MOÏSE ET PHARAON, alla Scala

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Di solito le serate inaugurali della stagione scaligera sono di alto 
livello, sia per la scelta dell’opera, sia per la realizzazione. In 
più, a volte si tratta di opere di non frequente ascolto. Così è 
stato, ad esempio, con la Vestale di Spontini, oppure con  l’Armide  e 
l’Iphigénie en Aulide di Gluck, e così è stato ora con il Moïse et 
Pharaon.

Io credo che sia stata una grande occasione per il pubblico milanese e 
non, quella di poter ascoltare un vero capolavoro, una grand-opéra nel 
senso più ricco del termine, e non solo per la presenza delle danza, ma 
per l’importanza del tema trattato, per lo stretto collegamento fra le 
vicende umane e quelle storiche, per l’imponenza della scene d’assieme 
che fanno rivivere gli eventi storici, e che culminano nei concertati 
dei finali dei primi tre atti, per l’intimità e la dolcezza delle scene 
private: il tutto espresso con una musica di grande bellezza e di grande 
impatto emotivo.

In un post precedente ho cercato di fare un analisi sia pure grossolana 
dei rapporti che intercorrono fra questo Moïse francese, e il Mosè in 
Egitto composto circa 9 anni prima per il teatro di Napoli. Il tema 
storico trattato è lo stesso, le vicende private sono molto simili, la 
musica è in gran parte la stessa. Tuttavia le due opere sono molto distanti. L’opera di Napoli ha la valenza di un lavoro religioso, nel 
quale la vicenda umana, privata, è abbastanza marginale, anche se offre momenti di grande tensione come in occasione del finale del secondo 
atto. 
L’opera francese è invece un grande affresco storico nel quale le vicende e i comportamenti umani sono immersi e vengono influenzati dagli 
eventi, che a loro volta tuttavia sono influenzati da problemi privati dei protagonisti. Tutto questo Rossini l’ha realizzato inserendo importanti scene corali (come tutta l’introduzione e oltre nel primo 
atto), ridistribuendo la materia, portando in primo piano lo scontro fra 
la religione ebraica e quella egiziana (terzo atto nel tempio di Iside), 
ridefinendo il ruolo del rapporto amoroso fra il figlio del faraone 
Amenophis e la giovane ebrea Anaide (in questa versione ella sceglie di 
seguire il proprio popolo e la propria fede, scatenando l’ira di 
Amenophis e di conseguenza l’assalto finale con l’esito disastroso che 
conosciamo) e accentuando il ruolo della moglie del faraone (che risulta 
essere ebrea, anche se ha abiurato la propria fede: quindi l’opposto di 
Anaide).

La messa in scena di Ronconi può essere definita fastosa, senza cadere 
nella mitologia hollywoodiana. Quattro colonne quadre scanalate di color 
chiaro definiscono lo spazio scenico, che appare rialzato sul piano del 
palco, in modo la lasciare sul proscenio un piano più basso. Il piano 
dello spazio scenico è accidentato, sempre di color chiaro (richiamo al 
deserto). In questo spazio arredi più o meno complessi creano di volta 
in volta le scenografie: un grande organo sullo sfondo in legno scuro 
nel primo atto; due troni sopraelevati, sormontati da frammenti 
dell’organo scomposto, ai quali si accede per una lunga e stretta scala, 
nel secondo atto; una scena da interno di tempio con balconate ai lati e 
anteriormente ad una specie di altare sul quale riluce una stilizzata 
figura di mitologica luna (Iside, la dea cui è dedicato il tempio), nel 
terzo atto; una distesa desertica circondata da pesanti nubi, che poi si 
trasformerà, per rivolgimento degli elementi scenici, in una superficie 
marina che al momento opportuno si dividerà per lasciare il passo al 
popolo ebraico, nel quarto atto. I simboli egizi vi sono (qualche sfinge, qualche leone accucciato), ma 
di modeste dimensioni e servono a dare solo qualche accenno 
all’ambiente, senza appesantirlo.

I colori. Sia nelle scene che nei costumi i colori che predominano sono 
il bianco e il nero, sia pure con diverse gradazioni e tonalità. 
Alle scene chiare (deserto, interno del palazzo reale, tempio) 
corrispondono gli abiti bianchi dei personaggi egiziani: bianchi con 
ricchi ornamenti dorati quelli della famiglia reale, dei sacerdoti, e 
degli alti dignitari (nella scena del tempio una zampata maligna di 
Ronconi riveste i sacerdoti egiziani con un abbigliamento che ricorda da 
vicino quello solenne dei vescovi cattolici, con tanto di mitria e 
pastorale); semplici palandrane bianche con in testa specie di turbanti 
quelli del popolo. Gli ebrei invece indossano semplici abiti scuri, in 
genere neri, con copricapo caratteristici, compreso lo zuccotto.

Dal punto di vista della regia, i movimenti dei personaggi e delle masse 
corali sono molto contenuti. Tutta l’opera sembra rispondere ad una 
logica di immobilità degli uomini cui corrisponde una attiva presenza 
divina (le varie manifestazioni, come il fuoco che divora l’organo al 
momento della consegna della tavole della legge, le folgori e i 
terremoti, il crollo dell’effige di Iside, fino alla divisione del mare 
e alla tempesta che distruggerà l’esercito egiziano). Le masse corali 
tendono a raggrupparsi ai lati dello spazio scenico, oppure nella parte 
anteriore sottolivellata del proscenio. I personaggi hanno movimenti 
controllati, ieratici, soprattutto Moise, il Faraone, Sinaide sua 
moglie, i sacerdoti. In contrasto, Amenophis rivela l’agitazione nervosa 
dell’innamorato che sente sfuggirgli l’oggetto del suo amore (bene 
suggerita dalla musica), e la figura di Anaide è caratterizzata 
dall’indecisione, e dal contrasto interiore.

La coreografia delle danze che da molti critici è considerata il punto 
debole di questa messa in scena a me non è dispiaciuta. Il corpo di 
ballo era rappresentato dagli egiziani in tenuta bianca, che imitavano 
in modo stilizzato i movimenti legnosi degli arti che si vedono nei 
dipinti egiziani. Anzi, proprio davanti al lungo spazio che corre al di 
sotto del piano scenico, di contro a una lunga lastra di “pietra”, i 
danzatori si dispongono linearmente con aspetti che sembrano suggerire 
una scrittura geroglifica: un’idea questa che mi è sembrata 
interessante. In questo ambiente egiziano, si ha lo scontro fra un 
ballerino vestito di scuro (gli ebrei) e uno vestito di chiaro (gli 
egiziani).

La musica. Muti ha impresso una propulsione fantastica a questa musica, 
così viva e vitale. La sua direzione è dato alla musica quella 
progressione incalzante che ha affascinato me e, mi sembra, tutto il 
pubblico. Il commento più diffuso che si avvertiva riguardava proprio 
la bellezza di questa musica, in tutte le sue espressioni: concertati, 
arie, cori, assiemi, tutti uno più bello dell’altro. 
Da notare in quest’opera che i finali dei primi tra atti sono in grande 
crescendo, segno evidente dello scontro di passioni che si agitano fra 
popolo ebraico e potere egiziano. In contrasto il finale ultimo termina 
invece in un smorzando orchestrale (Muti a questo punto taglia il canto 
finale di ringraziamento) di grande serenità, dopo che gli ebrei sono 
riusciti ad attraversare il mare e intraprendere il viaggio verso la 
terra promessa.

I cantanti. Devo dire: tutti bravissimi, hanno svolto il loro ruolo con 
grandissimo impegno, vera passione. Moïse (Ildar Abdrazakov) solenne, 
tono ieratico, non ha un’aria propria (ne aveva una nell’opera 
napoletana, piuttosto brutta, che Rossini ha giustamente tagliato), ma 
grandi ariosi come l’invocazione alla luce nel secondo atto, o l’inizio 
della preghiera nell’ultimo. Molto bene ha fatto anche Erwin Schrott, 
che, pur giovane e quasi debuttante, ha realizzato un faraone di grande 
autorità. Grande è stato Filianoti nel ruolo di Amenophis: voce 
limpida, potente, chiara, emessa con apparente facilità anche negli 
acuti più impervi, come nel duetto col faraone. Altrettanto grande è 
stata Sonia Ganassi nel ruolo di Sinaide sia nei vari insieme, sia 
soprattutto nella sua grande aria alla fine del secondo atto. Forse 
lievemente a disagio, anche se la sua performance è stata di altissimo 
livello, mi è parsa la Frittoli (Anaide), nella sua aria, che mi sembra 
di enorme difficoltà, del quarto atto, “Quelle horrible destinee“. 
Ottimi mi sono sembrati anche i cantanti che hanno interpretato 
personaggi di secondo livello, come Tomislav Muzek (Eliezer), Nino 
Surguladze (Maria) e Giorgio Giuseppini (Osiride)

Gli applausi alla fine di ogni atto e alla fine dell’opera sono stati 
una esplosione di entusiasmo del pubblico affascinato da un’opera così 
bella, da una musica così trascinante e da una esecuzione così ricca 
di fascino.

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