LUCREZIA BORGIA, agli Arcimboldi

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Premesso che non sono quel che si direbbe un fan di Donizetti, l’altra sera al Teatro degli Arcimboldi ho visto una Lucrezia Borgia che mi è molto piaciuta. Naturalmente mi sono chiesto il perché.

A questa domanda (come a domande dello stesso genere) non è facile 
rispondere. Occorrerebbe partire dalla constatazione che le opere di 
Donizetti mi lasciano piuttosto indifferente, e dalla motivazione di 
ciò: in Donizetti non avverto una drammaturgia coinvolgente, ma solo 
espressione di bel canto. E io non sono un patito del virtuosismo fine a 
se stesso. Mi ricordo quanto mi ero irritato a vedere-sentire la 
Gruberova nella Linda di Chamounix alla Scala, che debordava per ogni 
dove col suo personaggio superingombrante, e che metteva in un angolo 
tutti gli atri protagonisti.

Questa Lucrezia aveva un precedente alla Scala, direi un precedente 
drammatico, nel 1998, con la Fleming nel ruolo del titolo, e un cast di 
tutto rispetto, che comprendeva Sabbatini, la Ganassi e Pertusi. Ricordo 
le urla, i boo, i “vergogna” gridati  a scena aperta dai loggionisti. Mi 
ricordo anche che io ero rimasto molto infastidito da queste 
intemperanze (che molti poi giudicarono eccessive); ma ricordo anche che 
l’ascolto di quell’opera non mi aveva per nulla riavvicinato a 
Donizetti, che, anche in quella occasione, mi si era presentato sempre e 
solo come un paladino del bel canto. E quando la Fleming, diligentemente 
alla ricerca di tutte le occasioni di coloratura che la partitura 
offriva o non offriva, nell’ultima aria, “Era desso il figlio mio“, alle 
prese con un arduo passaggio virtuosistico, cadde malamente con un 
brutto tonfo, suscitando risa e sghignazzi da parte del loggione che 
l’aspettava al varco, io non mi stupii più di tanto. Questo è 
Donizetti, mi sono detto. Anche ai giocolieri cinesi può capitare di 
far cadere il piattino che fanno velocemente roteare sopra il bastone, e 
romperlo. Incidenti, quindi, solo incidenti, che non modificano più 
che tanto l’essenza dello spettacolo.

E non mi sono ricreduto più di tanto neppure dopo aver sentito (per 
radio) la Lucrezia rappresentata a Bologna con la Devia e Filianoti. Non 
che la Devia avesse cantato male. Tutt’altro. Certamente molto meglio 
della Fleming, più attenta a non strafare, più incline a ricercare 
l’eleganza oltre all’agilità. Ma anche in questa occasione Donizetti 
per me non è andato oltre quello che mi è sempre apparso.

L’altra sera agli Arcimboldi è invece successo qualche cosa di nuovo, 
che mi ha fatto avvertire l’esistenza di una drammaturgia anche in 
Donizetti. Una drammaturgia legata al bel canto, certo, ma reale. 
Perché? 
Ecco io credo che questo sia dovuto al fatto non solo che i cantanti, i 
protagonisti (la Devia, Alvarez, la Barcellona e Pertusi) abbiano 
cantato molto bene tutti (non entro nei particolari delle singole voci, 
visto che proprio non me ne intendo), ma soprattutto abbiano cantato 
l’uno per l’altro. Cioè abbiano dato vita a una vicenda.

Ecco quella che a me è sembrata la differenza importante.

Nelle due precedenti Lucrezie (quella scaligera con la Fleming e quella 
bolognese con la Devia) i cantanti mi sembravano più preoccupati di 
fare una bella “esibizione”;  cioè mi sembrava che cantassero per se 
stessi, per riscuotere la loro dose di applausi, per affermare il 
proprio successo. La vicenda, così almeno a me era parso, sembrava solo 
un’occasione per potersi esibire, magari con drammatici movimenti delle 
mani, disperate espressione del viso etc. La mia sensazione era che ogni 
cantante avrebbe fatto la stessa cosa, cantato nello stesso modo, fatti 
gli stessi gesti, manifestato le stesse espressioni in un recital da 
solo. 
Questo logica impedisce l’espressione drammaturgica, la soffoca e alla 
fine l’annulla.

Ben diverso è stato sentire, come mi è accaduto l’altra sera, cantanti 
che mettevano a disposizione le proprie notevoli risorse per far vivere 
una vicenda. Quello che mi pareva sentire e vedere era che essi 
”recitavano cantando”,  erano un insieme, cantavano l’uno per l’altro, 
si muovevano in consonanza, insomma costruivano la drammaturgia. E anche 
i virtuosismi canori, in questo clima di interazioni reciproche, 
prendevano il loro posto senza essere offerti all’ascolto con la 
sottintesa intenzione “guardate come sono brava!!”

Insomma, ho avuto la sensazione di una compattezza di tutta la vicenda, 
senza sbrodolature, sfilacciamenti e cose simili. Qualche cosa di 
organico, di ben definito con inizio, svolgimento ed epilogo in stretta 
coerenza di eventi e di manifestazioni musicali.

E tutto questo mi ha coinvolto. E allora Lucrezia, Gennaro, Maffio 
Orsini, Alfonso mi sono apparsi veri personaggi, portatori di 
sentimenti, capaci di affrontare problemi e situazioni, protagonisti di 
relazioni reciproche di varia natura e spessore. E, trascinati dal 
canto, analogamente i loro movimenti scenici mi comunicavano la 
necessaria chiarezza espressiva. 
E in questo occorre dare atto come la regia e la direzione orchestrale 
di Renato Palumbo si siano fuse in un unico progetto nel quale movimenti 
di massa e concertati fornivano il background necessario, 
l’ambientazione, il tessuto connettivo.

Devo dire che anche le scene mi sono piaciute, come in genere mi 
piacciono le scene disegnate da Hugo De Ana, se non altro per quel loro 
oscillare continuo fra simbolismo e realismo e per la loro continua 
ricerca di una raffigurazione armonica, esteticamente ricercata, anche 
ricorrendo a immagini di grandi pittori e scultori. Notevole, ad esempio 
a mio avviso, è stata la processione di vescovi durante l’introduzione 
orchestrale al primo atto, con chiaro riferimento alle sculture di 
Manzù, così come notevole mi è parso l’uso di un materiale metallico 
nella costruzione delle scene che offriva riflessi luminosi capaci di 
creare atmosfere surreali.

Alla fine il pubblico ha manifestato un grande entusiasmo, che a mio 
avviso era pienamente giustificato. 

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