HELLEQUIN – HARLEKIN – ARLEKIN – ARLECCHINO, di Dario Fo, 1985

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Si tratta di quattro scenette con protagonista Arlecchino rappresentate alla Biennale di Venezia del 1985, al Palazzo del Cinema, nel quattrocentesimo anniversario della nascita della maschera. Esse sono La commedia dell’arte, I becchini, La serratura, L’asino e il leone. Dario Fo le introduce con un prologo nel quale riassume il senso della comparsa di Arlecchino nella Commedia dell’Arte, soprattutto nella sua stagione francese.

La sua nascita risale alla fine del Seicento, proprio a Parigi, con grande sollazzo e divertimento alla corte dei Borboni. Come è noto indossava un abito multicolore, ma di diversa fattura, a seconda dell’epoca. Il primo Arlecchino vestiva un abito in cui il lato coloristico era rappresentato da numerosi disegni a forma di foglia che lo coprivano completamente. Da notare che quel primo Arlecchino non indossava una maschera, ma aveva il volto pesantemente truccato. Il primo interprete di Arlecchino fu Tristano Martinelli. Il suo Arlecchino improvvisava monologhi (come ad esempio quello della Parpàja tòpola) o scenette con altri attori, spesso di carattere scurrile, di comicità pesante e a volte anche irridente al mondo dei grandi. L’Arlecchino successivo fu Domenico Biancolelli, noto per le sue acrobazie. L’abito, sempre multicolore, aveva disegni diversi e sul viso faceva la sua comparsa la maschera. Dario Fo sottolinea in questo prologo il fatto che le compagnie di attori che davano vita alla Commedia dell’Arte erano costituite da personaggi molto colti, dice di loro che fossero dei veri intellettuali. Altri Arlecchini si succedettero, sempre nella versione della Commedia dell’Arte, praticamente fino a Goldoni, che con il suo Arlecchino servitore di due padroni mise fine alla presenza della maschera nella Storia dell’Arte e al suo gioco di improvvisazione, e le attribuì invece un testo scritto, quindi predefinito, entro il quale doveva svolgersi la sua recitazione.

La prima scenetta è La Commedia dell’arte. Si immagina un gruppo di attori che deve montare una recita in un teatro. Marcolfa, attrice di sesso femminile (Franca Rame) deve pulire il palcoscenico e lo fa cantando. Più sullo sfondo alcuni attori fanno delle prove. A un certo punto tutti si accorgono che il sipario è alzato e il pubblico vede cose che non devono essere viste. Panico generale. Il sipario è rotto, i suoi meccanismi di apertura e chiusura non funzionano. Marcolfa chiama Arlecchino che sulle prime non sa cosa fare, e si limita, senza successo, a invitare il pubblico a non guardare. Poi la scena continua da una parte con Arlecchino e gli attori che cercano di aggiustare il sipario, procurandosi scale e attrezzi vari; dall’altra Marcolfa cui viene attribuito il compito di fare da prologo, e che racconta la storia di Isabella e della puttana Eleonora. Isabella è stufa del marito che a letto non la tocca ormai da tanto tempo, pur essendo lei ancora giovane e piacente. Poi, inviperita, si accorge che il marito è invece innamorato della puttana Eleonora, con la quale scopa alla grande. Eleonora ha un aspetto molto sexy e attraente, ma Isabella, che la va a trovare al mattino, si accorge che nella realtà ella è più vecchia e brutta di lei, e che tutto il suo fascino è artificiale. Eleonora allora insegna a Isabella a offrirsi al marito come una puttana, e le insegna le cose da farsi. Il marito non ha esitazioni e si lancia sulla moglie che crede la puttana Eleronora. Poi si accorge dell’errore, ma per lui va bene lo stesso, e riprende con lei il rapporto amoroso. Isabella è felice, e si rende conto che il comportarsi da puttana la rende molto attraente. Così si offrirà non solo al marito, ma anche agli altri uomini. Cioè farà la puttana. Finito il prologo, gli uomini, Arlecchino in testa, proseguono nel lavoro di issare la scala per aggiustare il sipario, mentre Marcolfa litiga con Arlecchino che non la rispetta come dovuto.

La seconda scenetta ha titolo I becchini. Arlecchino, acconciato come nelle scenette precedente, e Razzullo sono becchini al cimitero e scavano una fossa. Per chi è questa fossa? chiede Razzullo. Per uno che si è affogato in un mastello pieno d’acqua, risponde Arlecchino. Con una mano pertinace si teneva la testa sott’acqua finché è morto affogato. Razzullo non ci crede. Pensa che l’abbia affogato qualcun altro per ucciderlo. Ma Arlecchino non è d’accordo. Racconta allora la storia di un tizio che si è affogato in un mastello di vino. Era un ubriacone. Non riusciva a bere perché le mani tremanti gli impedivano di portarsi alla bocca il bicchiere pieno. Si era allora comprato un enorme mastello, lo aveva arredato con il letto, e tutto quanto, stava sdraiato e si faceva arrivare il vino da un altro mastello posto sopra. Quando il vino raggiungeva il livello della bocca, una vescica opportunamente attrezzata fermava il deflusso e l’uomo beveva finché il livello, abbassandosi, richiamava nuovo vino. E questo avveniva anche assieme alla sua amante. I due si abbracciavano e facevano l’amore nel grande mastello, mentre il vino fluiva. Godevano e si ubriacavano. Successe che l’amante si innamorò di un altro uomo, di uno che giaceva anche lui in un mastello per bere, ma questa volta pieno di latte. Il nostro pover’uomo decise di morire. Ruppe il meccanismo della vescica, il vino riempì il mastello ed egli morì affogato.
Finita la storia, Razzullo sente il bisogno di urinare. Arlecchino lo invita a farlo lì, in cimitero sopra una fossa. Ed entrambi si slacciano i calzoni e fanno i loro bisogni. Dalla fossa irritati escono due teschi, zio e nipote, incazzatissimi e minacciosi contro Arlecchino e Razzullo, i quali tuttavia non esitano a prenderli a calci e pugni. Arriva un funerale, con tanto di prete. Portano un morto pieno d’acqua, quello che si è suicidato affogandosi. La vedova in lacrime continua ad abbracciarlo, bagnandosi tutta. Ma subito il cognato, fratello del morto, innamorato di lei, l’abbraccia e la allontana. La vedova non è innamorata di lui, ma di un cicisbeo elegante con la piuma rossa che segue il corteo, e abbraccia quello. Del cicisbeo è innamorato anche il prete. Il tutto finisce in una lotta generale alla fine della quale prete, cognato e cicisbeo risultano morti. La vedova allora piange per essere rimasta vedova per la terza volta e invita Arlecchino e Razzullo al banchetto funebre. I quali in grande allegria, assieme ai teschi che escono dalla tomba, accompagnano la tre volte vedova a casa dove si mangerà a crepapelle.

La terza scenetta ha come titolo La serratura. Qui il significato scurrile delle parole è ampiamente esplicito. Franceschina (Franca Rame) entra in scena e vede, coperta da un drappo, una serratura di porta appoggiata su un tavolo. Si precipita con piumini, mastelli pieni d’acqua, saponi, profumi a lavarla, sgurarla, pulirla, profumarla facendo capire che quella serratura è la sua dolcissima delicatissima, immacolata topa. Guai a chi la tocca o anche solo la guarda. Deve rimanere coperta. Entra Arlecchino (Dario Fo), che sorregge un’enorme chiave. E questa chiave, quando passa davanti alla serratura, ha reazioni inequivocabili. Segue un’accesa discussione fra Franceschina, che difende la serratura dai tentativi della chiavona, e Arlecchino che sostiene le sue voglie espresse. Alla fine Arlecchino ricatta Franceschina: se non lascia che la chiavona entri in possesso delle serratura, egli non le offrirà un croccante pollo da mangiare. Franceschina sta per cedere quando arrivano due ladri che vogliono portarsi via la serratura per venderla in oriente, a sultani che di serrature ne hanno tantissime nei loro harem, di ogni dimensione e colore. Sventato il furto, questo tuttavia non soddisfa le voglie della chiavona di Arlecchino. Infatti arriva un bellimbusto che tiene in mano una bella chiave dorata, e la serratura, mentre Arlecchino e Franceschina discutono, se ne scappa col bellimbusto. La chiavona di Arlecchino, poverina, si affloscia.

L’ultima scenetta è L’asino e il leone. Arlecchino è stato aggredito da un cane, mentre sta per rubare una salsiccia. Si spaventa moltissimo, e scappa, ma poi si realizza che il cane non sono altro che Razzullo e Scaracco travestiti. È solo uno scherzo che essi hanno fatto ad Arlecchino per divertirsi alle sue spalle. Arlecchino, arrabbiatissimo, sul palcoscenico incontra un asino. Si tratta di un asino intelligente che risponde a tutte le domande di Arlecchino, ma anche un asino molto dispettoso, che gli piscia addosso e fa puzzolentissime scorregge. Arlecchino pretende di essere il padrone dell’asino, e poiché questo si rifiuta, Arlecchino lo vuole picchiare. Ma si tratta del solito scherzo: l’asino non è altro che un nuovo travestimento di Razzullo e Scaracco. Arlecchino giura che non si lascerà più ingannare. Successivamente entra in scena un banditore che avverte che un ferocissimo leone è scappato dal circo. Nel frattempo il leone compare e mangia un braccio al banditore dopo aver sbranato diverse persone. Arlecchino ritorna sulla scena, e alle sue spalle c’è il leone che ruggisce. Tutti i suoi amici quando vedono la scena scappano per la paura. Ma Arlecchino, sicuro che il leone sia un nuovo travestimento di Razzulla e Scaracco, lo maltratta, gliene fa di tutti i colori, e il leone finisce di essere dominato dalla maschera. Arlecchino, spaventatissimo, alla fine si rende conto che il leone è vero. Allora c’è la solita scena diventata classica: il leone ha una spina nella zampa, e Arlecchino gliela toglie. Poi scopre che il leone ha il pelo che ne ricopre la pelle piena di pulci, e Arlecchino le ammazza. Per finire, il leone diventa suo amico.

Le quattro scenette si riferiscono a tempi diversi delle recite di Arlecchino nella commedia dell’arte, e Dario Fo indossa i costumi e le maschere dei differente periodi cui le scenette si riferiscono. La recitazione sia di Dario che della Franca sono quelle che conosciamo: frizzanti, ironiche, molto convincenti.

1 Commento a “HELLEQUIN – HARLEKIN – ARLEKIN – ARLECCHINO, di Dario Fo, 1985”

  1. andrea scrive:

    bellissimo

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