ASSASSINIO NELLA CATTEDRALE (Murder in the Cathedral), di Thomas Stearns Eliot, 1935
Eliot mette in scena l’epilogo delle vicende che hanno opposto Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, e Enrico II re di Inghilterra. Siamo nel 1170, dicembre. Thomas Becket, che in passato era stato grande amico e consigliere del re il quale lo aveva nominato suo cancelliere, dopo la sua ascesa alla carica di arcivescovo, primate di Inghilterra, si trovò a prendere le distanze dal monarca. La materia del contendere era il conflitto fra il potere ecclesiastico e quello civile.
Becket sosteneva la superiorità della legge divina su quella promulgata ed esercitata dall’organizzazione dello stato, che aveva nel re il punto più elevato e nella nobiltà il punto di forza. Il contrasto costrinse Becket all’esilio in Francia, dove trovò protezione e amicizia nel re di Francia Luigi VII e alleanza con il papa Alessandro III. Dopo un lungo periodo di contrasti che coinvolsero anche i due regni e il papato, alla fine, proprio nel 1170, dopo sette anni, tanto è durato l’esilio dell’arcivescovo, si raggiunse un accordo con la possibilità di Thomas di rientrare in Inghilterra e riprendere il suo ruolo.
Il lavoro teatrale inizia proprio al momento dell’arrivo di Thomas a Canterbury. Nell’edizione diretta da Costa Giovangigli per la RAI nel 1966 nel c’è un breve prologo, inserito dal regista, nel quale un sacerdote informa brevemente gli spettatori sull’antefatto.
All’inizio del dramma un coro di donne lamenta che l’arrivo dell’arcivescovo sia foriero di disgrazie. La sua assenza dal suolo inglese, era coincisa con un periodo di pace e sicurezza. La povera gente poteva adempiere alle proprie attività senza timori. “Contente – cantano le donne – se nessuno si cura di noi”. L’arrivo dell’arcivescovo, si teme, riaprirà i conflitti, allontanerà la pace, porterà con sé la paura.
D’altro avviso sono i preti, che, dopo sette anni, vedono terminare la lunga assenza del loro superiore. Finalmente l’imperio del re e della nobiltà avrà termine, e la Chiesa riprenderà il suo ruolo nella società. Ma, si chiedono i preti, quale sarà il rapporto dell’arcivescovo con il re? Si sa che il ritorno di Thomas è stato reso possibile da un accordo fra Enrico II e Luigi VII, ma quale sarà ora il rapporto di Thomas con il re?
Il Messaggero, che annuncia l’arrivo dell’arcivescovo, parla di una cosa rabberciata. La pace fra il re di Francia e il re d’Inghilterra non sembra aver coinvolto Thomas, che torna “con orgoglio e con dolore e proclama i suoi diritti per intero”.
Ciò crea ulteriore sgomento fra le donne, ma i preti le sgridano. L’arcivescovo, tornando, restituirà alla Chiesa il suo ruolo e tutti coloro che vivono al suo interno, ne saranno compartecipi. La ruota, ora ferma, riprenderà a girare.
Thomas, entrando in scena, tuttavia, giustifica il timore espresso dalle donne, e profetizza che, perché la Chiesa ricopra nuovamente il suo ruolo, vi sarà molto da lavorare e soprattutto molto da soffrire.
A questo punto compaiono i tentatori.
Il primo tentatore ricorda a Tommaso la piacevole vita che si faceva ai tempi del suo cancellierato, quando egli godeva dell’amicizia del re, e quando aveva a disposizione tutte le ricchezze di cui aveva bisogno. In quel tempo non si dimostrava particolarmente severo nei confronti dei peccatori. Occorre riconquistare l’amicizia del sovrano, approfittarne per poter riappropriarsi dei piaceri terreni che l’amicizia del re gli consentiva. La risposta di Thomas è categorica. Non serve a nulla rievocare il passato. Il tempo scorre e ciò che è stato è stato. Non si potrà rievocarlo una seconda volta. Il tentatore, insoddisfatto se ne va.
Compare il secondo tentatore. Questi ricorda a Thomas il potere che aveva come cancelliere. La sua nomina ad arcivescovo lo indusse ad abbandonare la carica e il potere che ne derivava, per dedicarsi esclusivamente alla vita spirituale. Questo è stato un errore, poiché il potere è presente, mentre la santità è postuma. Occorre ritornare al potere, e alla domanda di Thomas di come ottenerlo, il tentatore risponde: occorre una certa sottomissione, e questa, ovviamente deve essere nei confronti del re. Solo subordinandosi al re potrà aver ragione dei baroni che, nel contesto attuale hanno ricuperato il lor potere. Thomas non accetta: il potere temporale può certamente influire sul benessere della gente e sull’ordine costituito, ma ora egli ha il potere che proviene dalla Chiesa, un potere superiore a quello temporale. Agisce in nome del papa per la salvezza delle anime. Dovrebbe inchinarsi al re per passare da un potere superiore a uno inferiore? Questo non lo farà. Il secondo tentatore esce e viene sostituito dal terzo.
Il terzo tentatore approva l’intransigenza di Thomas. A differenza del secondo, sollecita Thomas a mantenere l’opposizione al re e, per avere maggior forza, ad allearsi con gli esponenti della nobiltà, che dall’autoritarismo centrale del re si sentono danneggiati. “I re non sopportano altro potere oltre il proprio. La Chiesa e il popolo hanno buone ragioni contro il trono”. Thomas risponde che egli non è contro il re e certamente non si fida di chi vuole distruggerlo. Se egli non può fidarsi del Re “ha una ragione in più per confidare in nessun altro che Dio”.
Oltre i tre tentatori attesi, ce n’è un altro, il quarto. Il tema posto da questo tentatore è di più difficile soluzione. Egli mette sul piatto la gloria della santità. Approva senza mezzi termini la condotta di Thomas. Non può fidarsi del Re. Il re si è fidato di Thomas facendolo cancelliere. Si è sentito tradito e un re non può fidarsi due volte della stessa persona, quindi è inutile cercarne l’amicizia. Non può allearsi con i baroni, i quali pensano solo al loro profitto e sono spesso in lotta fra loro. La via giusta quindi è quella intrapresa. In sostanza, gli dice, “tu hai le chiavi del cielo e dell’inferno, hai il potere di sciogliere e legare… Tu che possiedi questo potere, mantienilo”. Ma Thomas si rende conto che tutto questo non porta da nessuna parte. La ruota gira, le cose sono destinate a dissolversi, questo potere finisce per essere un potere temporale. Non è certo quello che Dio vuole. Allora il tentatore gli pone l’ultimo grande problema: questo potere gli dice, se perseguito, porta al martirio, che è la gloria eterna. I troni cadono, la gloria della santità è il vero premio. Thomas capisce che se questa visone, che sente al suo interno come un desiderio, dovesse prevalere, non sarebbe un adempimento alla volontà di Dio, ma solo la ricerca di un proprio interesse, sia pur di alto livello. Respinge pertanto il tentatore e le sue proposte.
Il destino di Thomas si va così definendo. Abbandonati i piaceri dell’esistenza, il senso del potere terreno, e respinto anche l’ultimo tradimento, quello di “compiere l’azione giusta per la ragione sbagliata”, resterà per Thomas un percorso di sofferenza e di morte. Il fine di questo percorso è la gloria di Dio, e il prezzo sarà pagato non solo da lui, ma anche dal popolo. Il coro delle donne si lamenta di paura, ne paventa i disastri e teme addirittura che Dio, che ha pur sempre dato loro una speranza e uno scopo, le abbandoni alla ferocia degli uomini.
È Natale. L’arcivescovo recita le funzioni e fa un discorso al popolo.
Nel discorso viene portata alla luce l’esistenza dei due sentimenti contrastanti che albergano nell’animo dell’uomo giusto: la gioia e il dolore. Proprio a Natale questi due sentimenti trovano composizione: la gioia per l’anniversario della nascita del redentore, e il dolore per il suo sacrificio che si rinnova nell’ambito della Messa. Così gioia e dolore si realizzano anche nel giorno successivo, quello di Santo Stefano, il primo martire. Dolore per la sua morte, gioia per la consapevolezza che egli gode della vista di Dio nei cieli. E così sarà per tutti i martiri, che continueranno a esserci. Perché Cristo disse all’uomo. Vi porto la pace. Ma la sua pace non è quella terrena, la pace fra le nazioni che non si fanno guerra, la pace degli uomini che vivono in ben pasciute famiglie. Cristo disse esplicitamente che la sua pace non è la pace che dà il mondo; ma la pace che Egli ci dà la si raggiunge con la santità e anche col martirio, e che ci conduce nel regno di Dio.
Si giunge così al quarto giorno dopo Natale, il 29 dicembre. A Canterbury arrivano quattro cavalieri. Vogliono parlare con l’arcivescovo in nome del re. I frati li accolgono con gentilezza, ma i quattro cavalieri sono molti irritati e determinati. Appena sono davanti a Thomas lo accusano di aver tradito la fiducia che il re aveva posto in lui, e gli rinfacciano la sua umile origine. La risposta di Thomas è aspra: non siete venuti per portarmi un messaggio del re, ma per insultarmi e bestemmiare. Io non risponderò. Se c’è un’accusa del re nei miei confronti – ribadisce – io mi discolperò pubblicamente. I cavalieri vogliono che egli si discolpi “qui ed ora”, senza attendere un processo pubblico. E gli elencano quelli che essi giudicano i suoi misfatti: in primo luogo quello di non avere espresso gratitudine al re per essere stato riaccolto in Patria dopo sette anni di volontario allontanamento e dopo essere stato reintegrato nel suo titolo. Non solo, ma di avere fomentato discordie e avere denigrato il re presso il re di Francia e presso il papa. E come seconda e grave accusa gli viene contestato di avere scomunicato i vescovi che hanno convalidato l’incoronazione del figlio del re. Thomas nega la prima accusa, nel senso di essersi sempre dimostrato un suddito fedele, a parte il suo stato nella Chiesa; e per quanto riguarda la seconda accusa, la scomunica proviene dal papa, ed egli ne è stato solo uno strumento. I cavalieri non si placano e gli intimano di lasciare l’Isola in nome del re. Thomas rifiuta. È stato sette anni lontano dal suo popolo, e niente, neppure la morte, ora potrà impedirgli di stargli vicino. I cavalieri escono proferendo minacce sul suo conto.
I preti si rendono conto della serietà della situazione e impongono a Thomas di rifugiarsi. Si trasferiscono all’interno della Cattedrale dove Thomas si dedicherà alle sacre funzioni. I frati sbarrano la porta del tempio, ma Thomas ordina loro di riaprirle. I cavalieri spingono per entrare, e una volta aperte le porte, si precipitano all’altare, dove Thomas è inginocchiato, e dopo aver urlato ancora una volta le note accuse, non ricevendo risposta, trafiggono l’arcivescovo con le spade.
Il coro delle donne piange l’assassinio e la morte del sua arcivescovo.
Usciti sulla piazza, i cavalieri si rivolgono al popolo. Sanno che il popolo avrà pietà per l’arcivescovo e disprezzerà loro che in quattro, armati, hanno ucciso un uomo disarmato. Parleranno per giustificare la loro azione e per dimostrarne la necessità.
Gli argomenti, svolti da ciascuno dei quattro cavalieri.
Primo: in questa azione i quattro cavalieri non hanno guadagnato nulla. Il re Enrico, dovrà comportarsi in merito come impongono le circostanze del governo. Certamente li sconfesserà, ed essi finiranno per pagare duramente questo atto, fatto per il bene della Patria, con l’esilio.
Secondo: lo scopo del re e quello dell’arcivescovo. Lo scopo del re è quello di governare il paese; quello dell’arcivescovo di governare gli interessi della Chiesa, anche contro gli interessi del Paese. In condizioni normali questo avrebbe comportato un processo all’arcivescovo e la condanna a morte per tradimento. Nelle condizioni eccezionali in cui il Paese sta vivendo, questo passaggio si è rivelato impossibile e è stato giocoforza ricorrere alla violenza.
Terzo: chi ha ucciso l’arcivescovo? L’arcivescovo stesso, con i suoi atti ha dimostrato di volere essere ucciso: non è fuggito, quando avrebbe potuto farlo; ha aperto le porte della chiesa quando i suoi sacerdoti le avevano chiuse per proteggerlo; non ha lasciato il tempo a noi, esaltati dall’asperità del contrasto, il tempo di far sbollire l’ira. Di fatto, con i suoi atti ha dimostrato di volere la morte. La risposta alla domanda quindi non può essere che quella di Suicidio per infermità mentale.
Il dramma termina con canti da parte dei preti e del coro delle donne in cui si esprima gloria nel confronti di Dio della santità che contribuisce alla redenzione dell’uomo.