L’ISOLA – OSTROV, di Pavel Lungin, 2006
Bellissimo film russo, che ha partecipato alla mostra di Venezia del 2006 (ultimo film proiettato), purtroppo senza vincere alcuno dei premi principali.
L’inizio: una barca a remi in lontananza lentamente percorre un braccio di mare fra diverse isole che si modellano all’orizzonte. Colori smorti, clima freddo, invernale. Con queste immagini il regista ci richiama a una solitudine che farà da tema a tutto il film.
L’antefatto, raccontato in poche e brucianti scene all’inizio, ci riporta al 1944, durante la seconda guerra mondiale. Una imbarcazione della marina militare tedesca nella notte abborda un rimorchiatore russo. Le due persone di equipaggio di quest’ultimo, un fuochista e il capitano cercano di fuggire, ma i nazisti li catturano, e minacciano di ucciderli. Il fuochista, un giovane ragazzo è terrorizzato, mentre il capitano, Tikhon, affronta il pericolo con grande dignità. I nazisti sono malvagi. Dopo aver riempito di botte il giovane fuochista, fingono di ucciderlo, poi gli danno una pistola carica e gli ordinano di uccidere il capitano. In questo modo avrà salva la vita. Il ragazzo terrorizzato spara, e il capitano, colpito, cade in mare. Il rimorchiatore è fatto esplodere e l’ imbarcazione tedesca si allontana. Missione compiuta! Il fuochista si ritrova privo di sensi sulla riva dell’isola, e viene salvato da alcuni monaci che provengono da un Monastero.
Le immagini di questa premessa sono tutte notturne. Le scene si intravedono attraverso il buio della notte. Chiaramente, illuminati, si vedono solo la faccia del fuochista nelle varie scene di paura e terrore, e, per un attimo, l’espressione calma e dignitosa del capitano. I tedeschi non si vedono mai in primo piano. Si vedono solo i loro piedi che colpiscono a calci il povero mozzo, oppure i berretti della divisa degli ufficiali o gli elmetti militari dei soldati, e poi le loro mani mentre imbracciano le armi. Si sentono parole gridate nervosamente in una lingua incomprensibile, ma di chiarissimo significato. L’ambiente è un suolo nero e roccioso, e un mare appena visibile.
La scena cambia. Siamo una trentina di anni dopo, nel 1976. L’ambiente è sempre quello marino, di giorno. I colori sono tenui: mare, isole, cielo. Si vede il monastero costituito da alcune costruzioni su isolotti collegati fra loro da ponti artigianali in legno. L’ambiente dà un’impressione di grande povertà e solitudine. Fra i vari edifici, il più povero, sormontato da un camino fumante è quello della caldaia, che produce il calore distribuito fra i vari altri edifici. Qui ritroviamo il ormai non più giovane fuochista entrato permanentemente nel monastero come padre Anatoli. Ma la sua vita non fa comunella con quella degli altri colleghi. Egli vive nell’edificio della caldaia, ne alimenta il fuoco con il carbone che si procura in continuazione trasportandolo con una carriola; trascorre il suo tempo in grande solitudine e in continue preghiere. Appare chiaro da vari segnali che la sua anima e la sua mente sono segnate irreversibilmente dall’uccisione del suo capitano avvenuta trent’anni prima. Questo peccato non gli sembra perdonabile, e tutto il suo essere è proiettato alla ricerca di una remissione che gli pare sempre più impossibile.
Gli altri monaci giudicano severamente questo strano comportamento. Finiscono per averlo in antipatia (osservano che non si lava la faccia, che vuole continuare a vivere nel locale delle caldaie non ostante gli sia offerta una soluzione meno scomoda, che non segue supinamente le complesse ritualità della fede ortodossa, ma si dedica alla preghiera in modo anomali e solitario, etc.) e cercano in qualche modo di fargli avere punizioni da parte del superiore. Lo stesso comportamento, d’altra parte, gli reca fra la povera gente che vive nei villaggi vicini una fama di santità. È una santità non melensa: aiuta le persone che lo cercano, soprattutto donne, ma quasi mai nel modo in cui loro si aspettano o in modo servile. Al contrario, la strada che indica per aiutare quelli che si rivolgono a lui è sempre quella più difficile, quella della preghiera, del sacrificio, dell’accettazione della volontà di Dio, e a volte questo avviene con toni e con gesti irritati, soprattutto quando le donne, in parte deluse, cercano di trovare soluzioni meno sgradevoli ai loro problemi. La preghiera e il suo ascetismo gli conferisce poteri soprannaturali che si concretizzato in apparenti miracoli: guarisce un bambino storpio, anche in contrasto con la madre, che disperata, vorrebbe una soluzione a bacchetta magica, quando invece la strada della guarigione è lunga e fatta di fede incondizionata; convince una fanciulla rimasta incinta, che, cosciente di non poter più trovare marito, vorrebbe abortire, a tenere e amare il frutto del proprio ventre come Dio ama le creature viventi; convince una donna, che vorrebbe che fossero celebrate messe a suffragio dell’anima del marito che lei crede morto in guerra, che il marito non è affatto morto e vive in Francia; addirittura, mostra capacità di preveggenza, quando avverte, in modo enigmatico, il priore che la sua casa nel convento andrà a fuoco, cosa che appunto qualche giorno dopo avverrà. Tutti questi miracoli sembrano scaturire da una fede intensa che proviene dal profondo rimorso per l’omicidio effettuato e che si manifesta con un continuo stato di preghiera, sia nei momenti in cui spalando il carbone, lavora per tener viva la fiamma nelle caldaie, sia mei momenti in cui vaga per il suolo roccioso degli isolotti. Questo suo stato d’animo che mostra caratteristiche di trascendenza, è tradotto da una colonna musicale di grande bellezza: un coro apparentemente angelico che lo accompagna nella preghiera.
La sua immagine, così, di alta statura, dal volto scavato, con una corta ma fitta barba, con occhi luccicanti di un’espressione assorta che quasi sembra che voglia guardare in continuazione dentro la sua anima bruciata dal rimorso si definisce quasi un’icona che tende a confondersi o meglio a partecipare a un panorama spoglio, ruvido e nello stesso tempo ascetico e invitante alla meditazione, costituito dai tenui e freddi colori del mare e del cielo, dagli isolotti di roccia sempre bagnati dalla marea, dalle isole maggiori che abitano l’orizzonte.
Il finale si risolve con l’arrivo di un ammiraglio la cui figlia sembra essere preda di una follia che nessun medico ha saputo guarire. Padre Anatoli riconoscerà la malattia come possessione da parte del male, e riuscirà a guarire la fanciulla con l’intensità della preghiera e con una forte volontà che gli permette di superare le resistenze che il male gli oppone. Consegna così la figlia guarita al padre, che si rivela essere non altro che il capitano che egli, 30 anni prima, è stato costretto a uccidere per salvare la propria vita, e che è il nocciolo duro del rimorso che da allora lo perseguita. In realtà Tikhon non è morto. È stato sì colpito dal proiettile, è cascato in acqua ed è stato salvato da altri marinai russi. Alla richiesta di perdono di Anatoli, Tikhon risponde che il suo perdono l’ha avuto fin dal primo momento. Questo attenua il devastante rimorso con cui il fuochista-monaco ha vissuto negli ultimi 30 anni che l’ha guidato nella fede. Ottenuto il tanto agognato e creduto impossibile perdono, Anatoli decide di lasciarsi morire. I suoi confratelli capiscono finalmente la natura del suo dramma, e quindi della sua santità. Gli si fanno attorno affettuosi, esaudiscono tutti i suoi desideri, in particolare quello di essere rinchiuso in una bara rozza, una normale cassa di legno, dove egli si distenderà e accoglierà la morte sorridendo. Essa ora sarà la benvenuta e lo farà incontrare con quel Dio che egli ha pregato intensamente per tutta la vita. Il film si conclude con i funerali di Anatoli, con la sua bara caricata su una barca e i suoi confratelli che portano alta la croce della redenzione.