Il Candide alla Scala
Terzo grande appuntamento della corrente stagione scaligera. Dopo una grandissima Jenufa e una strepitosa Lady Macbeth, ora è il turno di Candide, che ho avuto l’opportunità di vedere giovedì sera.
Viste le polemiche passate, e le incertezze sulla sua rappresentazione, una domanda viene spontanea: che cosa intendesse Lissner, con la sua affermazione (riportata tra virgolette dai giornali): «Ho ritenuto l’allestimento dell’opera di Bernstein non in linea con la programmazione artistica scaligera».
L’opera era stata rappresentata allo Chatelet, teatro con il quale la Scala era in coproduzione.
Lissner in un primo momento aveva deciso la sospensione. Molti attribuirono questa decisione al fatto che venivano rappresentate le caricature di cinque uomini di stato ubriachi e in mutande, fra cui Berlusconi. Ciò aveva l’aspetto di una inaccettabile censura, e visto che la realizzazione parigina era stata un grande successo, come anche confermato dalla ripresa televisiva trasmessa successivamente da arte, furono sollevate proteste e inviti al ripensamento.
Comunque alla fine l’opera è stata data anche alla Scala, previe alcune modifiche che Lissner avrebbe concordato con il regista Carsen.
Il confronto fra la versione parigina (vista nella trasmissione televisiva) e quella milanese, rende ancora più perplessi in merito all’affermazione di Lissner, dato che le due realizzazioni sono pressoché identiche, compresa la scena dei capi di stato.
Le differenze, modestissime per la verità, come hanno notato altri osservatori, riguardano invece alcuni interventi evidentemente giudicati irriverenti nel confronti della Chiesa.
Essi sono:
1) La vecchia signora, nel raccontare la sua storia afferma di essere la figlia di un papa polacco. Nella versione scaligera la parola “figlia” viene sostituita dalla parola “discendente”. In realtà sia nel Candide versione Bernstein, sia nell’originale di Voltaire la Vecchia si definisce figlia di un papa polacco, di nome Urbano X (che, nella realtà, come papa non è mai esistito)
2) A Lisbona Cunegonda è amante di due grandi personaggi: un ricco ebreo di nome Issachar e il Cardinale-Arcivescovo. Nella versione scaligera si parla di Don Issachar e di Don Cardinale, e non viene fatta menzione che quest’ultimo è l’arcivescovo di Lisbona.
3) All’atto dell’immigrazione in USA, Maximiliano, il fratello di Cunegonda, è travestito da donna, ma viene scoperto da una perquisizione. Sarebbe rimandato indietro se un gesuita dall’aspetto e dai modi ambigui non lo salvasse e lo portasse con sé. Nella versione scaligera il gesuita scompare, e Massimiliano viene comunque fatto entrare. Nell’originale voltairiano, pur in un contesto diverso, Massimiliano travestito da donna viene salvato proprio da un gesuita ambiguo.
4) Infine nella loro peregrinazione nelle pianure americane, Candide e Cacambo, incontrano a più riprese alcune comunità, dalle quali vengono invitati ad unirsi a loro, e suscitano alcune discussioni: la prima è una comunità di Mormoni che invita al pentimento, e un cartello dietro di loro spiega che siamo a Salt Lake, Utah; la seconda è una comunità di Hippies che, fra le altre cose, fumano spinelli (il cartello indica: San Francisco, California); la terza è un gruppo di gesuiti che cantano“Venite pagani d’America, e ammirate i nuovi domini di Dio” (il cartello indica Santa Fe, New Mexico); la quarta è un gruppo di Pellerossa (il cartello indica WoundedKnee, South Dakota). Nella versione scaligera vengono eliminati gli incontri con gli hippies e con i gesuiti.
Queste piccole modificazioni certamente non alterano la bellezza e l’interesse dell’allestimento. Indicano sono una deteriore volontà di censura (a mio avviso ben peggiore di quella che si era supposta in un primo tempo), per due motivi. Il primo è che mentre la caricatura di Berlusconi e degli altri capi di stato era un’invenzione di Carsen e quindi Carsen stesso avrebbe potuto autorizzarne (a torto, evidentemente) l’eliminazione, i quattro punti censurati di fatto si ritrovano sia nell’originale Voltairiano che nella traduzione in opera di Bernstein. Quindi non si è censurato (autocensurato) un regista, ma proprio gli autori.
La seconda è che questa censura ricorda molto da vicino le proteste, criticatissime da tutta la stampa occidentale, degli estremisti islamici in merito alle vignette su Maometto pubblicate da un giornale danese. Se è gridato alla libertà di stampa in pericolo, e cose simili. In questo caso non siamo nello stesso ambito? E chi può avere indotto regista, direttore e quant’altri a introdurre queste censure nella versione scaligera? Naturalmente non si sa, ma forse non è del tutto temerario pensare che a Milano il movimento cattolico integralista Comunione e Liberazione gode di un potere certamente non piccolo.
Veniamo all’opera.
Come è noto, si tratta di una derivazione dal romanzo breve di Voltaire: in realtà solo della prima parte.
Bernstein spiega, in una introduzione alla registrazione dell’opera in forma di concerto del 1989 a Londra, quale sia il significato dell’opera di Voltaire e quello della sua trasposizione operistica. Voltaire con quest’opera combatteva una corrente filosofica che risaliva a Leibnitz chiamata l’ottimismo. «La filosofia ci insegna – Voltaire fa dire a Pangloss, la caricatura di Leibnitz – che le monadi divisibili in infinito, si dispongono con una intelligenza meravigliosa per comporre i differenti corpi che osserviamo in natura. I corpi celesti sono quello che devono essere: essi descrivono i cerchi che devono descrivere; l’uomo inclina a quello che doveva inclinare: egli è quello che doveva essere, e fa quel ch’ei doveva fare. Voi vi lamentate, o Candide, perché la monade dell’anima vostra si annoia; ma la noja è una modificazione dell’anima, e non impedisce che tutto sia per il meglio, tanto per voi che per gli altri.» Tutte le disavventure che sia Candide, sia lo stesso Pangloss hanno vissuto alla fin fine non sono che concatenazioni di fatti: da ogni causa discende una conseguenza «Tutto è concatenato, tutto è necessario nel migliore dei mondi possibili.»
Ma in questo che è il migliore dei mondi possibili, tragedie come il terremoto di Lisbona del 1755 e i 30.000 morti che ha provocato, le guerre, gli auto-da-fè dell’Inquisizione, che cosa rappresentano? Naturalmente tutto questo serve per mantenere nell’immobilità un mondo nel quale pochi privilegiati dominano su masse di povera gente. Voltaire combatte contro queste filosofie asservite. Siamo nel secolo dei lumi, siamo alla vigilia della Rivoluzione Francese.
Bernstein è affascinato da questo discorso, e assieme alla drammaturga Lillian Hellman costruisce nel 1956 un’opera sul romanzo di Voltaire, mantenendone lo spirito caustico e graffiante, ma aggiornandolo storicamente. L’occasione è il Maccartismo, un pensiero di intransigenza che finisce per negare le stesse radici della democrazia e della civiltà sulle quali si sono fondati gli Stati Uniti. E le vittime del Maccartismo non hanno pagato per crimini da loro commessi, ma solo per le loro idee, e spesso anche solo per sospetti o per amicizie. Lo stesso Bernstein asserisce di esserne stato vittima, col ritiro del passaporto: come è successo a Voltaire, insomma. Maccartismo: qualcosa di simile all’inquisizione spagnola e portoghese del Millesettecento, contro il quale era giusto e doveroso lottare con i mezzi a disposizione: in questo caso l’opera lirica.
La struttura drammaturgica dell’opera è una successione di numeri musicali, che descrivono vari quadri della complessa e contorta vicenda. I diversi quadri sono fra loro collegati da un racconto fuoriscena, che potrebbe essere narrato dallo stesso Voltaire o da altri personaggi, soprattutto il precettore filosofo Pangloss. I racconti fra i numeri potrebbero, nei diversi allestimenti essere sostituiti o integrati da scene più o meno estese di dialogo fra i protagonisti, dando in questo modo maggior continuità agli eventi scenici. Anche la successione dei numeri musicali non è rigorosa, e alcuni numeri possono precedere o seguire altri numeri.
Le vicende sono ben note.
Candide, piccolo bastardo in casa di un nobile barone della Westfalia nel castello di Thunder-ten-tronk, partecipa alle lezioni del precettore Pangloss che insegna a lui, e ai figli del barone, Massimiliano e Cunegonda, che questo è il migliore dei mondi possibili.
Candide si innamora di Cunegonda e per questo viene cacciato dal castello. Questa potrebbe essere una disgrazia, qualcosa contro cui ribellarsi, ma Pangloss gli ha insegnato che tutto va per il meglio. Quindi ciò che accade deve essere così (“It must be so”, canta Candide).
A causa della sua cacciata, Candide va incontro a una serie di disavventure: prima è reclutato da un esercito nel quale viene fatto bastonare a sangue per insegnargli la disciplina, poi partecipa all’aggressione del castello del barone della Westfalia durante la quale, fra gli altri, muore violentata e uccisa la sua Cunegonda. Dopo questa esperienza Candide si imbarca per Lisbona, dove è testimone del terremoto e viene processato e giustiziato dall’Inquisizione come eretico, per impedire che succedano altri cataclismi. Miracolosamente scampato si reca a Parigi dove nel frattempo Cunegonda, anche lei magicamente scampata, diventa l’amante contemporanea di due potenti personaggi, l’ebreo Don Issachar e il cardinale arcivescovo di Parigi. Candide “inavvertitamente” uccide le due personalità e, accompagnato da una vecchia dama, fugge con Cunegonda nel Nuovo Mondo.
A Buenos-Aires Cunegonda viene “catturata” dal Governatore della città che ne fa la sua amante, mentre Candide è costretto a fuggire, inseguito dagli sbirri. Si reca così in Paraguai, accompagnato da un fedele servitore, Cacambo, di origini meticcie. Viene accolto da una comunità di Gesuiti, comandata da Massimiliano, il fratello di Cunegonda, che, riconosciutolo, disprezza le sue umili origini e gli vieta di avvicinare la sorella. Candide lo uccide, ed è costretto a fuggire di nuovo. Le tappe successive sono l’Eldorado, dove la gente è gentile e gli fa tanti doni da renderlo ricco, e poi il Surinam, dove viene imbrogliato dal ricco olandese Vanderendur che lo deruba dei suoi averi, e infine il ritorno in Europa, dove su una nave incontra cinque re detronizzati che si pentono della loro passata tirannia e fanno propositi di una vita semplice e onesta. L’arrivo a Venezia, dove Cunegonda lavora nei casinò e dimostra di essere più affezionata ai soldi che all’amore, conclude il viaggio.
L’ultimo incontro con Cunegonda è quello che fa crollare in Cadide ogni illusione: questo non è il migliore dei mondi possibili. Alla fine i due si riconciliano e si propongono di acquistare una piccola abitazione dove vivere e coltivare l’orto.
L’opera finisce a questo punto, mentre il romanzo di Voltaire prosegue con la seconda parte.
La musica:
È un alternarsi di brani effervescenti, frizzanti, vivaci, ironici, in alcuni casi con ritmi di danza, con brani di melodie meditabonde, delicate, o a volte ancora con arie di vera e propria coloratura, come l’aria di Cunegonda “Glitter and be gay”. Bellissimo è il tango della vecchia signora, il tango di Rovno Gubernia, con la quale ella conclude il racconto delle sue disavventure. Bernstein stesso confessa che questo tango è una sua invenzione, non c’entra nulla con Voltaire, è un omaggio alla cittadina della Russia meridionale (o forse Ukraina) dove è nato suo padre e da dove la sua famiglia di ebrei è emigrata per andare in America. Altri numeri musicali notevoli per vivacità e freschezza sono il quintetto della lezione di Pangloss, lo straordinario brano dell’auto-da-fè nel quale l’orrore dell’atto dell’Inquisizione viene compiuto nel pieno di una festa popolare “What a day, what a day”, o l’aria con coro di Vanderdendur “Bon voyage dear fellow”, o le due meditazioni di Candide, ancora convinto dalla teoria dell’ottimismo, davanti alle disavventure capitategli: “It must be so” e “It must be me”, cantate sulla stessa melodia o, infine, la ferocia dell’aria di totale pessimismo di Martin “Words, words, words, words”.
Insomma, è molto difficile fare una scelta. Tutti i numeri hanno loro caratteristiche che li rendono attraenti. L’orchestrazione è molto moderna. Le dissonanze, i colori timbrici accentuano l’ironia delle parole, dei ritmi, dei temi.
L’allestimento e la messa in scena:
Come Bernstein ha attualizzato il romanzo di Voltaire, Carsen ha attualizzato l’opera di Bernstein. Io credo che questa operazione sia legittima, visto che l’obiettivo della vicenda è proprio quello di mettere in evidenza le contraddizioni di un mondo in cui parole vuote di ottimismo nascondono fatti che con l’ottimismo hanno ben poco a che fare. Per dirlo con le parole di Voltaire: «È bello scrivere ciò che si pensa, ed è questo un privilegio dell’uomo: in tutta la nostra Italia non si scrive se non quello che non si pensa.»
Le trasposizioni, ovviamente, sono anzitutto di tempo. La Westfalia diventa la West-fallie, cioè l’ovest, l’ovest fallito, dice Carsen, e per citare la parte per il tutto, gli USA.
E così inizia l’opera con il palcoscenico occupato da un grande schermo televisivo, su quale durante il preludio scorrono le immagini stereotipe, prese da commedie hollywoodiane, dell’american dream, dell’american way of life, di famiglie felici, con bambini felici, con superspese al supermercato, con macchine eleganti, con il piacere della vita, con parate militari, con i viaggi spaziali, con il sorrisi falsi di Hollywood, in particolare quelli di Marilyn Monroe, per finire con una gran scritta Coca Cola che esplode in mille bollicine.
La senzazione che il vero insegnante dell’ottimismo, più ancora che Pangloss, sia proprio la televisione, con la sua proposta di un mondo falso fatto in funzione di interessi impresentabili.
Alla fine del preludio compare Voltaire nella figura di Lambert Wilson, che illustra gli eventi che stanno per accadere, con sottile e piacevole ironia, accentuata da un italiano con pronuncia francesizzante. Gli eventi continuano ad essere rappresentati dentro il palcoscenico-schermo televisivo, che in questa occasione si compone di più piani, separati da sipari mobili che ne aumentano o diminuiscono la profondità. Il simbolo della nobiltà, il castello di Thunder-ten-tronk, è rappresentato dalla Casa Bianca, la guerra e la distruzione del castello sono rappresentati da due eserciti combattenti in divise dell’esercito americano: quello di West-fallie e quello di East-fallie che si distruggono reciprocamente. L’auto-da-fè è rappresentato dal tipico tribunale americano, con tanto di bandiere, dove l’accusa a Pangloss e Candide è quella di essere ebrei comunisti pericolosi per la democrazia, e quindi impiccati, il tutto nel mezzo di una festa popolare. Cunegonda, che a Lisbona si divide fra due amanti altolocati, e canta “Glitter and be gay” fasciata da un vivacissimo abito color rosso, è l’immagine di Marilyn Monroe. La fuga di Candide e Cunegonda nel nuovo mondo è non più verso l’America latina, ma verso gli Stati Uniti. Si assiste così alla grottesca cerimonia di Ellis Island per l’ammissione all’immigrazione; al viaggio di Candide lungo il paese e all’incontro con vari gruppi di popolazione; all’arrivo nel paese dell’Eldorado che non è altro che il Texas con i suoi giacimenti petroliferi; all’incontro con Vanderdendur nelle vesti del capitalista che canta che non c’è gusto a rubare ai poveri perché non si guadagna abbastanza, mentre gli operai che lavorano nei suoi stabilimenti sono sfruttati fino alla mutilazione personale; al naufragio in un mare di petrolio dove si incontrano i cinque re deposti che qui sono cinque personaggi di stato ubriachi con le maschere di Blair, Putin, Bush, Chirac e Berlusconi; all’arrivo a Las Vegas dove impera il demi-monde al quale hanno finalmente aderito Cunegonda e la Vecchia dama.
Si tratta di una lettura molto graffiante della civiltà occidentale capitanata e orientata dal modo di essere prevalente ed esportato dagli Stati Uniti; all’ipocrisia di certi valori sbandierati come valori universali (Cacambo dice a Candide, mentre sono in una landa dell’interno degli Stati Uniti, affamati e senza nulla da mangiare: “Qui i bianchi hanno preso tutto, senza lasciare nulla agli altri. Questa si chiama democrazia.”). Nel finale, mentre Candide e Cunegonda sembrano aver ritrovato i valori veri, quelli semplici, della vita (coltivare l’orto di casa), sullo schermo televisivo scorrono le immagini di un pianeta degradato, dalla siccità, dalle foreste bruciate, dai ghiacciai che si sciolgono, dalle immense discariche di rifiuti che si accumulano, etc.
Anti-americanismo da parte di un regista canadese? Forse. Ma è difficile non apprezzare il modo in cui viene posto, gli argomenti cui si ricorre, le conclusioni cui si giunge.
L’esecuzione.
Direi ottima. La regia di Carsen ha fatto in modo che i personaggi non fossero solo cantanti, ma anche bravissimi attori. Sopra tutti io metterei Lambert Wilson che interpreta in modo magistrale Voltaire (che fra un episodio e l’altro interviene con racconti di raccordo o commenti), Pangloss, e Martin. La sua rabbiosa interpretazione dell’aria Words, words, words come Martin è uno dei punti più intensi, graffianti, acchiappanti dell’opera.
Molto bravi anche William Burden nella parte di Candide, Anna Christy, nella parte di Cunegonda e Kin Criswell nella parte della vecchia dama.
Tutti i cantanti erano tutti microfonati.
La direzione d’orchestra da parte di un allievo di Bernstein, John Axelrod è stata pressoché perfetta.
Il pubblico all’inizio si è mostrato un po’ sconcertato. Ma col proseguire dello spettacolo non si sono fatti attendere gli applausi a scena aperta e un’autentica ovazione alla fine dell’opera.