EDIPO RE, di PierPaolo Pasolini, 1967
Pasolini con questo film si immerge nel mito greco per cercare di capirne gli insegnamenti. Ha scelto una delle tragedie più sconvolgenti, quella di Edipo, già messa in scena da Sofocle e oggetto di diversi capolavori in epoca moderna, fra cui da ricordare l’opera di Ruggero Leoncavallo e soprattutto l’oratorio scenico di Stravinsky. Pasolini affronterà un altro mito greco due anni dopo, nel 1969 in un secondo film, Medea.
La tragedia di Edipo è la tragedia dell’accanirsi del destino contro l’uomo. Anche se l’uomo riesce a conoscere il suo fato, inutilmente cerca di sottrarvisi. Il conflitto fra la ragione che guida la volontà e le forze soprannaturali che governano gli eventi si risolverà sempre con la vittoria di queste ultime. All’uomo, pur razionalmente innocente, non resta che scontare i falli cui il destino l’ha indotto; solo in questo modo riuscirà a trovare la pace.
Pasolini inizia il racconto del mito in età moderna: siamo nel secondo decennio del secolo XX. In una fattoria di ricchi proprietari terrieri, (la cascina Moncucca nel lodigiano), la giovane figlia, da poco sposata con un ufficiale, mette al mondo un figlio. È un evento di gioia per tutti, tranne che per il marito della giovane. L’affetto che tutti, e soprattutto la moglie, portano al bambino è tale per cui egli si sente trascurato: tu, bambino sei venuto al mondo per prendere il mio posto e sostituirti a me in tutto, soprattutto nell’amore di tua madre. Solo la sua morte restituirà al giovane ufficiale la sua esistenza sovrana.
Questo inizio pone subito il problema che guida Pasolini alla realizzazione del film: il criterio col quale Freud interpreta la concorrenza del figlio con il padre per l’amore della madre, quello che appunto viene chiamato il complesso di Edipo. Per Freud si tratta di una realtà che investe il subconscio. Nel mito greco la realtà del subconscio è espressa dal fato. Entrambi i sistemi agiscono al di fuori della volontà e della coscienza dell’uomo e la condizionano. Ma l’uomo resta pur sempre responsabile delle sue azioni.
Immediatamente dopo l’osservazione del padre che ha il sapore della morte, ecco che la scena si trasferisce nell’antica Grecia, e sullo schermo appare il servo di Laio, re di Tebe, che porta un piccolo legato a un bastone su per un monte, il monte Citerone impervio e irraggiungibile. Egli lo depone per terra e fa per ucciderlo. Ma la pietà lo vince e lo abbandona. Il piccolo tuttavia abbandonato non è. Un pastore lo vede e lo porta con sé, e lo offre al re di Corinto Polibo, che, non avendo discendenti, lo accoglie con gioia. Immediatamente, d’accordo con la moglie Merope (Alida Valli), lo adotta. Sarà lui – dice – il futuro re di Corinto.
La storia è ben nota. Crescendo, Edipo (Franco Citti) sente la necessità di consultare l’oracolo, per accertarsi di essere effettivamente il figlio di Polibo e Merope. Il responso è terribile: nel suo destino c’è l’assassinio del padre e l’orrore di giacere con la madre. Come si può tornare a Corinto, e mettere così in pericolo i genitori? Edipo allora decide di intraprendere una strada diversa, che lo porterà verso Tebe. Strada facendo si scontra con un vecchio che viaggia su un cocchio, accompagnato da cinque uomini armati e un servo. Egli ucciderà tutti, tranne il servo che riuscirà sfuggire. Sappiamo che il vecchio è Laio, il padre di Edipo. Ma Edipo non lo sa. Il destino comincia a realizzarsi al di fuori della volontà e della consapevolezza del soggetto.
A Tebe la popolazione è in fermento. Sopra Tebe incombe la minaccia di un mostro sorto dagli abissi, la Sfinge. Un messaggero, Anghelos (Ninetto Davoli), lo avverte: nessuno è mai riuscito ad aver ragione del mostro; se qualcuno vi riuscisse, dato che il re è morto, diventerebbe a sua volta re di Tebe e sposerebbe Giocasta (Silvana Mangano), la regina rimasta vedova. Edipo affronta il mostro, lo rispedisce nell’abisso, diventa re di Tebe e sposa Giocasta. La folla dei Tebani è felice, rientra in città e tutto procede nel migliore dei modi. Ma per poco. Ben presto una peste dilaga fra gli abitanti. Molti muoiono coperti da ulcerazioni ributtanti. Incominciano ad apparire i roghi per bruciare i cadaveri. Tutti si rivolgono a Edipo e lo pregano: come già ha salvato la città dalla Sfinge, ora la salvi dalla peste. L’unica possibilità è interpellare un oracolo. Edipo manda Creonte (Carmelo Bene), fratello di Giocasta, a Delfo, il santuario di Apollo. Il responso è chiaro: Laio, il precedente re non è stato ucciso da dei briganti, come sembrava, ma è stato assassinato da una persona che vive a Tebe. La peste cesserà quando questa persona sarà trovata e cacciata, se non giustiziata. Ma chi è l’assassino? Il Dio risponde: «Quello che non si vuol sapere non esiste, ma quello che si vuole sapere esiste.»
Edipo manda a chiamare il cieco Tiresia. Tiresia conosce le cose, ma in un primo tempo non vuol parlare. Poi, dopo minacciosa insistenza del re, gli rivela che è proprio lui l’assassino. Edipo reagisce malamente. Accusa Tiresia di essere in combutta con Creonte per cacciarlo da Tebe e offrire il trono a quest’ultimo. Ma la tesi del complotto creonteo non regge. Creonte non ha alcun interesse impadronirsi del regno. Intanto Edipo ricorda l’episodio dello scontro con il vecchio sulla strada che stava percorrendo per giungere a Tebe, e piccoli dettagli rivelati da Giocasta, la stessa descrizione dell’aspetto di Laio, lo mettono in guardia.
Da Corinto arriva un messo ad annunciare la morte di Polibo e la nomina di Edipo, in quanto suo figlio, a re della città. Ma Edipo non è figlio di Polibo. Il messo ricorda bene di aver raccolto il piccolo sul monte e di averlo donato a re, in modo da permettergli una discendenza altrimenti impossibile. Davanti a Edipo comincia a dipanarsi la verità. Chi è questo piccolo che il messo consegnò a Polibo? Di chi è figlio in realtà? Edipo vede sgorgare l’orrore predetto dall’oracolo. C’è un solo modo di accertare definitivamente la verità: trovare il servo di Laio che portò il piccolo sul monte Citerone per ucciderlo. Il servo viene trovato e alla fine conferma: Edipo è figlio di Laio, il suo assassino e lo sposo di sua madre. Edipo manifesta l’atroce realtà in un ultimo incontro d’amore con Giocasta, la quale non regge e si impicca sopra il letto nuziale, dove Edipo la trova. In preda alla disperazione, egli conclude la sua permanenza a Tebe accecandosi con gli spilloni che adornavano l’abito di Giocasta.
Edipo non può più muoversi da solo, e sarà accompagnato dall’Anghelos che lo porterà fuori di Tebe. Ora il film ci trasferisce a Bologna, e l’Edipo contemporaneo si aggira cieco per Piazza Maggiore, dove la gente conduce la sua vita. Sempre accompagnato dall’Anghelos, finisce alla cascina Moncucca. Nella strada dove si affaccia l‘ingresso della casa padronale sono parcheggiate una cinquecento e una seicento Fiat. Siamo quindi all’inizio degli anni Sessanta. Sono passati circa quaranta anni dalla sua nascita nella cascina, e l’Edipo contemporaneo, ora cieco, cammina nel grande prato verde circondato da filari di alberi: lo stesso prato nel quale, all’inizio del film lo abbiamo visto infante, mentre la madre correva assieme alle sue amiche con grida gioiose. Il cerchio del complesso freudiano si chiude qui. “O luce che non vedevo più, che prima era in qualche modo mia. Ora mi illumini per l’ultima volta. Sono giunto. La vita finisce dove comincia”.
Alcune osservazioni. Anzitutto il paesaggio. Pasolini gira la parte mitologica del film in Marocco. L’ambiente è il deserto, popolato da accampamenti di nomadi. L’immagine dell’Antica Grecia che ci viene restituita è molto rozza, assai lontana dall’immagine di cultura raffinata che ci viene trasmessa dalla lettura degli autori. Qui gli abiti sono molto semplici, semistracciati quelli indossati dal popolo, un po’ più elaborati quelli della nobiltà. Le corone reali sono elaboratissime; le divise militari piuttosto approssimate, con elmi di aspetto primitivo; le case, le tende, i campi e gli spiazzi desertici sono quelli di una società primitiva, e così i primi piani e le espressioni dei vari personaggi che la popolano. Anche Edipo non si distingue più di tanto, se non fosse per il grande cappellone che lo ricopre mentre cammina per le strade sterrate, e quella specie di zainetto che porta con sé. I castelli, gli aspetti delle città sono quelli ripresi in tre luoghi del Marocco desertico non molto lontano da Marrakech: la Kasbah di Ait-Ben-Haddou che nel film rappresenta la reggia di Tebe, Ouarzazate e la Kasbah di Taorirt, e le dune di Zagora che rappresentano rispettivamente la città di Delfo e la reggia di Corinto. Si tratta di antiche e perfettamente conservate costruzioni arabe, castelli residenza di potenti che dominavano la regione. L’insieme riesce in modo molto efficace a riprodurre le immagini e la vita in una Grecia arcaica, dove il mito di Edipo si immagina svolto.
Una seconda considerazione. Come si è detto, il film è il racconto del mito di Edipo visto attraverso la teoria del complesso freudiano. Pasolini riproduce molto fedelmente la storia come ci è stata tramandata da Sofocle, tuttavia con una differenza (a parte l’escursione in periodo moderno): la tragedia di Sofocle inizia nel momento in cui i sacerdoti e il popolo tebano si recano alla reggia e implorano Edipo di salvare la città dalla pesta che sta divorando la maggior parte degli abitanti. Tutta la tragedia, fino all’autoaccecamento di Edipo, si svolge nel breve periodo (uno-due giorni) durante il quale viene ricostruita nei racconti e nelle testimonianze dei protagonisti. Nel film, Pasolini racconta la storia fin dall’inizio, e riprende fedelmente la tragedia dal momento delle suppliche che i tebani invocano a causa della peste. Film e tragedia sofocliana di differenziano ancora nel finale: nel film infatti manca qualsiasi accenno alle figlie di Edipo.
Il film è molto bello, di grande efficacia in ogni suo aspetto, compresa la recitazione degli attori. Qui vediamo la presenza di quello che sarà forse il più grande attore che abbia calcato le scene in Italia: Carmelo Bene nella parte di Creonte.