LES CONTES D’HOFFMANN ALLA SCALA CON LA REGIA DI CARSEN
Ero molto indeciso se scrivere qualche considerazione sulla rappresentazione di Les Contes d’Hoffmann che ho visto alla Scala il 21 gennaio. L’opera, pur essendo piacevole sia per quanto riguarda la musica sia per quanto riguarda l’intreccio, non ha una spessore tale da stimolare particolari riflessioni. Avendo poi già avuto occasione di vederla, sempre alla Sala (o agli Arcimboldi) un altro paio di volte, francamente di idee originali proprio non sono riuscito ad averne. Ma tutta questa stagione operistica è un po’ sullo stesso tono. Si tratta in gran parte di opere già viste e rappresentate: una stagione per la quale ho la sensazione che sia stata programmata più per richiamo di pubblico che per invito ad approfondimenti culturali. Mettiamo tutto questo in conto alla crisi, che non permette teatri vuoti come, moltissimi anni fa, mi era capitato di assistere durante la rappresentazione di opere tipo la Lulu di Berg o il Cardillac di Hindemith. L’audience, madrina del mercato e padrona assoluta della televisione, sembra gradualmente impadronirsi anche dei teatri d’opera, e anche della Scala, la cui storia dovrebbe obbligare a un maggior rispetto.
Ma per ritornare a Les contes dell’altra sera, la musica e le melodie allettanti come la barcarola, i valzer di casa Crespel, i cori degli studenti all’osteria, la storia di Kleinzach, ecc. finiscono per tornare all’orecchio a volte quasi ossessivamente, e alla fine sorge la tentazione di parlarne, soprattutto nell’atmosfera della regia di Carsen.
E proprio su questa regia mi sembra opportuno fare qualche osservazione: si tratta della stessa messa in scena realizzata all’Opéra di Parigi nel 2002, sotto la direzione di Jesus Lopez-Cobos, e con Neil Shicoff, Bryn Terfel, Susanne Mentzer, la Desirée Rancatore, Ruth Ann Swenson e Beatrice Uria-Monzon nei ruoli principali. In questo rappresentazione scaligera il direttore è stato Marko Letonja, mentre nei ruoli principali hanno cantato Arturo Chacón Cruz come Hoffmann, Laurent Naouri nei quattro ruoli “diabolici”, Daniela Sindram come Musa e Nicklausse, Vassiliki Karayanni come Olympia, ElliDehn come Antonia, Veronica Simeoni come Giulietta. Detto questo occorre rilevare, per prima cosa, come nella rappresentazione del 21 gennaio, turno d’abbonamento C, sia stato utilizzato in gran misura il secondo cast al posto del primo, venendo meno a una consolidata tradizione, per cui alla prima e nei tre turni principali d’abbonamento deve essere utilizzato il primo cast, che in questo caso, schierava Ramón Vargas nel ruolo di Hoffmann, Ildar Abdrazakov nei quattro ruoli diabolici, Ekaterina Gubanova nel ruolo di Musa e Nicklausse, Rachele Gilmore nel ruolo di Olympia, Genia Kühmeier nel ruolo di Antonia. Non avendo visto i cantanti del primo cast, non sono in grado di valutare le differenze rispetto a quelli che hanno cantato il 21 sera. Devo comunque dire che i due uomini, Chacón Cruz e Naourri sono stati formidabili, soprattutto come attori, sia nel canto che nei movimenti corporei, e hanno saputo dare una grande vivacità alla scena. Sulle donne il discorso è un po’ diverso. La Nicklausse di Daniela Sindram mi è parsa alquanto piatta; l’Antonia della Dehn e la Giulietta della Simeoni hanno fatto il loro dovere senza infamia, ma anche senza particolari lodi; la Olympia della Karayanni ha cantato l’aria di coloratura come ci si poteva aspettare (io credo che nessun soprano affronti questo ruolo senza essere sicura della riuscita perfetta: l’aria è fatta apposta per scatenare fragorosi applausi e a questo mira il soprano nel cantarla) e applausi entusiastici non sono mancati.
In realtà Olympia è un personaggio drammaturgicamente alquanto banale, e in genere i registi, seguendo anche l’andamento della musica, la realizzano imponendole dei movimenti a scatti come ci si aspetta da una bambola guidata da un sistema meccanico o elettronico. Anche Carsen non è sfuggito a questa logica. Tuttavia, da regista intelligente e fantasioso, per uscire da questa logica alquanto abusata, si permette di attribuire al personaggio anche una parvenza di sensazioni e di volontà. Durante il canto nell’aria, alla seconda ripresa, la bambola stende Hoffmann su un carretto di fieno, gli salta addosso cavalcandolo con movimenti che simulano una scopata; e quando viene strappata da Crespel a questa esibizione alquanto scandalosa, essa indica con chiarezza di movimenti di voler riprendere un cosa evidentemente per lei molto piacevole. E alla conclusione dell’aria, riuscirà a ripetere l’esibizione rompendo il meccanismo elettronico che la controlla.
Per il resto, la regia di Carsen cerca di uscire dalla banale rappresentazione suggerita dal libretto e cerca soluzioni più consone all’ambiente interpretato in modo interiorizzato, piuttosto che esteriorizzato.
Ad esempio, la scena di Antonia rappresenta la buca orchestrale di un teatro, sovrastata da un sipario che chiude un palcoscenico. L’immagine della madre che compare alla fine, evocata dal dottor Miracle, appare proprio sul palcoscenico mentre si apre il sipario. La simbologia è trasparente: l’impossibilità di cantare distrugge il sogno della vita di Antonia, fatto di grandi esibizioni canore e di grandi successi; il richiamo del palcoscenico, e della madre che vi appare, è tale per cui ella preferirà rispondere al suo invito e morire piuttosto che andare incontro a una vita scialba e priva di emozione. Fra vivere nella buca dell’orchestra soffocata dalla semioscurità da una parte, e salire sul palco dove regna la luce e il canto e morirvi, Antonia sceglie la seconda soluzione.
Anche nell’atto di Giulietta emergono simbolismi: l’amore mercenario è spettacolo e provocazione nello stesso tempo. L’ambiente è rappresentato non dalle solite gondole (siamo a Venezia) che dominano le regie tradizionali, ma da una platea teatrale che occupa tutto lo sfondo del palcoscenico, dove i sedili sono riempiti da coppie che amoreggiano in modo sempre più audace. Nella parte anteriore si svolge la lotta fra Giulietta e Hoffmann per il possesso del riflesso di quest’ultimo, del quale Dappertutto vuole impadronirsi. Anche in questo caso il riflesso di Hoffmann è il simbolo della sua forza poetica, che le forze della lussuria cercano di strappargli, e che Niklausse, la Musa, si batte per difendere.
L’epilogo conclude il racconto secondo la consolidata tradizione, con Hoffmann che tornerà in braccio alla Musa, cioè all’ispirazione poetica.
Francamente non mi pare che ci sia da dire molto di più su quest’opera e su questa rappresentazione, che comunque ci conferma un Carsen sempre prodigo di soluzioni non banali.
24 marzo 2012 alle 12:49
In effetti è un piacere puramente estetico quello che suscita il film di Powell e Pressburger…ma ne consiglio la visione. Grazie e ciao.
http://www.youtube.com/watch?v=I1AL8SAmWeQ&feature=related
24 marzo 2012 alle 16:47
Ho visto la barcarola che hai indicato: notevole. Grazie a te. Ciao