DON GIOVANNI alla Scala nella regia di Robert Carsen
Il Don Giovanni è una delle opere che più mi affascinano non solo per la musica di eccezionale bellezza, ma anche per il tema dell’ambiguità, che mette a confronto il bene con il male, dandone una possibile e irrisolta interpretazione. Come Prometeo, che ha rubato il fuoco agli dei, commettendo empietà, e aprendo all’umanità il progresso, don Giovanni viola le regole non scritte di una società bigotta, ne fa risaltare l’ipocrisia rivelando, con un comportamento giudicato immorale e scellerato, un nuovo modo, più genuino, di concepire i rapporti interumani. Si dice che don Giovanni approfitti della debolezza femminile considerando e utilizzando le donne come semplici oggetti di piacere: certamente questo appare vero, ma nel contempo offre alle donne, travolte da una logica libertina, la possibilità di una riflessione sul loro stato e quindi di una ribellione contro una società perbenista e totalmente dominata dal sesso maschile.
Ambiguità, ipocrisia, contraddizioni, confronto e contrasto fra ciò che viene considerato bene e ciò che viene considerato male fanno del Don Giovanni un’opera nella quale i registi hanno la possibilità di cimentarsi in interpretazioni differentemente variegate, spesso contradditorie, ma che tutto sommato stimolano riflessione e ricerca.
Quest’anno la Scala ha voluto aprire la stagione riproponendo quest’opera, già offerta in passate edizioni con differenti interpretazioni, per citare le più recenti (e quindi quelle che ho visto): quella di Strehler, di grande eleganza e, mi pare, influenzata dalle tonalità del Don Giovanni di Moliere; quella di Peter Brooks, al piccolo teatro, che scava soprattutto nella psicologia dei personaggi; quella di Mussbach, con evidente tendenza all’astrazione; e ora questa di Robert Carsen.
E proprio su questa credo che sia il caso di approfondire le riflessioni. Carsen ci offre una sorta di teatro nel teatro, riprendendo un tema caro a Pirandello e, successivamente, riscoperto da tanti altri drammaturghi e registi. Ma la soluzione di Carsen è particolarmente originale: in questa messa in scena, palcoscenico e platea sembrano scambiarsi o a volte addirittura confondere i ruoli. Già all’inizio, nel corso della sinfonia d’apertura, a sipario ancora chiuso, don Giovanni attraversa la platea, con un balzo sale sul palcoscenico, tira giù il sipario e scopre un grande specchio che occupa tutta la parete di fondo e che riflette la platea. La platea si materializza così nel palcoscenico o il palcoscenico è la platea stessa? Questo dilemma è la base di tutta la messa in scena. Le quinte scenografiche hanno l’aspetto di sipari, copie dipinte del classico sipario scaligero, che si abbassano, si spostano, vengono ruotate, si innalzano, e presentano porte o finestre attraverso le quali nelle diverse occasioni i personaggi si muovono: per esempio, l’ingresso di donna Elvira e il suo “lungo” tragitto alla ricerca di “quel barbaro”. Platea e palcoscenico si incrociano in continuazione: le maschere cantano in platea mentre la festa si svolge sul palcoscenico; don Giovanni assiste a tutta la scena di Leporello e di donna Elvira e poi al processo al suo servitore, seduto sul davanti del palcoscenico come se fosse in platea con accanto una sua nuova conquista; nella scena del cimitero, che Carsen ci risparmia in quanto ad ambientazione scenografica, la statua del commendatore appare sul palco reale, mentre sul palcoscenico si scopre nuovamente il grande specchio a riflettere la platea. I tre personaggi, Don Giovanni, Leporello e il Commendatore, appaiono raddoppiati e simmetricamente contrapposti nel riflesso che si crea. E ancora lo sfondo del palcoscenico viene ripetutamente ripreso come una prospettiva del teatro con i suoi palchi le sue luci, le sue decorazioni, in alcune occasioni addirittura con effetto ottico creato dalla contrapposizione di due specchi che riproducono l‘immagine in una infinita ripetitiva profondità.
In queste condizioni l’arredamento scenico diventa superfluo e quindi è limitato al minimo indispensabile: nella prima scena, solo un letto al centro, davanti a una quinta-sipario, sul quale don Giovanni e donna Anna stanno scopando alla grande, nel mentre cantano il duetto “Non sperar se non m’uccidi ch’io ti lasci fuggir mai”; un altro arredo, che si ritrova di frequente, è un appendiabiti a rotelle che segue don Giovanni nei suoi spostamenti per i suoi frequenti cambi d’abito; alcune sedie stanno a significare un luogo pubblico (ristorante? chiesa?) dove avviene il matrimonio fra Zerlina e Masetto, e poi il funerale del commendatore; un piccolo tavolo apparecchiato conclude l’ultima scena, quella della cena di don Giovanni. Mi sembra chiaro che il quadro generale trasferisce l’ambiguità e la contradditorietà del personaggio di don Giovanni a tutto l’impianto scenico nel quale platea e palcoscenico si incrociano, come nella vicenda operistica si incrociano il bene e il male, senza che sia possibile assumere in modo definitivo quale delle due alternative sia la migliore o quella “giusta”. L’ambiguità si manifesta in modo esplicito proprio nel finale: don Giovanni viene trafitto dalla spada come all’inizio dell’opera viene trafitto il padre di Anna, e precipita all’inferno mentre si sentono le voci dei diavoli che lo accolgono e si sollevano fumi solfurei. Morto don Giovanni, i sei superstiti si ritrovano nel boccascena davanti al sipario abbassato e cantano il sestetto ironicamente insipido, che vorrebbe significare il ripristino delle regole di un mondo perbenista violato e turbato dalle intemperanze del libertino: donna Anna prima di sposare don Ottavio vuol avere un periodo di riflessione; Zerlina e Masetto finalmente si sposeranno; donna Elvira entrerà in convento; Leporello andrà all’osteria sperando di trovare un padrone migliore. Insomma, il mondo riprenderà come prima? Carsen ci dice di no e ci propone, lui, il suo sorriso ironico: mentre i sei cantano, il sipario si rialza e mostra, sullo sfondo di un palcoscenico completamente vuoto, la figura di don Giovanni, che, con aria ironica e divertita, si avvicina inosservato ai sei e con un gesto li fa sprofondare, mentre dal suolo si alzano ancora solfurei fumi infernali. Conclusione, secondo me, molto divertente che, se non presente nel libretto e nelle didascalie, di fatto dà immagine all’ironia della musica del sestetto finale e mi sembra appropriata nell’ambito della interpretazione generale della messa in scena..
I costumi sono moderni, ma non assumono un ruolo decisivo; cioè non si attribuisce ai costumi un ruolo particolare se non quello di arricchire l’immagine scenica: Leporello vestito da operaio, Don Giovanni si cambia d’abito frequentemente facendo uso dell’appendiabiti che lo segue quasi in continuazione, donna Elvira è quasi sempre in una sottoveste nera (è la donna che si offre per amore, e non come oggetto), don Ottavio e Donna Anna vestono in modo “elegante”, i due giovani sposi sono vestiti di bianco, nel corso della festa i protagonisti sono mascherati e vestono di rosso con abiti apparentemente settecenteschi, etc.
Mentre non mi pare che ci siano dubbi sull’obiettivo dell’interpretazione di Carsen, qualche perplessità mi è sorte per la sua realizzazione. Ho trovato alquanto difficile seguire le vicissitudini dei diversi personaggi, da una parte forse per un eccesso di comparse che non sempre, mi è sembrato, svolgessero un ruolo indispensabile; dall’altra per un problema interpretativo musicale. E di questo credo che sia il caso di parlare
Dal punto di vista dell’esecuzione musicale subito, fin dall’inizio, ho avvertito una sensazione di disagio: il Don Giovanni che avevo nelle orecchie era decisamente più veloce. Questo disagio, sulla lentezza del procedere dell’opera, si è materializzato, almeno così mi è sembrato, in un certo appiattimento dei personaggi e quindi in una mia minor capacità di seguirne le vicende. So che il tempo scelto da Barenboim è stato fortemente criticato da molti critici e ascoltatori. Anche in occasione della rappresentazione cui ho assistito, alla fine dell’opera, durante gli applausi finali, quando è comparso il maestro, si sono sentiti alcuni sonori fischi. Io non credo che i tempi di Barenboim debbano essere giudicati “sbagliati”. Il direttore sente la musica e la offre al pubblico secondo la propria interpretazione. Può piacere o può non piacere, si può essere d’accordo come si può non esserlo. L’interpretazione che abbiamo nelle orecchie non è quella “giusta”: è solo quella cui siamo assuefatti e che ci aspettiamo. Questo vale per ogni evento artistico, e ogni evento artistico ha sempre questo di positivo: che costringe a riflettere, e soprattutto a giudicare: se stessi prima ancora che gli altri. In fin dei conti è proprio la ricerca del nuovo, sia esso una creazione, sia esso l’interpretazione di una creazione, che è alla base del progresso, della maturazione, della crescita che non deve mai interrompersi. Questo Don Giovanni mi ha dato molto: maggior chiarezza nel districarmi nell’eterno intreccio del bene e del male, anche se mi ha convinto sempre di più che non esiste un discrimine assoluto e che tutto, anche le eventualità più negative, possono far germogliare un progresso reale.
Sui cantanti, occorre dire che sono stati tutti a un notevole livello. Rispetto al primo cast ci sono state due variazioni: Leporello è stato interpretato da Ildebrando D’Arcangelo anziché da Bryn Terfel, mentre donna Anna è stata interpretata da Tamar Iveri poiché la Netrebko è vittima di una indisposizione che si trascina ormai da alcune recite. Gli applausi sono stati entusiastici per tutti i cantanti, per un favoloso Don Giovanni interpretato da Peter Mattei, per una grandissima Frittoli che ha dato la voce a una Donna Elvira appassionata, per un bravissimo D’Arcangelo, ironico e un po’ istrione nel ruolo di Leporello, ma un po’ meno entusiastici per la Iveri, che, credo sia giusto dirlo, ha incarnato un po’ la delusione del pubblico di non poter vedere la soprano russa. Come dire: sostituire la Netrebko “l’è düra!”.