovrappongono, facendo in questo modo emergere i fatti: quelli della storia, quelli della vita del lager, quelli della vita di Wasserman, e infine anche quelli della vita di Neigel.

Il suddividere in quattro sezioni il romanzo fa sì che i fatti narrati non conducano a un finale di storia. Momik esplora le conseguenze dell’olocausto senza conoscerne gli eventi, ma intuendone la violenza che irrompe nella vita dell’uomo. Shlomo cerca di capire il messaggio di Bruno Schulz non attraverso la sua morte, ma attraverso il suo viaggio con i salmoni nel mare, per risalire alle origini e quindi al significato della vita. Wasserman, con la sua storia vuole penetrare nell’animo dell’aguzzino scavando nell’orrore dell’olocausto del quale egli è un meccanismo determinante. L’ultima sezione conclude certamente tutti gli eventi cominciati nella sezione nella quale Wasserman comincia la sua storia; ma non li conclude secondo un ordine cronologico. Grossman per far questo ricorre a un trucco letterario: l’ultima sezione si presenta come una enciclopedia nella quale le voci da spiegare si succedono in ordine alfabetico. E ogni voce, spesso in collegamento con altre voci, porta a compimento il discorso, chiudendo così un cerchio iniziato, nella prima sezione, dal piccolo Momik.

Il libro è di una profondità straordinaria; l’olocausto è una tragedia che, partendo dall’orrore dei fatti nella loro bruta successione, riempie l’animo di interrogativi. La scrittura, costruita come per intrecciare numerosi fili che devono confluire in un’unità che si precisa via via, con il procedere degli eventi, è stata per me piuttosto faticosa. Ma pur con tutte le domande che la lettura solleva, e la difficoltà di capirne il senso, il libro non può essere considerato che un libro di enorme spessore umano e letterario.

17 Commenti a “VEDI ALLA VOCE: AMORE, di David Grossman”

  1. dani scrive:

    Grazie per queste note sul testo di Grossman, lo sto leggendo proprio in questi giorni (sono quasi alla quarta parte): stavo appunto cercando qualche spiegazione, dato che il libro non è affatto semplice e non mi accontento di una lettura non del tutto consapevole. La prima parte (Momik) mi è piaciuta in modo particolare.

    Daniela

  2. Rudy scrive:

    Grazie a te per averle lette. Il libro è complesso, le considerazioni che ho fatto sono frutto di ripetute meditazioni, ma come conclusione dovrei dire che il libro dovrebbe essere riletto. Soprattutto la parte relativa a Bruno Schulz, del quale ho acquistato il suo libro “Le botteghe color cannella” e che intendo leggere quanto prima.

  3. annamaria leonelli scrive:

    Opera difficile e molto particolare, che però cattura il lettore e lo impegna arileggere tratti…e soprattutto a riflettere e meditare.

  4. cinzia scrive:

    Anch’io lo sto leggendo in questi giorni, mi mancano solo poche pagine. La quarta parte è quella che mi è piaciuta di più. Ho fatto molta fatica a leggere la parte relativa a Bruno Schulz. Mi è piaciuto molto anche se mi rimane la sensazione di essermi persa molto data la complessità della scrittura di Grossman. In particolar modo la figura e il ruolo secondo me molto misteriosi di Kasik. Grazie per queste note mi hanno chiarito molti aspetti.

  5. Rudy scrive:

    Credo che di Bruno Schulz bisognerebbe leggere il suo libro fondamentale che ci è rimasto, Le botteghe color cannella. Io l’ho comprato, ma non ho ancora trovato il coraggio di leggerlo. Lo farò, appena avrò raggiunto un po’ di calma interiore. Secondo Grossman ( e non solo secondo lui) è uno dei più grandi scrittori polacchi e forse anche europei.

  6. eva scrive:

    è stato molto difficile per me leggere quest’opera di Grossman ma devo dire che l’articolo sopra espsto mi
    ha chiarito qualche lato oscuro. Comunque grazie per un libro senza orrore ma che lascia tracce indelebili

  7. Rudy scrive:

    Grossman per me è uno scrittore difficile, proprio perché ti costringe e riflettere. Il suo libro più coinvolgente, per me, è “Ad un cerbiatto assomiglia il mio amore”. Forse anche perché si sente che lo scrittore è immerso nell’infinito dolore di avere perso un figlio in una guerra che disapprova. Comunque grazie per il commento.

  8. donatella scrive:

    Sto leggendo Vedi alla voce: amore. Il libro ‘paga lo scotto’ di essere arrivato per terzo nella mia lbreria: dopo ‘A un cerbiatto somiglia il mio amore’ – che ho amato in modo viscerale ed intimo, che ho sentito sulla pelle e dentro nervi e muscoli – e dopo ‘Che tu sia per me il coltello’, che mi ha tolto il sonno e che ha la straordinaria capacità (che pochi libri possiedono) di tenerti legato ad esso in maniera talmente forte che non lo vorresti lasciare nè per andare a letto nè per avventurarti nella ‘banalità’ della vita quotidiana.
    Amo la complessità di Grossman, che fa della sua prosa una poesia senza versi e che ti ‘obbliga’ a stare concentrato solo su di lui; sono interessata da sempre dall’argomento che lui tratta in maniera davvero particolare. Ma, sul serio, stavolta sto faticando non poco a stargli dietro!!! Farò tesoro delle considerazioni appena lette..

  9. Rudy scrive:

    Ciao Donatella. Sono contento che tu (e anche gli altri che hanno scritto i loro commenti al mio post) amino in questo modo Grossman. Lo amo enormemente anch’io, come penso che avrai capito. Come te sono stato letteralmente risucchiato da quel capolavoro assoluto che è “A un cerbiatto somiglia il mio amore”. Un libro che ti fa entrare il vero dolore nell’anima e ti insegna a capirlo quando incontri persone che il dolore lo hanno provato davvero, come è accaduto allo stesso Grossman. Per questo non ho capito le manifestazioni che si sono svolte in piazza Duomo a Milano contro la settimana della cultura israeliana, sapendo che proprio Grossman è venuto a parlarne. Un conto è manifestare contro un governo e la sua politica: può essere giustificato. Ma manifestare contro una cultura che offre persone al livello di Grossman mi è sembrata una grossa bestialità (proprio Grossman, oltrettutto, che non nasconde di essere contrario all’attuale politica del governo israeliano). Io speravo che a Grossman venisse dato il Nobel per la letteratura. Così non è stato, ma spero che gli svedesi prima o poi gli attribuiscano questo premio. Ciao.

  10. sabrina scrive:

    Il libro è tostissimo, a tratti mi annoia, poi arrivano invece delle parti di una profondità che mi travolgono. A tratti mi sconvolge, la figura di Kasik ad esempio, la brutalità dei suoi gesti e del suo destino. Opera ce mi rimarrà nei pensieri sono sicura, un po’ come i grandi romanzi russi, o i grandi in generale, sempre con noi, proprio lì, appena sotto pelle. Forse Grossman è un po’ prolisso, lo dicevo anche per A un cerbiatto somiglia il mio amore, forse mescola troppe cose, ma di certo lascia il segno.

  11. Rudy scrive:

    Grazie per il commento. Sono d’accordo con te che il libro sia tostissimo. Grossman non è né facile né piacevole da leggere, ma, come dici tu, lascia il segno. In questi giorni sto avvicinandomi a un altro Grossman, Vasilij. È uno scrittore ebreo russo, che ha vissuto il comunismo sovietico, ne ha fatto parte, poi ne ha scoperto gli orrori. Il suo libro più coinvolgente è Vita e destino, che qualcuno ha definito il Guerra e pace del ’900. Sono ancora all’inizio. Credo che farò alcune osservazioni dopo che l’avrò finito. Quello che finora mi è sembrato interessante è il racconto di vicende nel cuore di una Russia invasa dai nazisti, le sofferenze della popolazione, le crudeltà dei nazisti, i lager, gli einsatzgruppen che fucilavano gli ebrei degli Shtetl dopo averli portati in un bosco e aver fatto scavar loro la fossa, etc., ma anche la burocrazia e la corruzione di un partito comunista dove, in piena guerra, i dirigenti hanno tutti i diritti, mentre la povera gente non ne ha alcuno, etc. Stranamente: due Grossman, David e Vasilij, entrambi ebrei, entrambi grandissimi scrittori.

  12. Rosanna scrive:

    Adoro David Grossman, la sua profondità … fa riflettere. Mentre leggevo “Vedi alla voce amore”, a tratti, non vedevo l’ora di finire di leggerlo perché un pò noioso, a momenti troppo prolisso, seppure abbia trovato molte pagine di una profondità unica. Ora che l’ho letto tutto credo che avrei potuto leggerlo meglio e approfondire alcune parti che ho lasciato scorrere troppo distrattamente. Forse, un giorno, lo rirenderò in mano.
    Decisamente ho letto con più piacere “A un cerbiatto somiglia il mio amore”, “Che tu sia per me il coltello” e, sopratutto, “Qualcuno con cui correre”, il mio preferito in assoluto. Quest’ultimo mi è piaciuto dall’inizio alla fine, scritto bene, mai noioso.

  13. sabrina scrive:

    Colgo il consiglio, ma credo che dopo questo, se mai ci lasceremo, nel senso che temo di non finirlo mai, mi abbandonerò a Erri de Luca… Non vedo l’ora ! Non riesco a pensare ad altri lager, il rifiuto è oggettivo, anche se il punto di vista che descrivi è interessante e insolito. Ci rivedremo coi Grossman, ma avrò bisogno dei miei tempi.

  14. Rudy scrive:

    Certo. Le linee guida che ci conducono a leggere i romanzi sono spesso imperscrutabili. Per esempio, questo Vasillij Grossman mi è capitato al di fuori di ogni programma. A parte il contenuto, quello che più mi sta attizzando è lo stile, quello classico del realismo socialista, ma che ci porta in una direzione esattamente opposta a quello che la dittatura staliniana pretendeva. Ciao e a presto.

  15. sabrina scrive:

    FINITO FINITO FINITO !!! Non so più quanto me lo sono trascinato. Oggi mi sono dedicata a Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là. Da tempo aspettavo di aprirlo… Ed è già finito. Ma questa è un’altra storia.

  16. Rudy scrive:

    Magari mi saprai dire qualche cosa su Calabresi. Il libro l’ho comprato tempo fa, ma non l’ho ancora letto. Ciao

  17. sabrina scrive:

    Calabresi racconta una storia eccezionale con uno stile contemporaneo e quasi giornalistico. E’ la storia che fa il libro, la storia di una famiglia normale e straordinaria. Una famiglia come tante tante altre che in quel periodo hanno visto le loro vite trasformarsi per sempre. Il loro destino cambiato da chi si illudeva di poter decidere per tutti, della vita e della morte.
    La vicenda Calabresi è spesso accompagnata dalle esperienze di altre mogli e altri figli che arricchiscono tristemente un panorama allucinante. Alcuni hanno saputo rinascere altri sono rimasti intrappolati nella tragedia di quegli anni.
    Il libro si legge tutto di seguito è impossibile non condividere i sentimenti provati di fronte a situazioni surreali che vedono gli ex terroristi osannati e tenuti in grande stima, in quanto intellettuali di rilievo. Quando non addirittura eletti a cariche di rappresentanza politica. E’ molto difficile, forse è proprio la cosa più lontana per me, capire come si riesca a vivere una vita senza rancori con tutto quello che “i parenti delle vittime” sono portati ad attraversare.
    E’ ancora più difficile accettare che il nostro Paese non abbia provato rancori verso certe persone. E che non abbia voluto cogliere l’occasione per maturare sul piano civile affrontando e condividendo il dolore di chi rimase per sempre segnato.
    La domanda che mi rimane in tasca è: adesso come faccio a leggere Erri de Luca, che anche la scorsa Pasqua ha serenamente sostenuto le tesi di quella volta ?

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