LA RICOTTA, di Pier Paolo Pasolini, 1963

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Si tratta di un episodio di rogopag, un film costituito da quattro racconti girati da quattro diversi registi, le cui iniziali dei cognomi hanno dato luogo al titolo: ROsselini, GOdard, PAsolini, Gregoretti.
Il primo episodio, Illibatezza, di Rossellini, ha come protagonista Rosanna Schiaffino. Il secondo episodio ha come titolo Il nuovo mondo ed è di Jean-Luc Godard; il terzo episodio è proprio quello di Pasolini, La ricotta; e l’ultimo episodio è di Gregoretti, Il pollo ruspante, con protagonista Ugo Tognazzi.
In questa sede mi interessa parlare soprattutto del racconto di Pasolini, facendo solo qualche accenno agli altri episodi.


L’episodio di Rossellini è poco interessante, se non addirittura brutto. Il centro del racconto è l’insistenza con cui un viaggiatore su un aereo vorrebbe avere un rapporto con l’avvenente hostess. Questa attrazione prosegue e si intensifica anche dopo l’atterraggio, ed è legata, oltre all’avvenenza, anche al carattere dolce, quasi materno della donna. Quando quest’ultima, stufa di questa insistente corte, vuole liberarsi dell’importuno, lo fa cambiando aspetto. Si trucca e si veste e assumendo il modo di fare di una pin up girl. Naturalmente l’artificio le riesce. Il film è lo sviluppo dell’affermazione iniziale, tratta da una frase di Alfred Adler, secondo cui “l’uomo di oggi frequentemente è oppresso da una indefinibile angoscia e, nel travaglio quotidiano, l’inconscio gli suggerisce un rifugio che lo protesse e lo nutrì: il grembo materno. Per quest’uomo privo ormai di se stesso, anche l’amore diventa la piagnucolosa ricerca del grembo protettore.”
L’episodio di Jean-Luc Godard è tipicamente francese, basato quasi esclusivamente su un simbolismo freddo, apparentemente privo della benché minima emozione. Il “racconto descrive le conseguenze, assurde e imprevedibili, di un futuro atomico forse già cominciato. Questi saranno gli effetti che potranno colpirci senza che alcuno se ne renda conto. Le terribili esplosioni potranno insidiosamente trasformare gli uomini e, da un momento all’altro, anche noi potremmo esserne contaminati. Saranno dei piccoli e lievi mutamenti che inavvertitamente ci distruggeranno.” È la storia di un rapporto fra due giovani che va deteriorando per il comportamento sempre più strano e incomprensibile della ragazza, che sembra non riuscire più a capire l’elementare logica dei comuni ragionamenti. Finalmente il ragazzo capisce che questo è il frutto di una terribile esplosione atomica avvenuta in cielo sopra la città, della quale i giornali hanno dato notizia, e che sta condizionando i comportamenti della gente, sempre più costretta a sopravvivere inghiottendo medicine di vario genere. In realtà l’esplosione atomica è il simbolo delle forze che agiscono sul mondo determinando il cambiamento nei comportamenti della gente.
L’episodio di Gregoretti si basa soprattutto sulla impareggiabile recitazione di un Tognazzi in gran forma. L’episodio sviluppa un versetto biblico tratto dalle Ecclesiaste, XXVII, 2: “Come un chiodo si pianta saldamente sotto le giunture della pietra, così il peccato si introduce segretamente nella vendita e nelle compere.” Il versetto è fasullo, perché il cap. 2 delle Ecclesiaste termina col versetto XXVI, il XXVII non esiste; ma il senso è quello. Nello svolgimento del racconto, un economista di nuova scuola spiega ai manager convenuti che la nuova economia non si basa più sulla produzione che interpreta ed esaudisce i bisogni dell’uomo, ma al contrario si basa sui bisogni dell’uomo che devono essere stimolati se non addirittura creati al fine di dare impulso alla produzione. E mentre l’economista spiega le nuove teorie, una coppia di sposi, con i loro figlioletti entrano in questa nuova logica, quella del consumismo, stimolati da bisogni artificiali, acquistando oggetti inutili, etc.

La ricotta è il titolo del racconto di Pasolini. È introdotto da due versetti del Vangelo. Uno secondo Marco: “Non esiste niente di nascosto che non si debba manifestare; e niente accade occultamente, ma perché si manifesti. Se qualcuno ha orecchi per intendere, intenda”. Uno secondo Giovanni: “…e spazzò via le monete dei banchieri e buttò all’aria i banchi, e ai venditori di colombe disse: portate via di qua e della casa di mio padre non fate un mercato.” Le due citazioni sono seguite da una dichiarazione del regista, che viene letta direttamente dalla sua voce: «Non è difficile prevedere per questo mio racconto dei giudizi interessati, ambigui, scandalizzati. Ebbene io voglio qui dichiarare che, comunque si prenda La ricotta, la Storia della Passione – che indirettamente La ricotta rievoca – è per me la più grande che sia accaduta, e i Testi che la raccontano i più sublimi che siano mai stati scritti.»
L’episodio mette in scena la produzione di un film sulla Passione di Cristo. Il regista è Orson Welles, che è nello stesso tempo persona e personaggio. Nel film si alternano in modo particolarmente stridente il colore e il bianco e nero. A colori sono le due scene chiave della Passione, quelle che ritraggono la Deposizione dalla croce. Le due scene riscostruiscono dal vivo due famose Deposizioni di due pittori rinascimentali: Rosso Fiorentino e il Pontorno.
Nella prima la madre di Cristo si lamenta con le parole di Jacopone da Todi

Figlio, l’alma t’è uscita,
figlio de la smarrita,
figlio de la sparita,
figlio attossicato !

Figlio bianco e vermiglio,
figlio senza simiglio
figlio a chi m’appiglio ?
figlio, pur m’hai lassato.

Il tutto avviene in modo grottesco, i personaggi recitano in modo sbagliato, il regista è costretto a ripetere le scene più e più volte; non mancano risate di attori e comparse.
Anche nella seconda scena, quella che ricostruisce la Deposizione del Pontorno, errori di recitazione, stanchezza degli attori, etc. provocano risate generali. Questi aspetti sono stati giudicati blasfemi, e il film è stato denunciato e condannato per vilipendio alla religione. A questa condanna fa riferimento la dichiarazione iniziale di Pasolini. In contrasto con le risate, Pasolini, oltre a offrire la veduta d’assieme del “dipinto”, si sofferma con primi piani sulle espressioni delle persone che popolano i due quadri, e che ritraggono espressioni di dolore, di tristezza, di speranza, e che sono quelle che esprimono i veri sentimenti del regista.
Un altro aspetto del film è la figura di Orson Welles, che mentre dirige le scene della crocifissione, viene intervistato da un giornalista. Le risposte alle domande riportano il pensiero di Pasolini, e si concludono con la recita di una sua poesia. Vale la pena di riportare tutta la scena, che dà un senso di grande intensità all’episodio.

Al giornalista che lo interpella, il regista accetta di rispondere a quattro domande. Eccole, assieme alle risposte.
La prima domanda: che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?
Il mio intimo profondo arcaico cattolicesimo.
E che cosa ne pensa della società italiana?
Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.
E che ne pensa della morte?
Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione.
Qual è la sua opinione sul nostro grande regista Federico Fellini?
Egli danza.
Segue la recitazione della poesia dal titolo “Io sono una forza del passato”.

Io sono una forza del passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini e sulle Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io sussisto per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d’ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono più.

Alla fine della poesia, il regista chiede al giornalista se ha capito qualcosa. Il giornalista è costretto a confermare di non avere capito. Welles allora lo definisce un “uomo medio” e conclude che l’uomo medio
“è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista”.
In questo modo termina l’episodio del regista, che potrebbe essere definito un’intrusione dello stesso Pasolini nel suo film.

Per altri versi la trama del racconto si basa sulla vicenda di Giuseppe Stracci, un poveraccio assunto nel cast del film per interpretare la parte del ladrone buono che verrà crocifisso a fianco di Cristo. È il solito popolano, con una famiglia da mantenere, alla quale porta il cestino con il vitto che gli spetterebbe per il suo lavoro di comparsa. Così egli non mangia. La sua fame è di quelle gigantesche. Nelle pause del film fa di tutto per procacciarsi un po’ di cibo. Riesce con vari trucchi, ma le vicende del film lo tengono impegnato, in modo che solo dopo tormentati andirivieni riesce a mangiare qualcosa nascondendosi in una grotta. I suoi colleghi lo vengono a sapere, lo deridono, sanno della fame cronica di cui soffre, e in processione gli portano tanto e tanto cibo che Stracci mangia avidamente senza mai fermarsi. Quando finalmente il film giunge alla conclusione, con le tre croci piantate sul Golgota, e Stracci viene inchiodato alla sua, e, davanti al una grande concorso di folla importante che vuole assistere al momento conclusivo, deve pronunciare la sua unica battuta, «Quando sarai nel regno dei cieli, ricordami al padre tuo» rivolta al Cristo morente alla sua destra. Ma egli non riesce a completare la frase. La testa gli si china. Il mangiare è stato eccessivo e un’indigestione fulminante lo fa morire. Il commento è atroce: «Crepare! Povero Stracci, non aveva altro modo per ricordarsi che anche lui era vivo!».
Questa parte del film richiama gli scenari di mamma Roma: la campagna romana, l’estrema periferia della città con lo sfondo dei palazzoni popolari, i ruderi degli acquedotti. Stracci la percorre in continuazione, in certe parti correndo in accelerazione, entrando e uscendo da grotte nascoste dove nasconde il cibo conquistato e dove vorrebbe consumarlo. All’esterno la cinepresa percorre in diverse occasioni tutti gli strumenti filmografici per riprodurre le crocifissioni, i costumi degli attori, i gruppetti di comparse. E la colonna sonora dominata da una banda, suona in modo straziante e ripetutamente temi della traviata (“Sempre libera degg’io”), o il Dies Irae gregoriano; o, in altre occasioni, si ascolta musica moderna da ballo, come il twist ballato da giovani comparse negli intervalli della lavorazione e, soprattutto nelle scene che riproducono i quadri dei pittori rinascimentali, si ascoltano musiche del settecento (Scarlatti).
L’episodio, rispetto agli altri tre, è estremamente complesso, ricchissimo di implicazioni, con l’emergere di contraddizioni soprattutto fra la tragicità del contenuto (la crocifissione di un predicatore di amore e di verità) e il modo grottesco con cui questo contenuto viene rappresentato e da cui viene circondato. In realtà, con tutto il suo ridicolo comportamento, la vera crocifissione finisce di essere proprio quella di Stracci, che diventa la vera vittima sacrificale.

2 Commenti a “LA RICOTTA, di Pier Paolo Pasolini, 1963”

  1. Carlo Testa scrive:

    Caro collega (si licet), per mancanza di tempo non entro nelle sue elaborazioni su La ricotta, che come ogni opera umana possono essere eccellenti, difettose, o normali. Pero’ scorrendo il suo sito mi si e’ fatto incontro il suo commento negativo su Illibatezza di Rossellini. Ora, se lei a sua volta non ha il tempo, o l’interesse, per dire qualcosa di adeguatamente approfondito su Rossellini, e sulla complessita’ di Illibatezza in particolare, forse farebbe piu’ onore a tutti se lei non ne dicesse proprio nulla, o se restasse in termini molto piu’ generici. Non si puo’ cantare e portare la croce, come Stracci di sicuro confermerebbe, no? Grazie per il suo tempo e mi creda ben cordialmente suo, Carlo Testa, Vancouver Canada

  2. Rudy scrive:

    Caro Testa, non so se sono suo collega. Probabilmente no. Comunque la ringrazio per le osservazioni. Posso solo dirle, per evitare di non essere capito, che questo mio Blog non è un modo per esprimere giudizi basati su approfonditi studi. Si tratta solo di uno spazio che io mi sono costruito per esprimere giudizi personali su quello che ho capito guardando un film o leggendo un libro o entrando a contatto con fatti della vita quotidiana di varia natura. Posso capire il suo dissenso, e lo capirei meglio se venisse espresso con motivazioni. Se il tutto il suo dissenso si limita a respingere mie affermazioni invitandomi semplicemente a non farle, allora le posso dire che anch’io non capisco l’utilità di questo suo commento. La saluto cordialmente, Rodolfo Canaletti

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