MORTE NEL POMERIGGIO (Death in the Afternoon), di Ernest Hemingway, 1932
Il libro viene definito “romanzo”, tuttavia non fa vivere al lettore il racconto di una vicenda immaginata. Si tratta di dettagliata descrizione, sia pure in forma romanzata, di uno spettacolo, o meglio di uno sport particolarmente amato dallo scrittore, e che egli definisce tragedia, la corrida de toros. Il perché si sia dedicato e abbia scritto su questo argomento ce lo spiega all’inizio, nel primo capitolo. Si tratta per lui, alla fine degli anni Venti scrittore alle prime armi, di tradurre in emozioni per il lettore la descrizione di fatti nella loro reale svolgersi, e questo gli è parso di riuscire ad ottenere incominciando dalle cose più semplici. «Una delle cose più semplici e fondamentali – scrive – è la morte violenta». E «il solo luogo dove si potessero vedere vita e morte, vale a dire morte violenta ora che le guerre erano finite, era nell’arena dei tori».
Hemingway si reca numerose volte in Spagna, si addentra nel mondo della corrida, lo studia come sport ma anche come espressione di una cultura: cultura di popolo, e cultura personale. Ne apprende tutti i significati, ne ripercorre la storia, conosce i grandi toreri, quelli del passato attraverso racconti e descrizioni, e quelli in attività durante i suoi viaggi; cerca di capire la passione che anima gli spagnoli, e cerca anche di capire come la corrida possa incidere sulla inclinazione morale della gente, sia di quelli che riempiono le arene, sia di quelli che condannano la corrida come spettacolo barbaro. È comunque un dato di fatto, che stimola la natura di scrittore di Hemingway: la corrida è l’epopea della morte violenta, sempre quella del toro, spesso quella del cavallo, e alcune volte anche quella dell’uomo.
Il libro è il frutto di questi viaggi e di questi studi. Non solo la descrizione particolareggiata di tutto quello che riguarda la corrida, a partire dalla descrizione dell’arena, la descrizione dei tori, delle loro qualità e del loro carattere, del loro allevamento, del loro accoppiamento; per poi continuare con la struttura stessa dell’evento, del luogo dove si svolge, l’arena o plaza de toros, nelle sue fasi e nei suoi obiettivi. E infine gli uomini, i toreri che affrontano il toro: il matador, il vero protagonista, il torero che ha il compito di combattere e uccidere il toro (che poi è l’altro protagonista); e la sua squadra, la cosiddetta cuadrilla, costituita dai picadores a cavallo (di solito due) e dai banderilleros in numero di tre o quattro.
La descrizione prosegue in modo dettagliato: l’ingresso del toro, le tre fasi del combattimento e infine la sua uccisione. La prima fase è quella in cui i picadores a cavallo colpiscono il toro con la pica nel grosso muscolo del collo per indebolirne la forza; in questa fase è molto facile che il toro uccida il cavallo e questo è già un elemento che fa discutere appassionati e denigratori. Questa è una fase, ci conferma Hemingway, che nel pubblico non spagnolo suscita raccapriccio, mentre nessuna reazione è percepibile nel pubblico di appassionati che considerano l’uccisione del cavallo un incidente di percorso, e che sono interessati soprattutto alla lotta che porterà all’uccisione del toro. Nella seconda fase, i banderilleros e spesso anche lo stesso matador, piantano le banderillas sempre nel muscolo del collo; questa fase è particolarmente spettacolare, e il toro viene abilmente giostrato con la capa in modo che il matador studi carattere, abitudini, comportamento e soprattutto il coraggio del toro. Nella terza fase, quella riservata al matador, quest’ultimo si avvale della conoscenza dell’animale acquisita nelle prime due fasi, e giostra il toro con la muleta, esibendosi in eleganti e rischiosi passaggi ben noti agli spettatori abituali e agli intenditori, e in base alle cui esecuzioni e soprattutto all’eleganza dei movimenti, essi giudicano la bravura o meno del matador. L’uccisione del toro è il momento cruciale, quello che gli spagnoli definiscono il momento della verità. Il matador chiama il toro alla carica contro la muleta che viene tenuta a terra in modo che il toro abbassi molto la testa scoprendo il punto dietro il collo dove dovrà penetrare la spada. Proprio in quel momento, il matador, sporgendosi sulla testa così abbassata del toro, porta la sua micidiale stoccata. Questo è il momento in cui egli si espone maggiormente, in quanto se il toro alzasse la testa in quel momento, egli potrebbe essere trafitto dal corno. Più di un matador è rimasto ucciso per questa eventualità.
La corrida deve durare non oltre 15 minuti. Se dovesse durare più a lungo il toro acquisterebbe una sempre maggior pericolosità e i rischi per il matador sarebbero molto aumentati. Infatti il toro che entra nell’arena non ha avuto in precedenza occasioni di scontrarsi con l’uomo. Dalle praterie dove cresce pascolando, il toro destinato alla corrida viene trasportato in corrales scarsamente illuminati, dai quali, al momento opportuno uscirà per entrare nell’assolata arena. Qui, per la prima volta incontrerà l’uomo che gli si presenta come l’avversario da combattere. Il toro è un animale molto intelligente e in grado di imparare rapidamente le fasi della lotta. All’inizio lo stimolo alla carica gli viene fornito dalla capa o dalla muleta, e contro quelle punterà la sua arma, il corno; col passare del tempo, tuttavia, comincerà a capire che l’obiettivo non è il frammento di stoffa colorata, ma l’uomo che la impugna, e quindi proprio verso l’uomo comincerà a puntare le sue armi. Il toro dovrà essere ucciso prima che si verifichi questa sua maturazione. Il tempo durante il quale questa maturazione si verifica, calcolato in base a decennale esperienza, è appunto di quindici minuti.
Hermingway prosegue parlando dei vari matadores che fino al 1930-32, anni in cui è stato scritto il libro, hanno illustrato questo sport-tragedia. E i due che hanno conquistato la fama di essere, almeno fino a quel momento, i più grandi in assoluto sono stati José Gomez Ortega (più noto come Joselito) e Juan Belmonte García, entrambi attivi attorno alla seconda metà degli anni dieci e grandi rivali. Joselito cominciò a toreare da giovanissimo, a 17 anni, e portò nell’arena, oltre a grande coraggio anche un’innata eleganza. La sua carriera durò pochi anni. Morì a causa di una cornata nel 1920, all’età di 25 anni. Belmonte, forse meno elegante, ebbe tuttavia il grande merito di avere definito una volta per tutte le regole della corrida moderna. La sua carriera fu assai più lunga di quella di Joselito. Iniziò a toreare a 21 anni, e si ritirò dall’arena nel 1936, all’età di 44 anni. Gli anni della rivalità fra i due toreri vengono considerati il periodo d’oro della corrida.
I matadores dei quali Hemingway cerca di raccontarci le imprese, la bravura, il coraggio, le diverse caratteristiche, etc. sono molti, soprattutto quelli attivi negli anni venti e trenta. Hemingway sottolinea in alcuni la bravura e l’eleganza della giostra, in altri il coraggio, in altri ancora la perfezione della stoccata finale, mentre critica senza mezzi termini ogni tentativo truffaldino, da parte di diversi matadores, di dissimulare pericoli immaginari, con passaggi fatti solo per strappare l’applauso ma senza alcun rischio reale per chi li esegue. Fra i toreri più citati ricordiamo Vicente Barrera, Nicanor Villalta, Manuel Garcia Maera (grandissimo banderillero di Belmonte, diventato successivamente grande matador, e morto in giovane età per tubercolosi), Ignacio Sanchez Mejías (cognato di Joselito, che Hemingway accusa di ostentare eccessivamente il suo coraggio, morto nel ’34 a seguito di una cornata), Luis Freg (che subì numerosissime ferite), Rafael Gomez y Ortega (El Gallo, fratello maggiore di Joselito), Chicuelo, Manuel Granero (morto nell’arena di Madrid nel ‘22), Marcial Lalanda (considerato da Hemingway il miglior matador dopo Joselito e Belmonte), Nino de la Palma (Cayetano Ordoñez) amico di Hemingway che ne fa una specie di ritratto col nome di Pedro Romero in Fiesta – Il sole sorge ancora, e altri ancora.
Quasi tutti i toreri, prima o poi, subiscono cornate che provocano ferite più o meno gravi, e in qualche caso la morte. Le ferite comunque, in alcuni casi possono influenzare il comportamento successivo del torero, che rischia di perdere il coraggio originale. Oltre alle cornate, altre cause di mortalità fra i toreri sono quelle che vengono considerate loro malattie “professionali”: tubercolosi (soprattutto in quei toreri – la maggioranza – che provengono da famiglie poverissime) e sifilide (soprattutto per la vita di dissipazione cui i toreri si dedicano dopo l’arrivo di una improvvisa ricchezza).
Per alleggerire la descrizione, nel monologo ad un certo punto viene introdotta una vecchia signora che fa obiezioni ed entra in discussione con lo scrittore. Questa introduzione da una parte sembra offrire al lettore un modo ascoltare una voce che guardi alle corride come semplice spettatore e ovviamente di sentire le contro-obiezioni dello scrittore; dall’altra offre a Hemingway l’occasione di entrare in modo più generale sul tema della morte: morte degli animali come degli uomini, soprattutto in guerra, nel racconto Una storia naturale dei morti.
Il libro è completato da una ricchissima serie di fotografie che riguardano diversi toreri nelle loro posizioni più significative, da un glossario che descrive in modo particolareggiato il significato dei termini spagnoli utilizzati nella corrida, e le reazioni di alcuni spettatori alla corrida spagnola integrale.
Per concludere, il libro affascina per l’entusiasmo con il quale Hemingway parla di questo sport-tragedia. La sua scrittura cerca sempre di porre in primo piano gli aspetti più ricchi di interesse, con un linguaggio diretto, che descrive i fatti senza attributi inutili e ancor meno superlativi di giudizio. Tutto è posto davanti al cervello del lettore come se fossero i suoi occhi a vedere e le parole dello scrittore lo aiutassero a capire. Questa è la grandezza di Hemingway, ed è per questo che un romanzo pur senza una trama, un intrigo, un racconto di vicende, ma costituito solo da descrizioni di eventi che ruotano attorno alla tragedia della corrida, riesce ad essere interessante anche per chi non si sente disponibile ad apprezzare questo sport.