PARLIAMO DI DONNE di Dario Fo e Franca Rame, 1977

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Spettacolo tutto al femminile. Lo conduce e lo recita Franca Rame con l’aiuto di Dario Fo che in questo caso fa da spalla. Un prologo ci introduce ai 5 atti unici che costituiscono il contenuto del lavoro. Sono Il risveglio, Michele lu Lanzone, Il pupazzo giapponese, L’uomo incinto e Il telaio. Gli atti unici sono intervallati da canzoni che hanno a che fare con la condizione femminile.


Naturalmente al centro degli atti unici c’è la donna: la donna che lavora, la donna madre, la donna sposa, la donna nella famiglia, la donna in questa società. La donna che Dio ha creato solo come complemento a quello che si vuole che sia stato il vero frutto della creazione, Adamo, l’uomo. E nella storia, nella storia sociale ma anche in quella religiosa, la donna è sempre stata un essere inferiore all’uomo, un derivato, un essere con un’anima di serie B rispetto all’anima principale che abita il corpo dell’uomo.
E già nel prologo Franca ci mostra come l’uomo si consideri il punto di riferimento, anche quando, guarda caso, sembra ammettere che la donna deve essere valorizzata e sembra che si dia da fare per farlo. E così finisce che, mentre la donna cerca di conquistarsi il proprio spazio, egli interviene, la interrompe, vuole aiutarla, ma nella pratica continua a trattarla come essere inferiore che ha bisogno di una guida. Finché la donna, con un gesto estremo si ribella e finalmente invita le donne a non lasciarsi intimorire, a parlare senza lasciare che le si interrompa, e assumere a loro volta la capacità di essere protagoniste.

Il risveglio.
La donna in famiglia, moglie, mamma e lavoratrice. Un mattino qualsiasi, la donna (Franca Rame), dopo un sonno di incubi notturni che le ricordano il lavoro in fabbrica, si alza per andare a lavorare. La sveglia non ha suonato. È tardi, bisogna correre: lavarsi, vestirsi, accudire al bambino, rigovernare la casa, mentre il marito dorme ancora placidamente. Lui queste cose non ha bisogno di farle. Lei invece deve fare tutto con frenesia, con la paura di trovare chiuso l’asilo nido, di arrivare tardi in fabbrica e di essere multata. Perfino la porta di casa ci si mette. Al momento di uscire non si trova la chiave. Ricerca disperata. Finalmente la chiave si trova, ma nello stesso tempo la donna si rende conto che quel giorno, in cui la sveglia non ha suonato, è domenica! Ecco, il ritmo della vita di una donna in famiglia è tale da farle perdere perfino il senso del tempo.

Michele lu Lanzone
Qui siamo in un manicomio. La protagonista è la mamma di Michele lu Lanzone, sindacalista ucciso dalla mafia nel 1950, interpretata sempre da Franca Rame. Il dolore l’ha sconvolta. Piange e ci racconta con partecipazione e fra le lacrime la storia del figlio, che, a capo di una folla di contadini siciliani è riuscito a sconfiggere i padroni e a ottenere la terra da coltivare per tutti. Ma la terra non è coltivabile, manca l‘acqua. I signori lo sanno e cercano di impedire che la vallata venga irrigata opponendosi alla costruzione di una diga. Così i contadini non potranno coltivare la terra e saranno costretti con paghe miserevoli a lavorare nelle miniere di zolfo. Michele non demorde. L’acqua si troverà. Si scava un pozzo e l’acqua prorompe all’esterno. La gioia tuttavia dura poco. L’acqua ben presto si ferma. A ostruire la sua fuoriuscita dal pozzo si trova il corpo di Michele lu Lanzone assassinato. Il racconto della madre è un racconto vivo, vitale, si rivolge al figlio invitandolo a desistere perché ella non ignora il pericolo in cui si sta mettendo. Ma il figlio, nella voce della madre, arringa i contadini, li guida, comincia a ottenere le prima vittorie, e i contadini, sempre nella voce della madre, lo seguono, lo esaltano. Purtroppo la fine è quella che sappiamo, anche se il grido finale della madre, prima che le infermiere del manicomio la leghino, è quello della vittoria.

Il pupazzo giapponese.
Il tema, affrontato in tono scherzoso, è quello del lavoro in fabbrica e degli stati d’animo che lo sfruttamento provoca sugli operai e soprattutto sulle operaie. Queste ultime sono costrette a prendere in continuazione tranquillanti per mantenere un minimo di efficienza su un lavoro per loro esasperante soprattutto a causa dei soprusi dei dirigenti. Una delle operaie, a furia di tranquillanti, si è ridotta a una forma di pazzia, per cui viene presa in giro dai colleghi. Lo scherzo è quello di farle credere che nelle fabbriche giapponesi, al fine di permettere ai dipendenti di sfogare la rabbia repressa, esista un fantoccio con la sagoma identica a quella del direttore; e che quel fantoccio possa essere aggredito a parole e a fatti ogni qual volta la rabbia raggiunga il limite di sopportazione. Davanti alle meraviglie della ragazza, i colleghi le assicurano che questo sistema vigente in Giappone, sarà presto reso disponibile anche nelle fabbriche italiane. La combinazione vuole che il direttore, nel tentativo di una riparazione ad un macchinario guastatosi, resti paralizzato a seguito di una scarica elettrica, e venga sistemato in una poltrona in attesa del medico chiamato d’urgenza. Mentre gli altri dipendenti si allontanano, la ragazza, vedendo il direttore in quelle condizioni, lo scambia per il famoso fantoccio, e su di lui sfoga la sua rabbia trattenuta facendogliene di tutti i colori. Lo sketch è molto movimentato e Franca Rame, nelle vesti dell’operaia beffata riesce a coinvolgere il pubblico che si dimostra molto divertito. Dario Fo interpreta la parte del direttore fulminato dalla scarica elettrica.

Il marito incinto
In questo atto unico il tema è quello della gravidanza non desiderata e dell’aborto. Siamo nel 1977. Nel 1978 verrà approvata la legge sull’aborto e nel 1981 dalla Lega contro l’aborto sarà indetto il referendum abrogativo, che tuttavia, come è noto, ebbe un esito disastroso per i promotori. Due donne (madre e figlia) sono entrambe terrorizzate. Entrambe sono rimaste incinte. La figlia non è ancora sposata e vorrebbe abortire senza far sapere nulla ai genitori. La madre ha già avuto cinque figli e non è disposta a tenere il sesto. Ma il marito, ricco industriale, è presidente della Lega contro l’aborto, e sicuramente glielo impedirà. A questo punto si presenta il problema. Il marito viene sottoposto a una visita medica che chiarisce senza alcun dubbio che egli è incinto. Un errore nell’assunzione di pillole, la tempesta ormonale dei rapporti con moglie e amante, hanno creato il miracolo: crescita nell’uomo delle ovaie e delle mammelle, e alla fine partenogenesi. I sintomi sono quelli classici: nausea, vomito, comparse di voglie improvvise di cibi fuori stagione, atteggiamenti femminiloidi, come quello di lavorare a maglia, etc. L’uomo è sconvolto. Non può certo portare in grembo un bambino. Sarebbe il primo caso della storia, certamente, ma sarebbe deriso da amici e parenti, e, soprattutto, dai suoi operai. Così prende la decisione di abortire. Ma, gli viene obiettato dal medico che lo ha in cura, egli è il presidente della Lega contro l’aborto, in ottemperanza ai suoi sani principi morali. Ricorrendo all’aborto, intende rinunciare a questi principi morali? Nossignore. Egli è contro l’aborto, certamente, ma nella donna, perché in quel caso l’aborto è un atto contro la morale! Il protagonista marito incinto è Dario Fo che con mimica trascinante dà allo sketch una notevolissima forza comica.

Il telaio
Il tema qui è il lavoro a domicilio, che nella maggior parte dei casi è affidato alle donne. Il padrone vende il telaio alle famiglie, che lo pagano con cambiali, e le donne, e i componenti della famiglia a casa tessono il materiale che viene loro affidato dal padrone tramite un committente. La paga è a cottimo. Morale: più di dodici ore di lavoro quotidiano, niente ferie, niente mutua, niente pensione. In questo modo il padrone, risparmiando su contributi assicurativi, ferie e trattenute pensionistiche risparmia cifre enormi ai danni dei poveri lavoranti. L’atto unico si svolge in casa di Dario e Franca. Si sono licenziati dal lavoro precedente. Hanno comprato il telaio pensando di diventare dei liberi imprenditori e ora lavorano nelle condizioni descritte. Non c’è tempo neppure di andare al gabinetto, o di far da mangiare. Tutto il giorno, tutti i giorni la maledetta macchina deve andare, poiché le cambiali vanno pagate puntualmente. Il colloquio fra i due coniugi è sempre lo stesso, riguarda la bestialità del lavoro, i rapporti con i vicini, anche loro impegnati nello stesso modo, le difficoltà con la figlia che invece continua a lavorare in fabbrica, il suo moroso che anch’egli assieme alla sua famiglia fa un lavoro a domicilio, la paura della sua gravidanza che metterebbe a repentaglio il pagamento della macchina, infine la grande ribellione di Dario che, non potendone più, rompe il telaio. Naturalmente anche in questo atto unico le capacità comiche della coppia riescono a dare il senso profondo di un lavoro che apparentemente offre ai lavoratori l’illusione della libertà di essere imprenditori, mentre nella realtà finisce di rivelarsi una forma di sfruttamento peggiore di quella tradizionale

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