ENRICO IV di Luigi Pirandello, 1922
Secondo me l’Enrico IV occupa un posto abbastanza singolare nella produzione teatrale di Pirandello. Certamente il suo tema preferito, quella dell’ambiguità con la quale affrontiamo il quotidiano reale è ancora presente. L’elemento guida è la pazzia: la pazzia vera o quella simulata. Ma poi, si chiede l’autore, esiste una differenza fra i due modi di essere pazzo? O forse non è solo il termine “pazzo” che definisce il comportamento, indipendentemente che chi realmente esista dietro il termine?
In questo lavoro teatrale, che Pirandello definisce “tragedia” (terminerà con il ferimento di uno dei personaggi), il rapporto fra pazzia e realtà è affidato a un travestimento, quello del protagonista, che subisce un trauma cranico mentre per gioco indossava i panni di Enrico IV, imperatore del Sacro Romano Impero, e come Enrico IV immagina di trascorrere una vita senza tempo se non quello storico cui è legato il personaggio che immagina di essere.
La tragedia è stata scritta da Pirandello pensando al protagonista interprete Ruggero Ruggeri. La prima si realizzò il 24 febbraio 1922 a Milano, al teatro Manzoni con la regia di Talli, e fu un successo strepitoso, sia di pubblico che di critica. Il protagonista, come previsto, fu Ruggeri accompagnato da un cast che dalla critica fu unanimemente considerato di alto livello. Quella cui ho potuto assistere è la ripresa televisiva della rappresentazione al Teatro Eliseo a Roma, del 1977, con la regia di Giorgio De Lullo e il protagonista Romolo Valli.
Il primo atto ci introduce nell’ambiente in cui vive l’immaginario Enrico IV. Egli ha creato attorno a sé una vera e propria corte, con tanto di sala del trono e consiglieri segreti che lo assistono e contribuiscono a mantenergli attorno l’atmosfera del sovrano. Il tutto è mantenuto in vita dal giovane marchese Carlo di Nolli, che si occupa del fatto che lo zio possa continuare la sua vita da folle in un equilibrio che gli consenta di stare lontano dalla società. Non mancano comunque tentativi di aiutarlo a guarire.
Alla corte di Enrico arrivano quattro personaggi espressamente invitati dal marchese: la contessa Matilde Spina, il barone Belcredi, che con la contessa ha un rapporto non chiaro, forse amante (“Quel che Tito Belcredi è poi in fondo per lei, lo sa bene lui solo” dice Pirandello), Frida, figlia della contessa e fidanzata del marchese di Nolli, e un medico, il dottor Dionisio Genoni. Lo scopo della visita è quello di fare in modo che il medico, osservando il personaggio, riesca a capirne i meccanismi con cui la follia si esprime, e possa tentare di interromperli e di riportare l’uomo alla ragione.
Nel corso delle discussioni fra i quattro si viene a conoscenza dell’antefatto: il tutto è cominciato 20 anni prima, quando fra amici si era deciso di festeggiare il Carnevale con una cavalcata in costume. Ognuno doveva mascherarsi da personaggio storico, a sua scelta. La Contessa aveva scelto il personaggio di Matilde di Toscana. Accanto a Matilde cavalcava un personaggio con il costume di Enrico IV. Questa scelta dipendeva dal fatto che questo personaggio era innamorato, purtroppo deluso, della Contessa e che con questo travestimento rievocava un fatto storico: l’attesa dell’imperatore, inginocchiato nel freddo inverno coperto di neve davanti al castello di Canossa, dove la Matilde storica aveva come ospite il papa Gregorio VII, dal quale lo storico Enrico IV voleva essere ricevuto per farsi togliere la scomunica. L’episodio rievocato poteva essere un mezzo per stabilire fra lui e la contessa un approccio, fino a quel momento sempre negato.
Nel corso della cavalcata, uno scarto del cavallo aveva gettato a terra il personaggio travestito da Enrico IV, il quale, battendo il capo, aveva perduto i sensi. Alla sua ripresa, mentre tutti continuavano la festa, egli sempre travestito da Enrico IV aveva mostrato evidenti segni di pazzia. Venne così trasferito al castello del Marchese di Nolli dove prese a vivere, secondo il travestimento, come imperatore regnante fra persone cui era stato dato l’incarico di fingersi suoi sudditi, consiglieri, alabardieri, etc.
Ora i quattro personaggi si presentano alla corte per essere ricevuti dal sedicente sovrano e dar modo al medico di studiarne i comportamenti. Per avvicinarlo dovranno indossare dei travestimenti: il medico si travestirà da vescovo Ugo di Cluny, e la contessa Matilde Spina si travestirà da Adelaide, la madre di Berta, moglie di Enrico. Si tratta dei due personaggi che storicamente hanno ottenuto l’incontro dell’imperatore con il papa Gregorio VII, quindi personaggi positivi, tali da non suscitare in Enrico IV reazioni di rigetto. E infatti Enrico IV li riceve con il giusto calore. Oltre ai due, c’è un terzo personaggio, che altri non è che Belcredi, che ha voluto accompagnare la contessa, e che è camuffato da semplice abate benedettino al seguito del vescovo. Il sovrano è diffidente. Chiede se non si tratti di Pietro Damiani, teologo alleato di Gregorio VII, e quindi suo nemico. L’incontro fra Enrico e i tre si rivela fruttuoso per il sovrano. I tre garantiscono che il Papa lo riceverà. Allora Enrico chiede che il Papa, uomo potentissimo anche nel regno sovrannaturale, gli faccia la grazia di strapparlo a un tempo che sembra essersi fermato e gli consenta di tornare a vivere normalmente. Dicendo questo indica due immagini raffigurate in due quadri, una sua e una di una donna, che altri non è che la contessa Matilde Spina, travestita da Matilde di Toscana. I due personaggi sono giovani, ritratti al momento della cavalcata; a causa del tempo trascorso, circa 20 anni, il ritratto di Matilde rassomiglia più a Frida che alla madre. Ecco, afferma Enrico, la sua vita è prigioniera di quelle immagini. Il tempo (altra riflessione di Pirandello) ha una diversa consistenza nel suo trascorrere “fisicamente”, cioè per chi è esterno a noi che osserviamo, e nel suo trascorrere “psicologicamente” cioè interno a noi. Le immagini nei quadri riflettono il tempo che trascorre all’interno di Enrico, che è un tempo fissato una volta per tutte nel momento storico dei travestimenti, in contrasto col tempo che trascorre nella vita e per il quale le persone un tempo giovani si ritrovano invecchiate.
Nel secondo atto questa riflessione è la base di un esperimento che il medico vuol tentare,
e che si sviluppa in un intrico tipicamente pirandelliano di rapporti umani, nei quali quelli reali delle persone e quelli falsi dei mascheramenti si intrecciano strettamente, secondo la logica del rapporto finzione realtà.
In un nuovo incontro Enrico confessa ad Adelaide di essere innamorato di sua figlia, Berta, la moglie storica, ma la confessione è ambigua: il termine figlia si riferisce all’immagine del quadro che poi finisce per sembrare Frida, la figlia di Matilde Spina, oppure essere Matilde di Toscana, che poi non è altro che la stessa Matilde Spina della quale Enrico è sempre stato innamorato. L’amore per Matilde è vivo ancora oggi e si riversa sul ritratto, che tuttavia allo stato attuale richiama le fatture di Frida più che quelle di Matilde.
Visto che l’immagine della contessa da giovane è identica a quella della figlia, si deve fare in modo che le due donne, identicamente vestite gli si presentino davanti in modo improvviso, bruscamente illuminate da un violento fascio luminoso. La differenza-somiglianza fra le due, secondo il medico, dovrebbe far sorgere nell’uomo il senso del trascorrere del tempo con la forza di un vero e proprio shock, riportandolo così alla realtà e quindi farlo uscire dallo stato di follia di cui è prigioniero.
Ma mentre fra i visitatori mette a punto il piano, negli appartamenti imperiali avviene l’imprevisto: Enrico IV non è matto. Ha approfittato della situazione per continuare una recita che gli consentisse di tenere lontano da lui il mondo. La confessione la fa ai suoi quattro supposti consiglieri segreti, che ovviamente rimangono sbalorditi. Ma non devono arrendersi. Al contrario, ora consapevoli della situazione devono immedesimarsi in modo consapevole nel loro ruolo e far vagare l’immaginazione. Tutto dovrà continuare come prima. Enrico perpetuerà lo stato di pazzia che gli consentirà di esprimere il suo pensiero, anche il più irriverente sapendo di essere ascoltato, laddove una persona sana di mente sarebbe solamente criticato. Questa sua evocazione della pazzia come strumento di verità, ricorda la conclusione di una bellissima commedia dello stesso Pirandello, Il berretto a sonagli, dove Ciampa, per ricuperare l’onore smarrito a causa di imprudenti affermazioni della signora Fiorica, in uno stupendo monologo fa l’elogio della pazzia.
Nel terzo atto si conclude l’intrigo. La notizia che Enrico non è affatto pazzo si propaga ai visitatori. Lo strattagemma del medico non è più necessario. I quattro con il nipote marchese di Nolli si precipitano a incontrarlo e gli contestano l’inganno perpetrato a loro spese. Enrico non molla. Il suo obiettivo è il barone Belcredi, che lui ritiene responsabile di tutte le sue sventure. Così egli richiama alla memoria dei presenti come, a quel carnevale, tutti gli amici coltivassero un invidioso disprezzo nei suoi confronti e che dopo la sua caduta e l’inizio della pazzia non abbiano esitato a sottrargli tutto quanto gli apparteneva, compresa la donna di cui era innamorato e che intendeva corteggiare. E le sue accuse diventano ancora più esplicite quando rivela che la sua caduta da cavallo non è stata accidentale ma provocata da stimoli impropri al suo cavallo per farlo imbizzarrire. L’accusa a Belcredi è palese, anche se non esplicitata. E la vendetta non si farà attendere. In risposta all’arroganza del barone che accusa l’amico di cialtroneria, Enrico decide di rientrare nella pazzia, anche in questo caso consapevole, e approfitta di un momento di confusione creato ad hoc per immergere una spada nel petto di Belcredi.
La recitazione è molto forte, soprattutto da parte di Romolo Valli, che interpreta la figura di Enrico IV con atteggiamenti di spinta pazzia, alternati in modo calcolato e apprezzabile con atteggiamenti di depressione o di umile condiscendenza. La sua recitazione riesce a compenetrarsi nell’ambiguità di fondo del suo personaggio, pazzo prima, finto pazzo poi e forse vero pazzo alla fine. Troppo sopra le righe mi sono sembrate le recitazioni di Gianna Giacchetti nella parte di Matilde Spina, e di Mino Bellei nella parte del barone Tito Belcredi. Di normale amministrazione la recitazione degli altri.