ACCIAIO di Silvia Avallone

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Ero molto incuriosito da questo libro, osannato dalla stampa, dalla TV, dalle critiche in genere, come un romanzo che si proponeva di ricuperare aspetti che in questa società dei consumi e della globalizzazione sembravano svaniti: il mondo operaio, le periferie urbane, la vita come fine a se stessa, la ricerca di momenti di felicità, la valorizzazione dei sentimenti nei rapporti reciproci. Francamente la lettura mi ha profondamente deluso.

La trama è ambientata a Piombino, in una periferia degradata, all’ombra di una fabbrica che produce acciaio, la Lucchini (ex ILVA, ex Italsider). Al centro, due ragazzine di 13-14 anni, Francesca e Anna,  che entrano nell’adolescenza, scoprono che la vita è fatta di attrazioni, si dedicano alla propria estetica che ne è lo strumento, adorano essere guardate. Fra le due fanciulle si afferma un’amicizia-affetto che le tiene avvinte. Nel momento in cui una di loro due, Anna, si innamora di un ragazzo, Francesca si ingelosisce e per ripicca si fa una nuova amica, Lisa. Si apre un rapporto conflittuale fra le due, alla ricerca di un ricupero dell’amicizia apparentemente perduta. Attorno alle due ragazzine si dipana tutto il mondo di questa periferia degradata: il padre di Francesca, operaio della Lucchini, severo e violento custode della figlia e della sua “illibatezza”; la moglie Rosa, calabrese, ancora giovane ma già devastata da una vita difficile; il fratello di Anna, Alessio bel ragazzo, anch’egli operaio alla Lucchini, amante delle belle macchine e di una vita intensa; la madre di Anna, donna con una certa personalità, attivista di Rifondazione comunista; il padre di Anna, bellimbusto inserito in una organizzazione delinquenziale per lo spaccio di monete false e commercio di quadri rubati; e poi i diversi amici: Cristiano, pure operaio alla Lucchini, vanesio la sua parte; Mattia, bellissimo figo, del quale Anna si innamora seduta stante provocando la gelosia di Francesca; infine Lisa, la ragazza brutta e sfigata, condannata a vivere da sola ai margini, con la vita appesantita dal fatto che deve badare alla sorella Donata costretta su una carrozzina; e poi altri personaggi minori che popolano l’universo della periferia: Jessica, Sandra, Nino, Massi, Elena.

La trama è elementare, i fatti concreti che la sorreggono sono pochi: il colpo di fulmine fra Anna e Mattia; la lite fra Anna e Francesca, e la successiva rottura; l’incidente capitato al padre di Francesca che ne fa una specie di zombi assistito dalla figlia;  l’arruolamento di Francesca in un night-club equivoco con la speranza di sfondare e andare in TV; la morte di Alessio in un incidente all’interno della fabbrica; il ricongiungimento di Anna e Francesca. Più che lo sviluppo di un racconto, con fatti che si richiamano gli uni agli altri secondo una successione logica di eventi in relazione, sembra essere la descrizione di un periodo di vita di un gruppo di persone fra loro collegate dal lavoro, dall’ambiente di vita, da amicizie e familiarità, e che vivono momenti diversi caratterizzati da innamoramenti, gelosie, conflitti, riappacificazioni, frequentazioni equivoche, etc. Il tutto fa pensare, più che altro, a un filmato tipo telenovela.

Quello che prevale nel romanzo, nel tentativo di ricostruire un’ambientazione che dovrebbe essere al centro delle vicende e rappresentare la motivazione stessa del libro, sono le descrizioni: descrizioni ambientali, descrizioni dei personaggi, soprattutto nell’aspetto esteriore.

Le descrizioni ambientali si soffermano sulla fabbrica, il suo interno, il suo funzionamento, i suoi macchinari (parte non sempre comprensibile a chi, come me, è estraneo a questo tipo di produzione); ma anche tutto quello che la sua presenza condiziona nell’aspetto e nella vita dell’area urbana: torri incombenti, i recinti traboccanti di rifiuti, aree dismesse e abbandonate e in preda al degrado, etc. E poi si soffermano ancora sulla città come tale, i suoi casermoni dove le famiglie si affollano in appartamenti di poche decine di metri quadrati; le spiagge affollate, ma anche sporche per i detriti portati dal mare e mai ripuliti; e i luoghi di divertimento, le discoteche sempre affollate di giovani.

Le descrizioni dei personaggi si soffermano soprattutto sull’avvenenza delle due ragazze, sul loro modo di pettinarsi (sono rigorosamente una bionda e l’altra mora, come le veline di Striscia), sui loro vestiti che lasciano intravvedere quello che esse desiderano che sia visto e ammirato; sulla bruttezza di Lisa, che viene definita “brufolosa e sfigata” e che per questo vive ai margini in un perenne stato di invidia, ma anche di soggezione; sull’atletismo del fisico di Alessio («Si lasciò cadere di pancia con il grande corpo abbronzato, temprato dall’acciaio, in un tonfo da cadavere»), che lo fa essere una specie di leader del gruppo di amici, e che viene utilizzato in fabbrica per lavori di grande impegno; l’aspetto elegante ma ambiguo di Arturo, il padre di Anna, coinvolto da fattacci al di fuori della legge; il massiccio corpo di Enrico, che esprime nella prestanza fisica il carattere collerico che si scarica sulla figlia e sulla moglie Rosa; l’aspetto meschino e dimesso di Rosa che vive in balia del marito; la bellezza di Mattia che trascina Anna in un colpo di fulmine a sorpresa; insomma ogni personaggio ruota attorno a una descrizione fisica alla quale poi corrispondono un carattere e dei comportamenti.

 

Quello che a me è parso evidente è il distacco fra gli eventi narrati dalla trama e le descrizioni: la fabbrica certamente c’è, ma se non ci fosse, la trama non cambierebbe segno. L’obiettivo della Avallone, che è quello di descrivere un mondo che oggi viene tendenzialmente ignorato, il mondo operaio (non della classe operaia come intesa fino agli anni Settanta-Ottanta, che, ci informa la scrittrice nelle sue interviste, non esiste più), quello del degrado delle periferie, della vita che vi si vive, dei valori che vi emergono, della ricerca di un momento di felicità qui ed ora, della competizione per raggiungerla. Indubbiamente nel carattere dei personaggi e nelle vicende nelle quali essi si muovono si evincono questi aspetti: la scoperta del corpo, e magari anche del sesso nel passaggio fra l’infanzia e l’adolescenza; l’ambizione di poter essere notate e trovare una strada di liberazione dall’ambiente, magari alla TV; l’amicizia fra due adolescenti che sfiora la natura di amore saffico; il colpo di fulmine che nasce nel corso di un incontro imprevisto di due persone di bell’aspetto e per le quali l’amore è una ricerca, sia pure inconscia; famiglie con rapporti deteriorati fra genitori e figli, per incomprensione generazionale, o per scelte antitetiche. Insomma tutti gli eventi narrati non mi pare che siano strettamente legati all’ambiente, ma siano collocabili un po’ ovunque. Le dettagliate descrizioni della fabbrica, o dei casermoni, non danno nessun contributo a ricreare l’ambiente all’interno dei fatti narrati. La sensazione è che siano solo descrizioni “esteriori”. La stessa morte di Alessio (morte bianca, diremmo noi) non è tale, non scaturisce da una situazione in cui la fabbrica ne è la vera protagonista. Sarebbe potuta avvenire, che so, per un incidente stradale, senza che la logica dei fatti narrati sarebbe sostanzialmente cambiata.

 

In sostanza il romanzo, al di là delle intenzioni e della considerazioni sociologiche e anche filosofiche della scrittrice, che non mi sembra si siano realizzate, ci offre un quadro di vita fra la giovane generazione e in rapporto con le generazioni precedenti che ha una sua credibilità e un suo interesse, anche se molto al di sotto di quanto la critica e i concorsi a premi (in finale al premio Strega, il romanzo è arrivato secondo a pochi voti di distanza del vincitore) sembrerebbero indurre.

13 Commenti a “ACCIAIO di Silvia Avallone”

  1. francocordiale scrive:

    Il punto è proprio questo; come è possibile salire così in alto nella considerazione degli editori (Avallone è stata finalista al premio Strega), aspirando a riconoscimenti un tempo concessi alla Morante, a Cassola, alla Ginzburg, a Manganelli, a Calvino…per citare nomi famosi. Questi giovani autori sono “grandi” per ciò che scrivono, oppure perchè scrivono opere non certo straordinarie in una fase storica in cui si legge poco e ci si esprime peggio? Dove è facile innalzarsi su un livello-standard: quello delle Melisse P.e dei Moccia. Dove la lingua usata si chiama…cazzeggio!

  2. Rudy scrive:

    Ti ringrazio per il commento. Condivido le tue perplessità. Ma forse qualche scrittore a un livello un poco più alto c’è ancora. Per esempio Accabadora di Michela Murgia mi è sembrato un buon romanzo, così come mi piacciono in genere i romanzi di Niffoi. Anche fra gli scrittori napoletani trovo personalità interessanti, come ad esempio Rea, oppure, fra gli ultimi, lo stesso Sorrentino, con un libro difficile ma interessante. Potrei citare altri scrittori contemporanei che mi hanno dato qualcosa, ma non voglio essere troppo lungo. Certo, la gente legge poco; anche la letteratura straniera offre poche vie d’uscita. Che io sappia, ad es. non è stato ancora tradotto Tinkers, di Paul Harding, il romanzo vincitore del premio Pulitzer. E all’invasione dei Melissa e dei Moccia, aggiungi pure i Faletti.
    Ciao

  3. Mariella Canaletti scrive:

    Condivido il giudizio negativo: è tutto eccessivo; in più, la scrittrice non sa scrivere in italiano, è sovrabbondante, con errori che non sfuggono a chi legge lentamente; anche se probabilmente la Avallonne ha doti che potrebbe sviluppare. Ma deve lavorare molto! Pollice verso anche per Margaret Mazzantini e il suo pretenzioso Venuto al mondo.Anche qui tutto è sovrabbondante, e, nonostante racconti un fatto storico di grande interesse come l’assedio di Sarajevo, il libro sarebbe migliore se, invece delle 460 pagine, fosse ridotto alla metà!

  4. Debora scrive:

    Ciao,
    cosa posso dirti? Personalmente, ho trovato tutto fuorché elementare la trama…
    C’è tutto: la crisi generazionale, l’adolescenza, l’omosessualità, il dolore, il lutto…
    Silvia Avvallone non descrive, ma lascia intendere.
    Ho trovato epico il passaggio in cui Alessio – forse, il personaggio più eroico del libro- muore.
    Dal punto di vista narrativo, è interessate la scrittura 2parallela” usata dall’autrice.

  5. Rudy scrive:

    Grazie per il commento. Ovviamente non sono d’accordo con te. Certamente nel libro c’è tutto, ma, secondo me, espresso secondo luoghi comuni. In sostanza il romanzo non mi ha coinvolto. Comunque, ovviamente, ognuno ha il suo modo di vedere le cose, e penso che ogni modo, quando è offerto onestamente, sia legittimo. Ciao. Rudy

  6. Davide scrive:

    Ma la critica è tutt’altra cosa. Acciaio è un libro che può far innamorare il lettore quanto farlo scandalizzare, dipende esclusivamente da chi lo legge. Viene infranta la barriera del buonsenso, certo, insieme a quella moralistica. Ma ricordo che la Avallone si è laureata in filosofia, il libro è carico di riferimenti e significati che vanno oltre la semplice narrazione. Le ripetute descrizioni della fabbrica, dei cortili, degli stessi personaggi sono sì dettagliate, ma non creano mai un’immagine fissa e materiale nella fantasia del lettore, nonostante i particolari più minuziosi e i termini tecnici dell’ambiente metallurgico, il lettore rimane con la consapevolezza che non riesce a riportare fedelmente quegli elementi nella sua immaginazione, e tutto ciò ha uno scopo, quello di rendere spazio e tempo (le ellissi applicate e i conseguenti flashback) evanescenti, impossibili da far rientrare entro gli schemi percettivi e materiali.
    Ciò è riconducibile al russo Dostoevskij, letterato molto caro all’Autrice, dal quale è stata assorbita anche la tendenza e la capacità di rendere tutti i personaggi dinamici, a tutto tondo: di ognuno di questi, seppur in quantità differenti per ciascuno, viene offerta una focalizzazione interna, a volte interi capitoli (quelli in cui i verbi vengono coniugati al presente). Tra questi l’unica eccezione, l’unico personaggio “piano” è Enrico, non a caso motivo di dolore e strazio per la famiglia; la mancanza di umanità, di saper “pensare”, essere pensatori, oltre che lavoratori, porta indirettamente ad un’esistenza chiusa, inutile, per quanto possa esserlo.
    Inoltre il linguaggio è semplice, volgare, talvolta scandaloso. Tuttavia non mancano descrizioni pervase di poesia, flussi di coscienza delle due ragazze apparentemente futili, istantanei, ma carichi di emozioni, come se volessero portare le stesse ansie e esitazioni nel lettore. Dunque vengono impiegati termini dialettali, neologismi, locuzioni tipiche del parlato: ciò, purtroppo, ha come conseguenza un interessamento maggiore per la fascia adolescente e minore per gli adulti, portati ad essere più conservatori, tradizionali. Ma il tutto viene fatto per imprimere ancora più realismo ad un libro che ne ha sin troppo, che può far scandalizzare, sì, ma anche innamorare.

  7. Rudy scrive:

    Ti ringrazio dell’accurato e approfondito commento. Faccio solo un’osservazione: personalmente il libro non mi ha fatto innamorare, ma neppure scandalizzare. Come ho scritto nelle mie considerazioni (non ho la presunzione di fare recensioni, ma solo di esprimere una reazione personale alla lettura) ho trovato il libro infarcito di luoghi comuni. E, per quanto mi riguarda, i luoghi comuni non fanno né innamorare né scandalizzare. Sono solo motivo di disinteresse.
    Ciao e grazie, comunque.

  8. Gabriele scrive:

    Sarà come dici tu Rudy, ma come primo punto posso dirti che le emozioni sono ignoranti, ciò che non fa emozionare te magari fa emozionare qaulcun’altro, invece come secondo argomento trovo lo scrivere grezzo di questa scrittrice efficace e la sua ridondanza musicale; non sarò un critico e magari nemmeno un esperto di scrittura ma ho trovato questo libro interessante, se poi tu da esperto trovi lo trovi noioso e banale amen, queste tue parole non cambiano la mia idea.

    Ciao.

    Gabriele

  9. Rudy scrive:

    Nn sono né un critico né tantomeno un esperto. Leggo un libro, cerco di capirne il contenuto e l’impatto che esso può avere sulla mia sensibilità. Su questa base esprimo un parere, e cerco di motivarlo. Questo non toglie che altri possano essere di parere differente e che il loro parere sia rispettabilissimo, come lo è certamente il tuo e quello di tanti che lo hanno letto e apprezzato. Anzi, riguardo a questo libro mi sembra che il mio punto di vista sia minoritario.
    Ciao e grazie per il commento.

  10. Reiroshu (Erica) scrive:

    ps: non fa parte del commento, ma mi scuso per aver scritto male “rudy”. è tardi, ho lavorato tutto il giorno..e mio zio usa lo stesso nick, solo scritto con la “i”.. è stato un errore ingenuo, ma a me avrebbe dato fastidio, perciò scusami tanto, rudy.
    erica

  11. Reiroshu (Erica) scrive:

    Saluto Rudy e tutti quelli che hanno commentato.

    é passato qualche mese dall’ultimo commento, ma mi accodo volentieri, soprattuttto perché condivido in pieno i punti espressi da Rudy. Vorrei, quindi, dire umilmente “la mia”, cercando di essere obiettiva.

    Ho letto “Acciaio” nell’estate del 2010, ripromettendomi di rileggerlo più avanti per poter esprimere meglio la mia opinione a riguardo. Questo è ciò che sto facendo ora, approfondendo anche le idee dell’autrice, leggendo articoli , guardando interviste etc. Premetto anche che, riferendomi a lei, dirò “Silvia” e non “la Avallone”, sia perché mi viene spontaneo, essendo sua coetanea, sia perché il binomio “articolo più cognome” mi è antipatico e mi ricorda tanto la scuola media, dove ai ragazzini che non facevano parte della propria cerchia di amici ci si riferiva esattamente così.

    Ammetto che la mia prima tentazione, parlando di “Acciaio” è quella di distruggerlo.

    Io leggo di un padre il cui occhio “bruca” i particolari del corpo della figlia tredicenne in bikini con un binocolo e ho voglia di tirare il tomo dritto in faccia a Silvia. E la voglia ritorna quando ogni pulsione istintiva, ogni odore, ogni frammento di pelle dei giovani protagonisti vengono descritti come “animali”, quando ogni volta che il personaggio di Rosa riappare sulla scena si sottolinea un nuovo dettaglio che la fa sembrare ancora più misera e grigia, quando paroloni dalle pretese poetiche vengono sbattuti appositamente nel mezzo delle descrizioni del “degrado” teatro della vicenda narrata.

    é bruciante, quasi, il desiderio di domandarle chi vuol prendere in giro, imbellettando con una scrittura (sì) capace, frutto di anni di studio e tentativi, una trama già vista, i cui protagonisti non si scostano un attimo da cliché pescati un po’ qui un po’ lì.
    Il disperato tentativo di far immedesimare il lettore medio in giovani operai come Alessio, coi suoi muscoli giovani e innocenti, la sua arroganza che nasconde la disperazione del vuoto che lo circonda, fallisce. Fallisce miseramente, perché più Silvia sottolinea certe cose, più aumenta la sensazione di distacco che si percepisce nella lettura.
    Non c’è redenzione, in Acciaio, o almeno, non c’è che una flebile speranza di redenzione. Ma è esattamente quello che Silvia vuole: per lei, l’epilogo con la gita all’Elba di Anna e Francesca non avrebbe dovuto esserci. Avrebbe più volentieri concluso col colpo di scena (piuttosto ben riuscito, secondo me, sebbene non così imprevedibile, a pensarci col senno di poi) della morte di Alessio. Lei vorrebbe dirti: “guarda, guarda, questo è reale”. Ma più calca i toni, più chi legge si allontana da ciò che lei descrive con tanta passione. E quando va bene, il pensiero è: “Forse sarà reale, ma di certo non mi riguarda”. Quando invece va male, non si può che domandarsi se Acciaio, più che un romanzo “realista”, nel senso letterario del termine, non sia che una furbata ben scritta.
    E nel “ben scritta” resta comunque qualche riserva, pur specificando che Silvia, a parer mio, si difende bene. La si può confrontare con molti scrittori più maturi, sebbene le reminescenze liceali e universitarie da “studentessa talentuosa” siano più che palesi e, credo, esibite con la giusta dose di orgoglio, data la sua giovane età.

    Di positivo, a livello stilistico, c’è molto. Silvia sa essere molto poetica e dolce, quando vuole. Peccato che usi la poesia di cui è capace al mero scopo di far scalpore, affiancandola al turpiloquio spesso fine a se stesso, immergendola volutamente in una fanghiglia di contesto della quale va fiera, perché ritiene che proprio questa sia il fulcro della sua “missione artistica”.
    Silvia non ama “l’arte per l’arte”, quindi “la letteratura per la letteratura”. Sostiene che occorra sporcarsi le mani per assicurare un posto nella memoria collettiva a certi spaccati di vita che, probabilmente, per essere ricordati hanno bisogno di essere gridati, scritti in grassetto, sottolineati da una voce che scuota, che dia fastidio apposta.
    E, diciamecelo, Acciaio, di fastidio, ne dà parecchio. Silvia è stata accusata di esagerare, di calunniare, di speculare su una miseria forse neanche così reale come lei dice essere. E ha risposto sostenendo che, purtroppo, vera, quella miseria, lo sia. Ha scritto contro una società, contro dei media come quelli italiani che sembrano (o sembravano, negli anni ‘90 di cui lei tratta) voler crescere tante Francesca preadolescenti a colpi di “musica tunz” e “tette e culi” sbattuti in faccia a tutti quanti, adulti e non, appena si accendeva la tv.

    Che,poi, anche scrivere contro la società non sia così originale, lo sappiamo tutti. Ma,di solito, qui in Italia si scrive contro la Mafia, si scrive contro la corruzione, contro la Casta, contro la Chiesa. Acciaio vuol essere un romanzo “su” e “contro” la mercificazione del corpo e della sessualità e contro l’indifferenza verso una certa classe sociale, quella operaia, spesso vista e pensata a stereotipi. Questo non è buono, è ottimo.
    Purtroppo, non penso che ci riesca. Perché Sivia stessa ricade in quegli stereotipi, seppur meglio indagati del solito, seppur rivestiti di poesia, seppur giustificati, in qualche modo, a volte con originalità, ma spesso facendo uso di altri stereotipi,altri topos,altri schemi predefiniti che ricorrono in Acciaio come (sì, è vero) in molti vissuti umani.

    E la caduta nello stereotipo, nella solita storia, nei soliti elementi, viene peggiorata dal fatto che tutto è gettato nello stesso calderone. Si può anche ammettere che certe persone vivano una vita così deprimente e ripetitiva nella sua meschinità e che sia questo il tipo di persone che popolano il romanzo. Ma ad un certo punto ci si domanda come sia possibile che nella maledetta via Stalingrado ci sia tutto, ma proprio tutto, quello “schifo”. Anche se si sa che, per fare un esempio, la droga è una realtà, persino una realtà evidente in certi ambienti, ma davvero vedere qualcuno che si buca così, davanti a chiunque passi, è all’ordine del giorno per coloro che vivono in quartieri degradati? Sì, è vero che spesso ragazze appena adolescenti restano incinte, ma doveva proprio mettercela, la sedicenne col pancione, in questo libro? Non poteva proprio resistere alla tentazione di buttare anche la sua carne al fuoco?

    Silvia non si limita. Non lo fa perché non vuole limitarsi. Quindi, sì, esagera. Esagera con lo schifo e con la poesia infilata proprio dove non la si dovrebbe trovare. Spara sfilze di aggettivi, come se alla mano avesse un dizionario dei sinonimi e non sapesse bene quale scegliere. Non le basta un aggettivo solo, non le basta una sfortuna sola, non le bastano una sola perversione, una sola allusione, una sola riga per sottolineare qualcosa. Lei ce ne mette dieci. E ci mette anche il grassetto e anche il corsivo. Ci mette il punto esclamativo e anche l’occhio di bue.
    Una trovata per vendere? Può darsi. Un’espressione del suo carattere? Di certo. Ricordiamo il tatuaggio che ha sulla spalla, raffigurante un Ariete, suo segno zodiacale. Un risultato della sua volontà di gridare qualcosa che era certa dovesse essere detto? Anche questo è certo.

    Si può criticare il suo stile, infuriato e giovane, a volte difettoso, a volte troppo ambizioso. Spesso ingenuamente teatrale, come può essere lo stile di una ventiquattrenne quale era quando ha scritto il libro.

    Si può criticare la trama, pur tendendo conto che in quella banalità Silvia ha visto qualcosa di reale, qualcosa che a volte vediamo tutti, anche se nella vita vera la banalità viene contorta, annebbiata, arricchita dal fatto di essere vissuta. Viene anche dimenticata, però, e questo Silvia non vuole permetterlo: vuole ripetere tutto con forza, renderlo visibile, persino ridondante, piuttosto che farlo passare inosservato. L’intento è nobile e questo è evidente quando la si sente parlare. Ci crede davvero, lei. Ha creduto in Acciaio perché ha sentito di avere qualcosa da dire.
    Come poi l’abbia detto e sviluppato, beh, è un’altra questione.

    Quello che mi trattiene dal distruggere il libro di Silvia Avallone è, in definitiva, Silvia Avallone. E non per spirito di solidarietà verso una coscritta. Ma per il sorriso sincero che mi ispira quando la sento parlare- e parla bene-, quando la sento esprimere quel che aveva dentro mentre scriveva. Silvia Avallone è meglio del suo Acciaio. Meglio di questo romanzo che, anche secondo me, non meritava tutta la valanga di premi che ha ricevuto. E attendo con grande curiosità di vedere come si evolverà nei prossimi anni.

  12. Rudy scrive:

    Grazie, grazie, grazie ancora per il tuo commento che entra in modo molto dettagliato e approfondito in un romanzo che ha fatto molto discutere. I numerosi commenti che hanno ricevuto le mie considerazioni (a fronte del deserto dal quale sono circondate le mie considerazioni su diversi altri romanzi) ne sono un po’ la prova. Non ho riletto il romanzo e il tuo commento mi ha fatto venire voglia di farlo. Esaurita la lunga coda di letture che ho in programma, lo farò. Una cosa del tuo commento mi piace sottolineare, perché da me molto condivisa: “Si può criticare la trama, pur tendendo conto che in quella banalità Silvia ha visto qualcosa di reale, qualcosa che a volte vediamo tutti, anche se nella vita vera la banalità viene contorta, annebbiata, arricchita dal fatto di essere vissuta. Viene anche dimenticata,” Ecco, forse quello che la tua frase mi suggerisce è che la banalità sta proprio in quella condizione in cui la banalità come tale viene nascosta. Si potrebbe affermare che non c’è niente di più banale che il credere di non esserlo :-) ). Ciao e grazie ancora.

  13. umberto scrive:

    Un capolavoro che mette in ombra la tanto osannata NATALIA GINZBURG,soppiantandola nella sua qualita’ di scrittrice emblematica di una generazione,come emblema di questa.La critica di Grossman è ingiusta e sballata.Il libro è testimonianza viva e terribile di una gioventu’ perduta,una gioventu’bruciata.Questa testimonianza distacca di un miglio il BONJOUR TRISTESSE della Sagan nel testimoniare un male di vivere di ragazzi e ragazze senza speranza,un’ angoscia sorda di giovani abbandonati da una societa’ criminalmente indifferente ai loro problemi,se non come soggetti-oggetti di consumo,e ridotti ad una vita senza etica e moralita’.Un libro che parla a tutto il mondo,che dice di un Italia sconosciuta e dolorosa:non a caso lo stanno traducendo in una miriade di lingue.Tutti coloro che lo leggeranno vivranno il dramma della propria epoca: quello di una generazione disgraziata,senza futuro,senza gioa di vivere.Grazie di esistere,Silvia.

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