VERDI COLLINE D’AFRICA (The Green Hills of Africa), di Ernest Hemingway, 1935
L’autore avverte già all’inizio che il romanzo è il racconto di un safari da lui fatto nel 1933-34 in Africa, assieme alla moglie Pauline Pfeiffer. E avverte che lo scopo è quello di mettere a raffronto un romanzo su fatti realmente accaduti da persone realmente esistenti, con romanzi costruiti in base a immaginazione fantastica.
Il safari, cominciato nel dicembre del 1933, fu ben presto interrotto per un’infezione amebica che costrinse lo scrittore a un periodo di ricovero a Mombasa. Esso riprese poi alla fine di febbraio dell’anno successivo e durò fino alla metà di aprile nell’area che si estende attorno alle rive del lago Manyara in Tanzania (allora Tanganica) e lungo la Rift Valley.
Il safari, come inteso negli anni Trenta, era uno sport basato sulla caccia grossa in territori selvaggi; ha come obiettivo l’uccisione di animali selvatici come antilopi, rinoceronti, bufali, leoni, leopardi e altre specie ancora; è guidato da un cacciatore bianco professionista, con presenza di portatori d’arma e battitori negri, mezzi di trasporto per il materiale dell’accampamento, portatori neri reclutati a buon mercato etc.
Nel romanzo il cacciatore bianco è un personaggio realmente esistito, nella zona e all’epoca molto famoso e ricercato, Philip Hope Percival (nel romanzo viene chiamato Mr. Jackson Phillips o Pop). Altri personaggi che, oltre ai due protagonisti principali, Hemigway e la moglie, trovano spazio nel romanzo sono Ciaro e soprattutto M’Cola, i due portatori d’arma, che sono sempre presenti nei momenti cruciali e che danno consigli sulla natura delle prede, sui loro nascondigli etc. e, assieme a loro, Droopy, una guida indigena molto apprezzata.
In sostanza Hemingway, come in Morte nel pomeriggio ci descrive una delle sue passioni, la Corrida de toro, in Verdi colline d’Africa ci porta in un’altra delle sue grandi passioni, la caccia grossa. In entrambi i casi è la morte violenta a fare da protagonista.
Parlare di questo libro non è facile. Ci sono, sì, dei personaggi proprio nel senso voluto dallo scrittore; personaggi non solo realmente esistiti, ma vivi che percorrono le vie dell’Africa alla ricerca di selvaggina, non solo e non tanto per accumulare trofei, ma soprattutto per vivere, per provare piacere a seguire tracce del passaggio di selvaggina, ad attraversare foreste e savane, a uccidere animali che non si pongono come vittime inermi, ma che si difendono, a volte fuggendo, a volte contrattaccando. Come l’uomo ha dalla sua il fucile e la capacità di usarlo, essi dalla loro hanno la conoscenza dei luoghi, l’astuzia, la velocità, o le loro armi naturali: le corna, gli artigli, i denti.
Il romanzo, dalla maggioranza dei critici è stato giudicato come il meno riuscito dello scrittore. La sua scommessa sembra così essere persa. La descrizione degli eventi non si presta a grandi variazioni. Vuoi che si dia la caccia a un rinoceronte, vuoi che la si dia a un’antilope o a dei bufali, il discorso, per quanti sforzi faccia Hemingway per descrivere i diversi paesaggi attraversati, le diverse tecniche e modi di caccia, le forme di inseguimento soprattutto di animali feriti, la ricerca di aree particolarmente selvagge e particolarmente popolate da animali, le imboscate in luoghi presumibilmente frequentati come i lick, finisce per essere piuttosto ripetitivo.
Anche i personaggi umani che popolano il romanzo hanno la funzione di dare una veste di racconto a ciò che si presterebbe solamente a una descrizione. Quindi le discussioni fra i portatori d’arma o i battitori se l’animale inseguito è un maschio o una femmina, se si tratta di un animale sufficientemente grande per il quale vale la pena di usare un proiettile; oppure le discussioni sul colpo, se è andato a segno o se ha solo ferito l’animale, dove lo si può cercare, l’esame delle eventuali macchie di sangue; o anche le discussioni o addirittura le liti; l’approccio a villaggi popolati da una tribù che accoglie con gioia i cacciatori, e i racconti dei successi o degli insuccessi che si fanno la sera nell’accampamento, quando il sole è tramontato e il buio domina la scena, illuminata solo da poche fiaccole.
Una cosa curiosa è che i critici, generalmente poco generosi con questo romanzo, fra i diversi personaggi che lo popolano, identificano proprio nel protagonista, nello stesso Hemingway, quello meno riuscito. Lo seguiamo nelle sue emozioni di cacciatore, nel gusto del confronto con latri cacciatori, nelle dimensioni della preda abbattuta, o nella delusione nello scoprire che le dimensioni di una preda non sono quelle che le sue tracce avevano fatto presagire.
A una persona che a un certo punto, durante un inseguimento, gli chiede perché vuole uccidere il kudù, Hemingway risponde semplicemente perché gli piace, perché lo fa sentire vivo: certamente nel momento in cui lo uccide, ma anche nel momento in cui lo cerca, nel momento i cui gli tende l’agguato, e poi nel momento in cui, tornando all’accampamento, si rivivono le esperienze della giornata nei racconti.
Quello che più lo affascina è il piacere della fucilata, quella che colpisce l’animale nel punto giusto e lo fa morire senza sofferenza. Perché non è la sofferenza che gli interessa, che lo rende felice, ma l’uccisione. E se, come a volte accade, la fucilata non uccide la preda, ma la ferisce, in questo caso c’è sempre una reazione rabbiosa, la consapevolezza di un fallimento. La preda viene inseguita, si cerca di catturarla, a volte per ore e ore, cercandone le tracce, soprattutto quelle di sangue. A volte la si trova, a volte no. In questo secondo caso non c’è solo il rammarico della preda perduta, ma anche la consapevolezza della sofferenza inferta all’animale, che così ferito perde parte delle sue armi di difesa e diventerà ben presto preda di altre aggressioni presenti nell’ambiente. E questa sofferenza, per la consapevolezza di averla provocata con un tiro sbagliato, crea una specie di rimorso nel cacciatore.
Il romanzo non ha una trama in senso classico, cioè una serie di eventi che si succedono per portare a una conclusione che li spieghi e li giustifichi. Qui il senso è dato dal continuo spostarsi da una parte all’altra alla ricerca dei luoghi più frequentati dalla selvaggina. Il racconto si dipana nella continua ricerca delle prede, lungo interminabili trasferimenti in luoghi poco frequentati dove le guide assicurano la presenza di selvaggina. A volte la caccia riguarda il rinoceronte, altre volte il kudù, grossa antilope dalle corna attorcigliate a spirale, altre volte i bufali o anche bestie feroci come il leone o il leopardo. Hemingway, durante i lunghi trasferimenti si sofferma a descrivere l’ambiente, sempre variabile, a volte rappresentato da foreste intricate che ricoprono le pendici di valloni profondi dove al fondo scorrono torrenti dalla fresche acque, a volte praterie con radi alberi, altre volte una savana dall’erba altissima. Le descrizioni si susseguono sempre rinnovate, e mai comunque fine a se stesse, ma sempre in funzione della ricerca della selvaggina, della quale si cerca di capire e di vedere le tracce, sia come orme, sia come sterco più o meno recente, sia come altri segni che fanno intuire un passaggio più o meno recente. A volte, lungo i trasferimenti, su strade impervie si incontrano carovane di indigeni che trasportano i loro miseri oggetti, sfuggendo una carestia che si sta diffondendo nel territorio. A volte si incontrano villaggi dove gli indigeni generalmente accolgono con favore e gentilezza i nostri cacciatori. La sera negli accampamenti, ci si sofferma in un meritato riposo, e si chiacchiere e si discute delle cose più diverse.
La cosa che più colpisce nella scrittura di Hemingway, è la sua capacità di descrivere situazioni, percorsi, ambienti, azioni che, tutto sommato, sono ripetitive (una ricerca di selvaggina, un agguato, un attraversamento di foresta o di vallone sono sempre situazioni molto simili, qualsiasi sia l’animale che si sta inseguendo), in modo variato e tale da destare interesse nel lettore, che leggendo non si annoia, ma sente la necessità di proseguire, di andare a vanti a leggere, a chiedersi che cosa succederà dopo. E questo è, secondo me, la stigmate del grande scrittore.
All’inizio del romanzo, una di queste chiacchierate fatte con uno strano personaggio di nazionalità austriaca, con vestiti tirolesi, Kandisky, incontrato casualmente, che di mestiere fa il reclutatore di mano d’opera indigena, riguarda una discussione sulla letteratura americana. In questa situazione Hemingway si lascia andare a giudizi non sempre positivi su alcuni suoi colleghi, come Emerson, Hawthorne, Whitter e soprattutto Thoreau. Hemingway ne ammetta la profondità del pensiero, ma non sembra affatto interessato ai loro scritti, orientato com’è a romanzi che mettano il lettore di fronte a fatti, più che a considerazioni filosofiche. Giudizio ben diverso esprime su Henry James, Stephen Crane e soprattutto Mark Twain, il cui romanzo Huckleberry Finn viene considerato un po’ come il padre di tutta la letteratura americana moderna.
Questi giudizi, lasciati trasparire quasi con noncuranza, hanno tuttavia alimentato le polemiche nel mondo letterario americano, e forse quest’aspetto è stato uno di quelli che ha fatto indicare a molti critici questo romanzo come il meno riuscito dei suoi.