ONITSHA, di Jean-Marie Le Clézio

le_clezio1.jpg 

Il libro, scritto nel 1991, prende spunto da un fatto autobiografico dello scrittore. Il padre, ufficiale medico dell’esercito inglese, esercitò la propria attività in Africa, nelle colonie britanniche, prima in Camerun, poi in Nigeria.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale, rimasto confinato in Nigeria, egli venne ad essere separato dalla moglie, che viveva a Nizza, e che nel frattempo aveva avuto i due figli. Il ricongiungimento avvenne solo successivamente, alla fine della guerra, col viaggio della madre e dei figli verso l’Africa. In quell’occasione, 1948, all’età di otto anni, Jean-Marie vide per la prima volta il padre, col quale poi, per tutta la vita, ebbe un rapporto difficile.

Questi fatti sono stati narrati dettagliatamente in un libro scritto successivamente, nel 2003, L’Africano.

Onitsha inizia con il viaggio di mamma (un’italiana di nome Maria Luisa, abbreviata Maou) e figlio (qui il figlio è uno solo, Fintan) diretti in nave verso la Nigeria, proprio a Onitsha, la città sul grande fiume Niger, dove lavora e vive il padre Geoffroy Allen.

 

La prima parte del libro racconta il lungo viaggio. E già in questa atmosfera si respira l’aria razzista che poi si troverà anche nella vita della stessa città meta del viaggio. La nave è un cargo che trasporta anche passeggeri civili. Dakar è la sua prima tappa sulle coste dell’Africa. Qui vi sarà una sosta che permetterà alla madre e al figlio di visitare l’isola di Gorée, che sorge proprio di fronte alla città. Bastano poche righe a Le Clézio per immergere il lettore in un orrore senza fine: Gorée era l’ultima tappa del viaggio lungo il quale gli schiavi negri venivano trascinati per essere imbarcati sulle navi negriere in direzione delle Americhe. Qui c’è l’orrore di un fabbricato dove ancora si vedono gli anelli alle pareti, i canali di scolo in mezzo alle celle per far fuoriuscire urine e feci… Sono le testimonianze di una feroce e crudele disumanità, alla vista della quale madre e figlio non sanno resistere e fuggono, e che Le Clézio con queste poche righe ci fa penetrare nel sangue.

Il viaggio continua con fermate ai diversi porti. E sulla nave vengono imbarcati negri che devono viaggiare, spostarsi, ma non hanno i soldi sufficienti. Vengono così arruolati per scrostare la ruggine dalle sovrastrutture della nave. Il loro martellare accompagna il viaggio e ci dice, anche se non esplicitamente, che se la schiavitù come disumano commercio è ufficialmente finita, il destino dei negri è ancora quello di lavorare per il bianco, facendo per lui i lavori più faticosi, più ingrati, più “da schiavi”. Fintan se ne rende conto: vede questa povera gente: mentre gli uomini lavorano a martellare le donne, accucciate, nutrono i loro piccoli. Vorrebbe parlare con loro. Scende sul ponte di prua, ma viene immediatamente allontanato. Ai passeggeri (bianchi) quell’area è vietata.

I bianchi intanto passano il loro tempo nelle sale di soggiorno della nave, dove gli ufficiali inglesi, e soprattutto quello che sarà il Distrct Officer di Onitsha, Gerald Simpson, cenano, chiacchierano, ridono, sparlando e deridendo i negri, imitando la lingua mezzo inglese mezzo dialetto con la quale essi si esprimono, il pidgin. Fintan si vergogna e si allontana portando via la madre.

 

Lo sbarco a Onitsha. Siamo sulle rive del grande fiume. Si raggiunge la casa, una grande casa con il tetto in lamiera, su una collinetta che domina la città. Ha un nome, Ibusun, che nella lingua locale vuol dire “il luogo dove si dorme”. Ben presto la vita che vi si svolge è ben lontano da quella, un po’ turistica, sognata da Maou. Il padre, funzionario della United Africa Company, passa quasi tutto il giorno al lavoro sul Wharf, e rientra la sera tardi. La natura è bella, certo ma immutabile. Nella stagione delle piogge i temporali si scatenano con fulmini, piogge torrenziali. Maou finisce col soffrire di solitudine, e lo stesso Geoffroy, il marito amato e per lungo tempo desiderato, ben presto sembra essere diventato un estraneo. Fintan non sopporta la casa. Odia l’uomo che dice di essere suo padre, ma che lui non ha mai visto e tantomeno conosciuto prima dell’arrivo in Africa. Va e corre nella campagna circostante, curioso di una natura nuova, i nidi di termiti, l’erba altissima, gli abitanti che vivono in capanne di fango e paglia. Conosce un giovane negro, Bony, figlio di pescatori, col quale fa una specie di amicizia, ma con molta diffidenza, soprattutto da parte dell’amico. Impara a correre a piedi nudi, a non spaventarsi dei serpenti o degli scorpioni. Bony ha molto rispetto per la natura e la vita che la abita, e rimprovera aspramente Fintan quando lo vede colpire e cercare di distruggere alcuni termitai. Questa figura mi ricorda un’altra figura presente in una altro romanzo di Le Clézio, Deserto, Hartani, il pastore amico di Lalla, che ne è anche un po’ la guida nella terra selvaggia e aride ai confini del deserto.

 

La vita nella città si svolge ovviamente con in primo piano i rapporti interni della piccola comunità coloniale. Si fanno ricevimenti, c’è il solito club, c’è il solito modo di vivere della altezzosa borghesia inglese. Gerald Simpson funge spesso da ospite, e intende, nel giardino della sua casa, costruire una piscina per rendere la vita dei bianchi più confortevole. Per quello utilizza alcuni forzati negri, che dalle carceri ogni giorno, in catene, devono recarsi a scavare. Una nuova specie di schiavitù che una sera Maou non può fare a meno di osservare e criticare. Questo le attira l’odio di Simpson, e finirà a portare a delle conseguenze negative anche per Geoffroy.

In realtà Geoffroy, accanto al suo lavoro di funzionario ha una passione alla quale dedica tutto il tempo disponibile. Vuole ricostruire il viaggio di Amanirenas, la regina del popolo di Meroe, che dall’Egitto, dal grande fiume Nilo, dopo essere stata cacciata da Akethaton, la città del Sole in quanto, come l’eretico Faraone Akenaton, adoratrice di Aton, ha cercato, alla testa del suo popolo, di raggiungere l’altro grande fiume, sul lato opposto dell’Africa, il Niger, e fondarvi la capitale, una nuova grande città del Sole. Gli Umundri sono i discendenti del popolo di Meroe, e portano tatuato sulla faccia il segno di quella discendenza.

Un equivoco personaggio fa il suo ingresso nel romanzo: Sabine Rodes. Maou lo odia, si rifiuta di vederlo. Fintan invece lo frequenta. È un personaggio strano, non integrato nella comunità inglese della città. Vive in una bella villa, ha una collezione di oggetti d’arte locale, e ha come servi una coppia di negri Okawho e Oya. Con loro contrae rapporti ambigui: vorrebbe ricostruire una specie di schiavitù. Okawho è una persona orgogliosa, sembrerebbe appartenere agli Umundri. Oya viene giudicata una donna isterica, pazza. Forse è solo una sordomuta che non è in grado avere relazioni con le altre persone, per cui le fugge. Maou riesce a farsela amica. Rodes porta Fintan a vedere il relitto di una nave, affondata proprio davanti a un’isola in mezzo al Niger. Questo relitto è l’abitazione di Oya. Fintan, all’occasione, è testimone dell’accoppiamento di Oya con Okawho, e ne esce sconvolto.

L’odio di Simpson per Maou porta al licenziamento dalla United Africa di Geoffroy. Si dovrà tornare in Europa. Geoffroy, con Okawho come guida, farà un viaggio fino ad Aro Chuku, nella speranza di poter risalire alla storia della migrazione del popolo di Meroe. In quel viaggio verrà colpito da una forma particolarmente maligna della malaria.

Una rivolta dei forzati costretti a costruire la piscina nella casa di Simpson finirà tragicamente nel sangue. Nella strage perderanno la vita un fratello e un cugino di Bony, che per questo romperà l’amicizia con Fintan. Fintan agli occhi di Bony ora è solo un inglese, quindi un oppressore, un assassino della sua gente.

 

Questa parte africana del romanzo mi ha ricordato molto da vicino alcuni romanzi della Doris Lessing ambientati nella Rhodesia del sud, come ad esempio L’erba canta: lo stesso clima, lo stesso paesaggio (il veld e la savana), lo stesso ambiente coloniale, la stessa comunità inglese razzista e mal disposta a tollerare che dei bianchi familiarizzino, o anche solo possano contrarre rapporti, con i negri locali.

 

Il romanzo si conclude con il ritorno in Europa e un rientro in quella che viene considerata la civiltà dominante.

Scrivi un commento