ZABRISKIE POINT (Michelangelo Antonioni, 1970)

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Come il film precedente, Blow up, anche questo è stato girato in lingua inglese. Il film si svolge in California all’epoca della contestazione studentesca contro una società costruita sull’imperialismo economico e sulla violenza.

Le prime inquadrature ci introducono all’interno di aule universitarie dove gruppi di studenti dibattono sulle forme di attuazione della protesta e sul modo di affrontare le prevedibile repressione poliziesca. Si scontrano i punti di vista di studenti negri, più inclini ad un’azione rivoluzionaria, con quelli di studenti bianchi, che puntano piuttosto su azioni come occupazione e chiusura dell’Università. Mark (Mark Frechette), un giovane studente bianco, trova che la discussione in corso non dia risposte accettabili alla sua voglia di ribellione, e si allontana, fra le proteste dei compagni. L’azione di protesta programmata, si svolge davanti all’università di Los Angeles: la polizia interviene con manganellate ferendo molti dimostranti, e arrestandone altri che vengono portati al locale carcere per essere interrogati, perquisiti, etc. Siamo in piena guerra del Vietnam, e il numero di soldati americani uccisi sale a diverse decine di migliaia, ciò che allarga la contestazione anche al di fuori dell’Università. In uno scontro fra un gruppo di studenti negri, asserragliati nei locali universitari, e la polizia, Mark, che ha comprato una pistola, spara e un poliziotto muore. Mark fugge, raggiunge l’aeroporto, sale su un piccolo aereo da turismo e decolla dirigendosi verso l’interno.

L’avvocato Lee Allen (Rod Taylor), dirigente di successo di una società che traffica affari immobiliari, deve recarsi a Phoenix per trattare con probabili acquirenti la realizzazione di insediamenti civili nel deserto, che una pubblicità costruita ad hoc descrive come il non plus ultra dell’appetibilità per sfuggire al caos della città. Ha bisogno della giovane segretaria Daria (Daria Halprin) che tuttavia è introvabile. La ragazza, che pur non facendo parte della contestazione studentesca vive l’insofferenza tipica dei giovani di quel periodo, ha preso un’automobile e si è diretta verso l’interno della California. Prima di raggiungere Phoenix, intende trovare un villaggio solitario dove sia possibile isolarsi a meditare.

In questa prima parte il film ci immerge in immagini di Los Angeles, la grande città della costa occidentale degli USA; ce ne mostra i grattacieli, dove hanno sede gli uffici asettici delle società multinazionali, la cosiddetta downtown; ma anche le periferie degradate percorse da larghe strade, scalcinate case di povera gente, vaste aree in cui si accumulano rifiuti di ogni genere, cartelloni pubblicitari per ogni dove, traffico automobilistico frenetico, e tanta polvere; negozi ricchi e per ricchi nelle aree centrali, negozi poveri per poveri nelle estese aree della degradata periferia; e ancora, più esteriormente, zone residenziali di villette di varia eleganza e signorilità, etc. È l’immagine dell’America anni Sessanta, di una società opulenta nella quale convivono povertà e ricchezza, lavoro e disoccupazione, crescita e ristagno, ordine e disordine. Sopra tutto ci sono le grandi autostrade che collegano le diverse zone urbane e che poi, allontanandosi dalla città portano verso l’interno, verso il deserto.

E verso il deserto procedono Mark sul piccolo aereo rubato e Daria, sull’automobile. Daria arriva al villaggio, ma la sua permanenza è brevissima. Il villaggio è stato invaso da una muta di ragazzini orfani, dispersi, raccolti in una Los Angeles a loro ostile e portati in questo luogo da un giovane dedito al loro ricupero. Daria non riesce a incontrare questo giovane, e, spaventata dall’aggressività dei ragazzini, decide di ripartire percorrendo la strada in direzione del deserto.

E lungo questa strada Mark e Daria s’incontrano. Dapprima si tratta di un incontro a distanza: l’aereo sorvola ripetutamente la macchina, finché trovato uno spiazzo desertico e pianeggiante l’aereo atterra, e Mark scende. La ragazza si dirige verso di lui e fra i due nasce una simpatia: entrambi sono alla ricerca di una libertà che Los Angeles nega alla loro vita. Il deserto li accoglie. Gli spazi sterminati, la sabbia, le montagne all’orizzonte, l’azzurro intenso del cielo, tutto sembra essere diventato il loro rifugio. Imboccano una strada che si addentra sempre di più fino a raggiungere una specie di terrazza al di sotto della quale si estende un suolo frastagliato, che si degrada in una vallata desertica al fondo della quale si vede un fiume secco. È lo Zabrinskie Point, che aggetta sulla Valle della Morte. Ma per i due amici, non è affatto la valle della morte. Al contrario. La valle offre a loro una grande occasione di vita. Essi si precipitano verso il basso correndo, superando le collinette di sabbia e borace, scivolando, tenendosi per mano, cadendo, rialzandosi, abbracciandosi, baciandosi e, finalmente facendo l’amore, in questo paesaggio ostile agli altri, ma avvolgente per loro. Qui il film vuole significare la pienezza della vita che travolge i due, moltiplicando, sul suolo desertico le coppie, ovviamente immaginarie: prima due, poi sempre più coppie o anche gruppi di tre o di quattro, tutti abbracciantisi in amplessi sempre più caldi, sempre più intensi. Il contrasto fra la pubblicità della società immobiliare che invitava le coppie felici della città ad acquistare una residenza nel deserto, mostrando manichini sorridenti e soddisfatti, e la vera felicità dei due giovani che realmente, nell’ebbrezza dell’amore, riescono a identificarsi con una natura che sembra riportarli all’inizio del mondo è il tema che sta alla base del film.

Ma come tutte le cose, anche questa ebbrezza finisce. Mark vuole tornare a Los Angeles e restituire l’aereo rubato, dopo averlo dipinto con temi psichedelici. Daria teme per lui, ma Mark è sicuro di farcela. Purtroppo la sua sicurezza non gli salverà la vita. La polizia, una volta atterrato col piccolo aereo, lo ucciderà. Daria, sconvolta, viene a sapere la notizia dalla radio. Si reca così a Phoenix, dove l’avvocato Allen, in una splendida e ricca villa costruita in mezzo al deserto (un esempio della pubblicità) cerca di convincere dell’affare i potenziali acquirenti. Daria è accolta con grande cordialità, e gioia da parte del principale, che evidentemente ha altre intenzioni nei suoi riguardi. Questo naturalmente non la aiuta ad attenuare la tristezza e il vuoto che si è aperto in lei. Così fugge di nuovo. Ma mentre si allontana, non può non fermarsi a guardare sullo sfondo la grande villa, simbolo di una società che ormai le è completamente estranea. E allora immagina che tutto possa cambiare, a cominciare dalla villa che esplode scagliando tutti i pezzi nell’aria: mura, mobili, oggetti d’uso, che in questo modo ricadono a terra. Il finale è in questa immaginata esplosione che viene ripresa da diverse angolazioni e diverse distanze, mentre la cinepresa in un silenzio quale solo la mente può realizzare, mostra i frammenti di oggetti che ricadono al suolo al rallentatore.

Il film ha pochissimi dialoghi: solo quelli essenziali, mentre sono le immagini che raccontano la storia: le immagini della città all’inizio, le immagini del deserto successivamente, le immagini dell’amore nella Death Valley e alla fine e le immagini dell’esplosione della villa. 

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