SANCTA SUSANNA e IL DISSOLUTO ASSOLTO, alla Scala
Che il dittico sia insolito si evince dal fatto che viene associata un’opera di rarissima rappresentazione (Sancta Susanna) a un’opera in prima esecuzione (quasi) assoluta (Il dissoluto assolto). L’accostamento non è casuale. La Scala aveva programmato la Sancta Susanna di Hindemith (su libretto di August Stramm) e nel contempo aveva commissionato a Saramago e a Corghi l’opera che doveva essere eseguita nella stessa serata.
Il tema che collega le due opere è l’erotismo: nel primo caso in un clima cupo, tragico; nel secondo, per contrasto, in un clima leggero, stemperato nell’ironia. La regia di Patrizia Frini rende esplicito il collegamento attraverso un’organizzazione comune dello spazio scenico, che lo scenografo Alessandro Ciammarughi divide in due settori: uno anteriore, ben illuminato, pressoché privo di arredi, dove agiscono i personaggi della vicenda, e uno posteriore, oscuro, circondato da una pesante cornice di legno dorato, densamente arredato, nel quale si svolgono gli eventi “esterni”, le narrazioni, le evenienze della fantasia, e popolato prevalentemente da mimi.
Per quanto mi riguarda, l’accostamento non mi è parso riuscito per il grande distacco qualitativo fra le due opere. La Sancta Susanna è un’opera breve e intensa, che inchioda l’attenzione; Il dissoluto assolto, a mio avviso, non riesce a dar corpo all’ironia prescritta, e si svolge stancamente e in modo abbastanza noioso.
Sancta Susanna.
Una suora, Susanna, è in contemplazione estatica davanti al Crocefisso. Una sua collega, Klementia, la mette in guardia. I rumori della notte, il canto dell’usignolo, i gemiti di due giovani che nel giardino del convento fanno l’amore, creano un’atmosfera di crescente tensione. Susanna vuol parlare con i giovani di cui ha sentito i gemiti. Klementia racconta di una collega che in una crisi mistico-erotica si è denudata e ha abbracciato il Crocefisso. Per punirla della blasfemia la suora è stata murata viva dietro l’altare. Susanna è in preda a una crescente esaltazione. Un ragno di grandi dimensioni scende dal crocefisso e si poggia sui capelli di Susanna. L’estasi mistica scivola in un’estasi erotica. Viene invocato Satana. Susanna si spoglia e si avvicina al Crocefisso e chiede alle monache allibite che entrano nella chiesa per la recita mattutina dell’Angelus di essere a sua volta murata viva.
Il tema dell’opera è estremamente scabroso, secondo alcuni addirittura blasfemo. L’osservazione che i confini fra estasi mistica e estasi erotica siano incerti non è certo nuova. È un tema ricorrente nelle arti figurative, soprattutto nel Seicento. La Santa Teresa del Bernini ne è un famosissimo esempio.
La blasfemia dell’argomento ha reso molto difficile la vita di quest’opera, sottoposta spesso a rifiuti di vario genere, e in un certo periodo rinnegata anche dallo stesso autore. Una recente (1977) rappresentazione all’Opera di Roma ha sollevato una dura protesta del Vaticano. Mi pare non del tutto fuori luogo un richiamo alla recente autocensura della Deutsche Oper di Berlino in merito alla rappresentazione di un Idomeneo la cui regia è stata giudicata blasfema dai mussulmani. Come dire: tutto il mondo è paese.
La musica di Hindemith esprime in modo molto efficace i cangianti stati d’animo di Sancta Susanna, facendo perno su un tema che viene enunciato subito all’inizio dell’opera e che via via assume sempre maggior pregnanza, avvolto da variazioni armoniche e di colore orchestrale. Il flauto, che all’inizio richiama un sereno ambiente notturno dove si ode il canto dell’usignolo, viene successivamente sostituito dagli archi e quindi dal suono corposo del clarinetto quando l’estasi scivola dal rapimento mistico al desiderio corporeo e il ragno si cala sui capelli della monaca. Fremiti e ondate di musica dissonante annunciano una tempesta che, se apparentemente sembra scatenarsi nell’ambiente esterno, di fatto evoca lo stato d’animo interiore di Susanna. Il finale, con invocazioni a Satana delle suore del convento su accordi dissonanti in crescendo, lascia come un vuoto nel quale l’opera si conclude.
La regia è superlativa. La grande cornice divide il palcoscenico in due parti: uno spazio anteriore, ben illuminato, privo di arredi occupato dalle due protagoniste, Susanna e Klementia; e uno posteriore, dietro la grande cornice, occupato da un paesaggio roccioso, aspro, notturno, cupo, sul quale ben presto emerge una grande croce di pietra dove si materializza un Crocefisso illuminato da una luce interiore. In questo paesaggio roccioso, soggetto a diversi cambiamenti nel corso dell’opera, si disegnano, come sogni o fantasie, i quadri che occupano il dialogo fra le due monache: le immagini della notte, la scena d’amore fra i due giovani, il blasfemo peccato commesso da una consorella narrato da Kostantia, il ragno misterioso forse simbolo dell’eros. Infine, questo spazio onirico, racchiuso dalla grande cornice, si apre, la cornice va in frantumi e Sancta Susanna, scavalcandola, si dirige verso l’immagine del Crocefisso, incontra il ragno, e diventa definitivamente preda dell’estasi erotica.
La direzione orchestrale di Marko Letonja (giovane direttore che ho ascoltato per la prima volta in questa occasione) mi è parsa ottima: il suono dell’orchestra si fonde alla perfezione con l’emergere degli stati d’animo della protagonista e con le luci lampeggianti che incombono sul roccioso paesaggio dello sfondo. Di pari bravura mi sono parse le due monache: Tatiana Serian nel ruolo di Susanna e Brigitte Pinter nel ruolo di Klementia. I loro movimenti corporei, ridotti all’indispensabile, avvengono in uno spazio nudo, senza indulgere in gesti ridondanti e retorici che la vicenda potrebbe suggerire; il canto, un declamato teso e drammatico, si immerge molto bene nelle armonie dissonanti dell’orchestra, dalle quali viene a sua volta esaltato. Direi che entrambe hanno saputo dar vita alla tragedia sulla scena e a risvegliare emozione negli ascoltatori, che le hanno vivacemente applaudite.
Molto minor entusiasmo ha invece destato l’opera di Azio Corghi. Il Dissoluto assolto continua il sodalizio ormai decennale fra il compositore italiano e José Saramago, il grande scrittore portoghese, premio Nobel per la letteratura nel 1998. Tappe precedenti sono state Blimunda (1990), ispirata al romanzo Il memoriale dal convento, e Divara (1993) ispirata a un lavoro teatrale, In nomine Dei.
La pièce teatrale (e quindi il libretto) del Dissoluto assolto nasce dall’idea di Saramago di rovesciare il finale del Don Giovanni di Mozart. Don Giovanni nell’opera mozartiana merita l’inferno per la sua vita peccaminosa, mentre l’ipocrisia di coloro che ce lo mandano ne esce vittoriosa, anche se squallida. Saramago non accetta questa conclusione, e ne vuole un’altra: Don Giovanni è un seduttore. Ma questo non è un peccato che meriti l’inferno. Tutti abbiamo l’ambizione di sedurre qualcuno, tutti siamo come Don Giovanni, con la differenza che noi gente comune della borghesia siamo ipocriti, Don Giovanni, tutto sommato no. E quindi verrà assolto. Ma fino a quando? L’ipocrisia lo deciderà.
L’opera quindi ridisegna il finale del Don Giovanni, dall’ingresso del convitato di pietra. Il commendatore, una statua di bronzo vestita con una improbabile armatura e un elmetto di foggia prussiana, vorrebbe, ma inutilmente, spedirlo all’inferno. Donna Elvira è (o finge di essere) ancora innamorata, ma con un trucco sostituisce il catalogo dove sono elencate le conquiste di Don Giovanni, con un libro di pagine vuote, sbugiardando così le qualità di seduttore di Don Giovanni. Don Ottavio vuole vendicare Donna Anna, e viene ucciso in duello. Donna Anna, ripete, con maggior ipocrisia che non nell’opera mozartiana, l’incontro notturno con Don Giovanni, accusandolo addirittura di impotenza. Tutto sommato la punizione di Don Giovanni ordita dalle due donne è questa: non l’inferno o la morte, come vorrebbero il Commendatore e Don Ottavio, ma, cosa ben peggiore, la dimostrazione che come seduttore egli non vale nulla. Zerlina tuttavia salverà il Dissoluto, dichiarandogli il suo amore e infilandosi nel suo letto. Assoluzione!!
L’opera, che dovrebbe essere graffiante, e tutto sommato blasfema nei confronti del ben più paludato e osannato Don Giovanni di Mozart, secondo me ha mancato il suo obiettivo. L’opera non graffia, gli episodi si susseguono senza dei veri e propri colpi di scena. I personaggi sono appiattiti, e la musica non li ravviva certamente. Il risultato, dopo l’esaltazione della Sancta Susanna, è la noia.
Neppure la regia riesce ad accendere l’attenzione. L’impianto scenico è lo stesso visto nella Sancta Susanna: lo spazio anteriore dove si svolge l’evento, illuminato, con pochi essenziali arredi; lo spazio posteriore, più oscuro, delimitato dalla grande cornice, dove si svolgono gli aspetti onirici raffigurati da mimi con deliranti costumi, e occupato da specie di piattaforme di legno grezzo sorrette da travi che si incrociano in modo caotico.
La musica: non saprei dire. Anzi, direi che non mi ha detto proprio nulla. All’inizio, nel prologo, Leporello racconta al manichino di Donna Elvira il catalogo, sull’aria di Mozart, ma trasformata in duetto dagli interventi scandalizzati del manichino (un sopranista interpretato da Marco Lazzara). Nel corso dell’opera si presentano di volta in volta brevi citazioni dell’opera di Mozart, ma per lo più la musica, più o meno dissonante, si porge come descrizione degli eventi, senza tuttavia farne risaltare l’ironia, l’intento blasfemo, il momento graffiante. Per sottolineare la divaricazione fra dabbenaggine degli uomini (Commendatore, Don Ottavio) che vorrebbero, senza riuscirci, punire Don Giovanni in modo “fisico”, e l’astuzia delle donne che vorrebbero (anch’esse tuttavia senza riuscirci) colpire il dissoluto nel suo orgoglio, i primi si esprimono col canto, le seconde col parlato. Gli interpreti principali sono Vito Priante come Don Giovanni, Julian Rodescu come Commendatore, Roberto De Candia come Leporello.
5 giugno 2010 alle 10:56
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