QUARTETT di Luca Francesconi alla Scala. Qualche considerazione

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Dopo aver visto alla Scala Quartett, l’opera di Luca Francesconi, se da una parte sono stato impressionato dal fascino di una rappresentazione in cui musica, scenografia, movimenti scenici convergono a formare uno spettacolo unitario, coerente e globalmente coinvolgente, dall’altra parte sono rimasto turbato dalla problematicità di un’opera i cui significati reconditi mi sono apparsi di non semplice e immediata interpretazione.

Come è noto l’opera richiama alla lontana i temi dal celebre romanzo di Choderlos de Laclos, Les Liaisons dangereuses, e in senso molto più stretto il lavoro teatrale di Heiner Müller ad esso ispirato, Quartett, appunto.

L’ambiente in cui si svolge l’opera è lo stesso del romanzo francese: siamo negli ultimi anni che precedono lo scoppio della rivoluzione francese. La vita della nobiltà si esercita in nefandezze e in seduzioni sessuali gratuite, prive di qualsiasi considerazione e rispetto per la dignità della persona, e, come conseguenza, in mancanza di valori sostanziali in cui riconoscersi, precipita verso un disfacimento che coinvolge tutta la società. Il visconte di Valmont e la marchesa di Merteuil sono i punti di riferimento più espliciti in questo ambiente, mentre altri personaggi, come madame de Tourvel, mademoiselle Volanges, e altri ancora, impersonando il tessuto sociale, rappresentano le vittime, ma anche i complici, consapevoli o meno, delle nefandezze. Il romanzo è epistolare e nelle lettere che protagonisti e personaggi vari si scambiano, vengono riportati i fatti e viene mostrato come, sulla loro scia, la società va disgregandosi.

Müller, riprendendo il tema generale, lo espone mettendo in scena il confronto, che si sviluppa lungo tutto il lavoro, fra i due protagonisti del romanzo di de Laclos, Valmont e Merteuil. Adotta quindi un artificio scenico per cui i due protagonisti non solo interpretano se stessi e manifestano le proprie pulsioni, ma, scambiandosi ruolo e in certo qual modo travestendosi, interpretano anche reazioni e sentimenti delle due principali vittime della seduzione di Valmont, madame de Tourvel e la giovane vergine Cecilia Volanges, nipote della Merteuil. In modo più esplicito e con carattere più generalizzante che nel romanzo, in questo lavoro l’assenza di valori e la disgregazione sociale sono posti in primo piano: nei rapporti fra uomo e donna quello che emerge è il possesso. La seduzione ne è lo strumento. I sentimenti non rappresentano un valore; al contrario, sono considerati un disvalore, attribuibile con disprezzo ai ranghi più bassi della società. La conseguenza di tutto questo non può essere che la morte. La morte delle persone: Valmont morirà alla fine del dramma per aver bevuto, consapevolmente, il veleno offertogli dalla Merteuil. Certo, muore come persona fisica, Valmont, ma resta sospeso nell’ambiguità interpretativa se questa morte drammaturgicamente si estenda anche alle vittime della sua seduzione. Non a caso l’ultima battuta della marchesa di Merteuil, che assiste alla morte del visconte, recita: «Morte di una puttana. Adesso siamo solo cancro, amore mio». Ma anche la morte della società. Non a caso, ancora, la didascalia scenica che precede il lavoro recita testualmente: “un salotto prima della rivoluzione francese; un bunker dopo la terza guerra mondiale”. È evidente il riferimento a due situazioni di profonda crisi, che si pongono al di là del tempo e dello spazio, e che simboleggiano globalmente la disgregazione di un’umanità ormai priva di valori.

 

L’opera di Francesconi riprende in modo quasi letterale il dramma di Müller. Con alcune modifiche. Anzitutto la scelta della lingua. Francesconi usa l’inglese, motivando questa scelta con la constatazione che l’inglese, bene o male, è una lingua universalizzata (nel corso del testo del libretto vengono usate solo una sessantina di parole, quelle più diffuse e conosciute anche da persone di differente madre lingua) e quindi più adatta ad esprimere una situazione che, pur incarnandosi in un evento specifico, assume un carattere globale. In secondo luogo, utilizzando la musica come principale mezzo espressivo, è costretto a ridurre il testo di Müller, selezionando singole frasi e tagliandone altre, col risultato, tuttavia, che la lettura del libretto, e di conseguenza il canto sul palcoscenico, finiscono per perdere in comprensibilità.  Per questo credo che sia opportuno affrontare l’ascolto dell’opera dopo aver letto, oltre al libretto, anche il dramma di Müller. Un ulteriore modifica rispetto al testo di Müller è l’introduzione, negli interventi dei protagonisti, di momenti di riflessione, o di interrogazione, o di desiderio, che il compositore definisce sogni.

La musica interviene per tradurre in termini espressivi queste alternanze. E ciò è ottenuto con una straordinaria varietà timbrica. Nell’opera vengono usate due orchestre: una esterna e una interna, costruendo in tal modo un ambiente tridimensionale nel quale lo spettatore si sente immerso. L’orchestra esterna sembra interpretare, nel più vasto ambito della società, quelle che sono le pulsioni e le costruzioni connesse con la vicenda drammatica, fungendo quasi da preludi o intermezzi alle scene vere e proprie che invece trovano espressione soprattutto nell’orchestra “interna”, come accompagnamento o contrappunto agli interventi vocali. Un coro invisibile sottolinea col timbro della voce umana questo aspetto generalizzante, quasi un coro greco di commento, ma espresso senza parole, come puro suono. Infine i sogni, che si inseriscono nel contesto drammatico, trasferiscono la costruzione degli intrighi e delle nefandezze, in momenti più interiori (ciò che manca nel lavoro di Müller), come se questi comportamenti finissero per ripiegarsi sui loro stessi e costruissero la contraddizione che porterà alla morte i personaggi. La musica in queste occasioni assume un ruolo e un timbro che la differenzia sostanzialmente da quella strumentale, affidandosi soprattutto all’espressione elettronica.

Tutto questi aspetti danno all’opera una complessità che rende non semplice e tantomeno immediato l’ascolto, almeno in prima battuta. Come già ho osservato in altra sede, il contemporaneo “tener dietro” alle parole, alla loro traduzione, alle immagini che si svolgono sulla scena, all’ascolto di timbri sempre diversi che si incrociano per realizzare le diverse scene, non consente di rendersi conto in modo compiuto e diretto dei contenuti del dramma e in sostanza delle stessa drammaturgia. Certamente una lettura, compreso il dramma di Müller, e un ascolto anticipato, e un successivo riascolto possono aiutare a superare queste difficoltà. Forse, come qualcuno ha affermato, sarebbe stato opportuno che la RAI avesse effettuato una ripresa televisiva che avrebbe consentito una utile rivisitazione dell’opera.

 

La rappresentazione. Se la comprensione dei significati e della trama drammaturgica ha offerto le difficoltà che ho cercato di esporre, il piacere alla visione e all’ascolto è stato senza riserve.

Anzitutto la regia, dovuta ad Alex Ollé, della Fura dels Baus. In funzione della musica, e dei suoi timbri mutevoli, la scena deve rappresentare da una parte la claustrofobia del confronto fra i due protagonisti; dall’altra l’irruzione di una società malata, disgregata che funge da eco amplificata delle nefandezze perpetrate; e in terza istanza la descrizione immaginifica suggerita dai sogni, con il loro richiamo alla fisicità dei corpi come oggetti di seduzione, la loro mutevolezza e la loro alternanza.

Il primo aspetto è realizzato da un ambiente a forma di parallelepipedo, il “salotto” o “bunker” nel linguaggio di Müller, posto al centro del palcoscenico, sostenuto da una fitta rete di cavi che lo tengono sospeso. Esso, con un bel colpo di teatro, si materializza al termine di un approccio tipo Google Earth che dal panorama della città ci introduce nel palazzo. L’immagine suggerisce già all’inizio, l’esistenza di uno stretto rapporto fra il mondo esterno, la società insomma, e gli eventi sui quali è costruito il dramma. La musica che accompagna questo iniziale evento scenografico è musica dell’orchestra esterna, che poi, al momento in cui la marchesa di Merteuil inizierà il proprio monologo all’interno del “salotto”, verrà trasferita all’orchestra interna.

La scena si viene così ad articolare in tre diverse organizzazioni, come i tre diversi timbri offerti dalla musica: la musica esterna, la società e la sua disgregazione, rappresentata scenograficamente dalle proiezioni sullo sfondo, che via via offrono vedute di cielo azzurro che circondano il parallelepipedo centrale, di bianche nubi vaganti, muri, folle ammassate, costruzioni ed edifici, crolli di varia natura; la musica strumentale interna, che accompagna il confronto fra i due protagonisti claustrofobicamente all’interno del “bunker”, nel quale l’illuminazione tende a dare risalto ai vari intrighi e ai vari travestimenti; il timbro elettronico della musica che accompagna i sogni, e che trova corrispondenza con proiezioni sulla parete di fondo, che non si limitano a circondare il bunker, ma che ne coinvolgono lo spazio inglobandolo: corpi che si avvinghiano, espressioni del viso allucinate, occhi che si dilatano e che perforano lo spazio interno del parallelepipedo, etc.

Tutto questo si sviluppa in un’atmosfera nella quale sogno e realtà sembrano incrociarsi e avvolgere lo spettatore in un continuum di attenzione e di interesse, anche se la riflessione sembra non trovare, almeno al momento dell’ascolto, risposte immediatamente convincenti.

I due protagonisti, Allison Cook come marchesa di Merteuil e Robin Adams come visconte di Valmont, cantano e recitano in modo impeccabile. La claustrofobia dei loro incontri si manifesta nell’agitazione di corpi sopraffatti dal desiderio, o nei travestimenti che trasferiscono il modo di essere nell’alternativa della seduzione e del suo esprimersi in positivo e in negativo, e contrappuntata con le immagini proiettate sulla sfondo. Non ho abbastanza esperienza e cultura per poter esprimere un giudizio sull’operato del direttore d’orchestra, una graziosissima signora finlandese dal nome impronunciabile, Susanna Mälkki. Ma dato che tutto mi ha dato la sensazione aver funzionato in modo perfetto, devo arguire che anche il suo operato sia stato all’altezza di un risultato di alto livello. Da rilevare, come è stato sottolineato da più parti, che è la prima volta che una rappresentante del gentil sesso dirige un’opera alla Scala

Alla fine il pubblico, più numeroso di quanto mi sarei aspettato, ha tributato agli interpreti e allo stesso compositore  un caloroso applauso che, a mio avviso, denota che l’interesse per la musica contemporanea, quando essa è in grado di offrire un reale spettacolo teatrale, è ancora alto.

Vedi il testo della piéce teatrale di Heiner Müller

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