DARIO FO RIPROPONE E RECITA RUZZANTE, 1993

DARIO FO

Dopo un’introduzione con riferimenti alla politica dell’epoca (siamo al Teatro Lirico di Milano, l’anno è il 1994) Fo entra nel merito del grande commediografo del rinascimento, Angelo Beolco, detto il Ruzzante. Il Ruzzante nasce quasi certamente nel 1500 in un villaggio nei pressi di Padova. Il padre, Francesco Beolco era un grande medico, docente e poi rettore dell’Università di Padova. Angelo è figlio illegittimo. Il padre lo riconosce. Il ragazzo è di intelligenza straordinaria. Crescendo acquista una cultura vastissima, ma il fatto di essere un bastardo gli impedisce l’ingresso all’Università. Si dedica così alla commedia, con un grandissimo successo. Fo lo giudica all’altezza dei più grandi commediografi della storia: Shakespeare, Moliere, Calderon de la Barca. Le sue commedie sono violente satire contro il sistema di gestione del potere. Il periodo è quello della nascita della Commedia dell’Arte. Si recitano commedie e satire addirittura sui sagrati delle chiese.


La Chiesa è sottoposta a critiche, spesso violente. Nel nord dell’Europa nasce l’eresia luterana, contro la quale la chiesa mette in atto la controriforma. I comici, gli attori della commedia dell’arte, che si trovano in contrasto con le regole della controriforma, sono costretti ad emigrare. Al di qua delle Alpi il teatro sembra spegnersi gradualmente. Lo stesso Ruzzante, in grande auge in tutto il secolo XVI, anche dopo la sua morte avvenuta nel 1542, finisce per essere dimenticato. Solo tre secoli e mezzo dopo, a cura di uomini di teatro come Franco Parenti (fra l’altro anche maestro di Fo) il Ruzzante viene rivalutato.
Uno dei problemi nella rivalutazione di Ruzzante è stata la lingua. La lingua di Ruzzante oggi è incomprensibile. Anche i contadini della terra in cui Ruzzante ha vissuto, non la capiscono più, come ha dimostrato un esperimento fatto dallo stesso Fo. Di fatto, oggi è considerata una lingua morta.

La prima recita della rappresentazione è un preghiera che Ruzzante rivolge a un cardinale di grandissima importanza, Marco Cornaro. Si tratta di un alto prelato appartenente alla potentissima famiglia dei Cornaro di Venezia. Il papa ha affidato al cardinale Marco il compito di contribuire, nelle diocesi dell’Italia settentrionale, a ostacolare la diffusione dell’eresia luterana. A Padova vive in cugino del Cardinale Marco, Alvise Cornaro, esiliato da Venezia per incompatibilità con la casta dirigente nella città lagunare. Alvise è un uomo molto dotto, amante delle arti e decisamente spregiudicato. In questa sua veste egli ospita nella sua meravigliosa villa il Ruzzante, al quale fornisce una idonea compagnia per rappresentare le sue commedie, oltre a rendergli disponibili spazi e possibilità di sopravvivenza.
A Padova giunge il Cardinale Marco per eseguire gli incarichi ricevuti dal papa. L’arrivo del cardinale viene festeggiato, e all’occasione Ruzzante contribuisce con una recita: un Orazione al Cardinale Marco Cornaro. In questa recita Ruzzante non si esime dal fare una satira, sia pura garbata, al modo con cui la Chiesa si rapporta con la popolazione civile e prega il Cardinale di intervenire, suggerendogli alcuni interventi che riguardano appunto il modo di vivere della gente, soprattutto quella povera e di sentire comune.
Fo ci avverte che non reciterà l’orazione nella lingua di Ruzzante: sarebbe incomprensibile. Non potrà neppure recitarla in italiano, perché in tal modo andrebbero perse tutte le sfumature tipiche di una lingua usata per fare satira. Fo ha pensato allora di utilizzare il dialetto spurio del quale si è servito in moltissime altre occasioni.

Orazione al Cardinale Marco Cornaro. Ruzzante comincia rivolgendosi direttamente al Cardinale facendo giochi di parole sul termine: cardinale è quello che “scardina” e quindi proprio a lui spetta il compito di “scardinare” le porte del paradiso, dai cardini che le reggono e le tengono chiuse.
Poi gli chiede di fare sei nuove leggi per risolvere le necessità della gente.
La prima legge riguarda il digiuno. Che il Cardinale non obblighi i poveri contadini a rispettare il digiuno nelle feste comandate. I contadini digiunano già tutto l’anno: carestie, guerre, epidemie, maltempo e tante altre cose lasciano poco da mangiare ai contadini. Si faccia la legge non solo che essi siano esentati dall’obbligo del digiuno, ma che i ricchi signori, che possono rispettare l’obbligo del digiuno, passino gli avanzi dei loro pasti ai contadini che in quei giorni potranno mangiare un po’ di più.
La seconda legge da cancellare è quella sul vestiario. Non si capisce perché la gente, e soprattutto le donne, debbano indossare sulla pelle tanti indumenti, in modo che il caldo di cui sono vittime nei mesi estivi diventi soffocante. La cosa più logica è fare come natura: niente indumenti; lasciare libro il corpo di esprimersi, così come è nudo il corpo di tutti gli animali. Si abolisca anche ‘espressione di “coprire le vergogne”. Gli organo genitali, quelli attraverso i quali si propaga la vita non devono essere considerati “vergogne”. Ciò è contro natura.
La terza legge è quella che deve farsi ragione dell’amore, soprattutto quello fra un uomo e una donna, che è la cosa più bella del mondo.
La quarta legge riguarda l’uso che i poeti fanno delle parole. Basta chiamare “giovane pastore” il vecchio bovaro e “pastorella” la pecorara. E soprattutto non mettere loro in bocca un linguaggio che è proprio delle classi elevate, e che è lontanissimo dal modo di parlare dei contadini. L’amore è cieco e il putto che colpisce l’uomo o la donna con le frecce scagliate dal suo arco, lo fa del tutto a caso.
Infine la quinta legge: il matrimonio dei preti. I preti devono potersi sposare. La tensione sessuale fa sì che, non avendo una moglie propria, essi si sfoghino con le mogli degli altri. Le mettono incinte e il povero contadino marito deve allevare il figlio del prete senza protestare. Se il prete avesse anche lui moglie, non si sentirà costretto a giacersi con le mogli altrui. Se poi lo facesse, allora il contadino si giacerebbe con la moglie del prete e costringerebbe così il prete ad allevare il suo figlio.
La sesta legge riguarda il problema dell’uguaglianza fra le classi e fra gli abitanti della città e del contado. Oggi solo le fanciulle che hanno molti danari possono sposarsi. La mancanza di denari mette la fanciulla a rischio di disonore. Questo avviene perché il matrimonio è in regime monogamico. Se si desse licenza a ogni uomo di avere quattro mogli e a ogni donna di avere quattro mariti, questi problemi non si porrebbero più. Contadini e cittadini si mescolerebbero, e i figli che nascessero sarebbero di tutta la famiglia allargata senza distinzione. Questo sarebbe un metodo per cercare di ottenere uno stato di uguaglianza fra le classi.
L’orazione termina consigliando il Cardinale di fare queste leggi. Se le facesse non ci sarebbero più portoni sprangati per lui in Paradiso. «E anca si andarèt a lo Infèrno, a truovarèt tante de quèle àneme reconossenti che ve fa l’aplaudisménto de inciochír tüti i demuòni!»

Il secondo monologo, dal titolo Dialogo fra Galileo e il contadino Nale, è la rappresentazione di una discussione fra un dotto professore (che sulla scena impersonerebbe lo stesso Galileo) che conosce alla perfezione il sistema geocentrico dell’universo secondo la visione aristotelico-tolemaica, e un povero ignorante contadino, sostenuto solo dal buon senso, che ritiene questa visione sbagliata e che nella sua immaginazione disegna un Universo che ricorda la concezione eliocentrica copernicana. Il dialogo è scritto nella lingua di Ruzzante quando Galileo era docente all’Università di Padova per fare i suoi studi, ed era un modo per divulgare la conoscenza del sistema copernicano, senza incorrere nei rigori della censura o addirittura, come gli successe successivamente, incorrere nelle ire dell’Inquisizione.
Nel dialogo, che Dario Fo interpreta nelle due parti, il professore usa la lingua italiana, mentre il contadino Nale usa la lingua di Ruzzante che Fo pronuncia nel suo dialetto.
Il professore comincia a spiegare a Nale che attorno alla terra girano gli astri: ogni pianeta inserito in una volta di cristallo purissimo che lo tiene in sospensione, così come in una volta di cristallo sono incastrate la luna, le stelle e addirittura il sole. E queste volte di cristallo che sostengono i corpi celesti girano attorno alla terra. Il contadino reagisce immediatamente. Passino i pianeti e le stelle, ma il sole proprio non può essere trattenuto in una volta di cristallo. Il suo immenso calore la fonderebbe e il sole finirebbe per cadere sulla terra distruggendola. No, i corpi celesti non sono inseriti in nessuna volta di cristallo ma girano liberi, terra compresa nel grande spazio dell’universo. Restano sospesi perché fanno come quel gioco che i formaggiai fanno con le forme di formaggio, la ruzzola. Ruotano nello spazio e questo ruotare impedisce loro di cadere. Il sole è come una polenta che gira vorticosamente e lancia nell’universo piccoli frammenti che non sono altro che le stelle. Quindi al centro c’è il sole. Terra, Luna, pianeti e stelle vi ruotano attorno. L’universo in questo modo è infinito, perché Dio, quando l’ha creato non ha voluto finirlo. Poi l’Universo, col passar del tempo collasserà e tutto finirà nel nulla.

Il terzo monologo ha come titolo La vita. Si tratta di una lettera che Ruzzante ha scritto a un attore, Marco Alvarotto, che svolgeva di fatto il compito di spalla nella veste di Menato, nella compagnia teatrale di Ruzzante di cui era anche grande amico. Nella lettera il Ruzzante coglie l’occasione di fare alcune riflessioni sulla vita.
Si comincia con Adamo ed Eva che mangiano la mela proibita. Il padre Eterno è categorico: questa disobbedienza merita un castigo esemplare. I due vengono cacciati dal Paradiso. L’Angelo con una spada fiammeggiante dà una sciabolata sul sedere di entrambi, e il posteriore si divide formando due chiappe. Usciti dal paradiso dovranno affrontare una vita di stenti e dolore. Vengono loro imposti gli organi sessuali che in Paradiso non esistevano. Compare il pudore per cui occorre indossare i vestiti. La vita non è più eterna, ma termina con la morte. Com’è ora la vita, che ha davanti a sé un tempo da percorrere? Ecco che si comincia a distinguere. È il tempo la misura della vita? Ci sono persone che vivono a lungo, fin oltre 100 anni, ma quando muoiono nessuno si è accorto che queste persone erano vive. È questo il valore della vita, la sua durata? Oppure ci sono persone che vivono pochi anni, ma nella loro vita hanno dato tanto all’umanità. Quando muoiono sollevano rimpianto dolore. Di questi la gente dirà: «Peccato che abbia finito di campare: era così vivo, da vivo!» Ecco questo è il valore della vita, e vorrei che la mia vita terminasse in questo modo, scrive il Ruzzante.

L’ultima recita è una commedia dal titolo Il parlamento di Ruzzante. Ruzzante torna da un campo di battaglia di una guerra, veramente avvenuta, che è costata un massacro ai contadini veneti. Si tratta della guerra che grandi potenze, come il ducato di Milano, il regno dei Savoia, la Svizzera, l’Austria, la Francia e la Spagna (la Lega di Cambrai), avevano dichiarato alla repubblica di Venezia, diventata troppo potente. La battaglia decisiva, con la sconfitta dei veneti, avvenne a Chiara d’Adda. L’errore dei veneti, che costò loro la sconfitta, fu quello di affidare ai contadini il compito di affrontare il nemico, che metteva in campo compagnie di ventura. I contadini, valorosissimi quando si tratta di difendere le loro terre, perdono gran parte del loro coraggio quando sono chiamati a scontri frontali come questo. Ruzzante sfugge al massacro e torna a casa dove incontra il suo amico Menato e la sua donna, la Gnua. La commedia inizia con Ruzzante che entra in Venezia, sporco, lacero, dimagrito, puzzolente. Ha fatto un lungo percorso fuggendo alla guerra, scavalcano montagne di cadaveri, camminando fino a consumare le scarpe. Poi su una barca, a remare. Ma alla fine è giunto a Venezia. Non vede nessuno. Si chiede se è ancora vivo, finché da lontano vede avanzare Menato che all’inizio non lo riconosce, tanto è malconcio. Poi finalmente il ritrovamento e l’abbraccio fra i due. Ruzzante gli racconta la guerra e le disavventure. Menato gli chiede se dalla guerra ha portato del bottino. Ma quale bottino! Ruzzante ha dovuto vendere tutta la sua roba per poter mangiare. La battaglia è stata terribile. Svizzeri e tedeschi avanzano e le file dei poveri contadini veneziani vengono massacrate ad una ad una. Dietro loro il fiume, sull’altra riva i francesi. Non c’è scampo. Ruzzante scappa, finisce per trovarsi in mezzo ai nemici. Deve liberarsi della spada e dello scudo che l’avrebbero fatto riconoscere come veneto e quindi nemico da uccidere. In alcune occasioni riesce a salvarsi fingendosi morto. Comunque la parola d’ordine è quella di scappare il più lestamente possibile, cercare di salvarsi in mezzo al frastuono della battaglia dove la gente muore in quantità. Alla fine Ruzzante chiede a Menato della sua Gnua. Menato lo avverte. La Gnua dopo la sua partenza, si è messa con personaggi poco raccomandabili. Finalmente Ruzzante incontra la fanciulla, la quale subito lo guarda con disprezzo, tanto è malconcio. La prima cosa che gli chiede è che casa gli ha portato di bello dalla guerra. Ruzzante risponde che gli ha portato il suo amore. Ma la Gnua è inflessibile. Chi le vuole bene glielo deve dimostrare, e Ruzante non le ha portato niente. Se avesse combattuto coraggiosamente, fosse stato ferito con la perdita del braccio, o di un occhio, avrebbe anche conquistato un buon bottino. In questo modo le avrebbe portato bellissimi doni. Solo in questo modo avrebbe potuto credere al suo amore. Ruzzante vuole dimostrarglielo comunque, finge di essere ferito, di non avere più braccia, né gambe, né occhi, ma non ha nulla da darle, se non il suo amore, e la supplica. Ma la Gnua è inflessibile. Lei un altro amore ce l’ha già, e le dà tante cose, a differenza di Ruzzante che non le dà nulla. In quel momento arriva il suo nuovo uomo, che salta addosso a Ruzzante, lo aggredisce, lo picchia fino a fargli perdere la coscienza. Poi prende la Gnua e se ne va con lei. Ruzzante si sveglia, si lamenta con Menato. Hai visto come sono stato aggredito? Erano in cento, si lamenta, che mi picchiavano, altrimenti vedi come avrei reagito. Menato lo avverte. Era uno solo. No, Ruzzante insiste. Se fosse stato uno solo, l’avrebbe preso, legato assieme alla Gnua e li avrebbe costretti a saltare come nella corsa dei sacchi, mentre tutta la gente intorno avrebbe riso. E mentre diceva questo rideva lui stesso, con risa che sembravano in verità un pianto.

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