ANACREON, a Venezia (ascolto radiofonico)

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Mi piace l’idea, nel clima infuocato delle discussioni sul Trovatore (discussioni quasi più infuocate della stessa opera), di mettermi a parlare dell’Anacreon di Cherubini. Si passa dai toni guerreschi, infiammati, cupi, drammatici, spavaldi dell’opera verdiana, ad un’atmosfera ben diversa, di serena, anche se melanconica meditazione sui grandi misteri della vita: l’amore, il piacere, ma anche il decadimento della vecchiaia, le paure che esso comporta, i rimpianti (la vecchiaia che del piacere inaridisce le fonti, non estinguendone la sete – dal D’Annunzio). E tutto questo immerso in una musica bellissima, raffinata, nei timbri, nella magia dei temi e delle melodie, nei giochi del contrappunto, nei dialoghi degli strumenti con le voci.

Pamilton, che ha visto l’opera a Venezia, ne ha fatta un’analisi preziosa. Io purtroppo (e non finirò mai di rammaricarmi) non l’ho vista ma ho potuto solo ascoltarla in quella stessa edizione. E non posso non condividere il suo entusiasmo. L’opera è decisamente bella, la musica entra nel sangue, nel cuore. Ma è di quelle musiche che si devono ascoltare in silenzio, in raccoglimento, aperti all’ansia di apprezzare il buon gusto, la raffinatezza, e goderne. Lontano quindi dalla lirica tradizionale dove tutta l’attenzione in genere viene posta sull’esito di una travolgente cabaletta, o di un do entusiasmante che fa venir giù il teatro.

Nell’Anacreon il teatro non verrà mai “giù”: al contrario, l’opera richiede allo spettatore di ascoltarsi: di ascoltare e ascoltarsi, e di gustare il piacere che danno le cose belle.

In questo mio post vorrei parlare di cose che Pamilton non ha detto (impegnato com’era nell’analisi musicale).

E partirei dal libretto.

È stato definito un brutto libretto. Lo stesso autore pare che fosse un personaggio sconosciuto all’epoca, del quale si conosce solo il cognome e le iniziali del nome: B. Mendouze.

Dal punto di vista letterario, probabilmente i critici hanno ragione: io non conosco abbastanza il francese per esprimermi. Ma è da notare che l’argomento proviene da una tradizione letteraria che trova le sue origini nel ‘500, dalle cosiddette anacreontee, poesie che a torto sono state attribuite al grande lirico ionico-eolico del VI-V secolo a.C.

Le liriche di Anacreonte erano liriche che mescolavano il gusto per i piaceri della vita a una leggera atmosfera malinconica, probabilmente dettata dalla sensazione del tempo che passa, dal farsi in avanti degli anni, e dalla consapevolezza che questi piaceri pur essendo sempre desiderabili, sempre meno ci sono concessi. Il mito del lirico greco è legato alla vecchiaia, se si pensa che la tradizione lo vuole vivo ancora a 85 anni, età in cui sarebbe morto soffocato da un chicco d’uva… mi pare un riferimento molto eloquente!

Questa atmosfera ambigua, nella quale la malinconia si sposa ai piaceri, è appunto alla base della anacreontee, e successivamente, nel ‘700 a quella produzione letteraria che va sotto il nome di Arcadia.

Il libretto di Mendouze prende spunto da una bella, breve favola in versi di La Fontaine, nella quale si immagina che Anacreonte, raffigurato vecchio come di prammatica, accoglie il piccolo Amore in casa sua salvandolo da una tempesta. Lo riscalda, lo rifocilla, e in compenso, il birichino Amore prende il proprio arco e scaglia una freccia nel cuore del poeta. Alle sue proteste, il piccolo birichino risponde, a conclusione della favola: “Pauvre camarade, mon arc est en bon etat, mais ton coeur est bien malade”.

Queste parole saranno usate direttamente da Mendouze nel libretto, il che toglie ogni dubbio sulla fonte.

Clima anacreonteo, dunque, che pervade tutto il libretto, e che la musica di Cherubini interpreta in maniera straordinaria.

La trama non esiste. Il primo atto è dedicato ai preparativi per festeggiare il compleanno di Anacreonte (il libretto ci dice l’età: cinquant’anni). Corinna, giovane fanciulla di lui innamorata si dà da fare, ad addobbare l’ambiente, a chiamare danzatrici, pur conoscendo il carattere gaudente e quindi anche incostante del poeta. L’atto è poi anche dedicato a farci conoscere il poeta, con i suoi turbamenti per l’età che inesorabilmente avanza, ma anche con la sua voglia di vivere, di prendere i piaceri della vita. Straordinario il trio di Anacreonte e delle sue due schiave.

Nel secondo atto, mentre si stanno facendo i festeggiamenti, il birichino Amore, fuggito dai genitori e accolto per pietà, salvandolo da una tempesta, nel modo subdolo che gli è proprio, induce nei presenti una esaltazione amorosa. Alla fine Venere verrà a riprendere il suo irrequieto figlio, e tutto finirà in apoteosi.

Pamilton ha dato una bellissima analisi musicale, sulla quale non torno. Posso solo aggiungere che la musica di Cherubini, riesce ad interpretare magistralmente quel misto di malinconia e di voglia di vivere, che è alla base della anacreontee. Gli stessi passi di danza che prova la ballerina Atenaide, per rallegrare la festa, ci portano in questo clima: l’ivresse ( l’ebbrezza amorosa) dolce e sognante, l’allegria, il dolore, e la gioia del correre per i boschi.

Dal punto di vista musicale, proprio per la raffinata intessitura, perfettamente adeguata a questo clima, i legni assumono un ruolo di grande importanza. Ma grande importanza ha anche il suono del corno, evocatore di lontananze, di reminiscenze, e quindi anche di stati d’animo delicatamente malinconici.

Anche la tempesta che chiude il primo atto, non è certo la tempesta dell’Otello. A me è parso di capire che si tratti di una tempesta simbolica, che preannuncia appunto la tempesta emotiva che l’amore porta con sé. La musica è certamente agitata, ma mai terrificante, ed è molto bello il contrasto fra la paure delle ancelle, e l’invito alla calma di Anacreonte. Le tempeste dell’amore non sono cose di cui si deve avere paura. E, appunto, Amore arriva proprio con la tempesta.

Nel secondo atto di fatto viene ripresa la favola di La Fontaine. Amore è birichino, canta le sue deliziose couplets, piene di malizia raccontando la fuga dai genitori. Anacreonte, che non sa con chi ha a che fare, è ancora una volta in preda alla malinconia. Qui c’è un’aria, che io trovo molto bella (anche se Pamilron non la prende in considerazione) non solo per la musica, ma perché mantiene sempre vivo questo gioco dell’alternarsi della tristezza degli anni che trascorrono inflessibili, e per contro, del piacere, delle gioie della vita, che pure non sono precluse. L’aria è “Quelle est heureuse la jeunesse”, nella quale il poeta ancora mette a confronto la giovinezza e la vecchiaia per il godimento dei piaceri della vita. Questa aria viene ripresa, dopo un breve recitativo, da Corinne, che manifesta al poeta tutto il suo amore. Qui la musica ha una cadenza lievemente danzante, dolce, una specie di nostalgia, di rimpianto, secondo me molto efficace nella descrizione degli stati d’animo.

Ma il fanciullo Amore, temendo di essere ricondotto ai genitori dai quali è fuggito, fa il patatrac!  Questa figura di Amore mi ricorda quella di un’opera settecentesca, del tutto diversa, ovviamente, che è La purpura della rosa di Torrejon y Velasco, dove pure compare la figura di Amore nelle vesti di un bambino capriccioso e vendicativo, sempre in lotta con i genitori, soprattutto col padre, Marte. È un po’ l’immagine tradizionale che il mito di Amore porta con sé.

Il quartetto che segue il patarac di Amore l’ha molto ben descritto Pamilton. Io voglio solo aggiungere che il canto del quartetto è contrappuntato da due solitari interventi di Amore che pronuncia i versi presi da La Fontaine, che ho riprodotto sopra. È un effetto molto bello, perché da una parte c’è l’euforia di Anacreon, Corinne, Bathille e Glycere che si sentono invasi dal fuoco d’amore; dall’altra c’è questo intervento di Amore, quasi estraneo al quartetto, come una specie di interruzione dell’entusiasmo, quasi una oscura minaccia, che tuttavia i quattro ignorano proseguendo nel loro canto. L’effetto è molto bello e crea nell’ascoltatore una sensazione di sospensione molto efficace.

Da questo quartetto si passa poi alla festa vera e propria, introdotta dal primo tema dell’ouverture, quel tema così bello che ha una intensa forza dinamica. Qui ormai le malinconie vengono abbandonate in un canto d’assieme molto allegro, pieno di vitalità per concludersi poi in quella meravigliosa aria di Anacreonte con accompagnamento di corno ed arpa, di struggente bellezza. Non c’è più la malinconia ma solo il canto dolce e sognante dell’ivresse, dell’ebbrezza amorosa. È forse il punto più alto dell’opera.

Sono d’accordo con Pamilton: se pure non esiste una trama, un intreccio, ma solo dei quadri apparentemente statici, quest’opera ha una forte drammaturgia, che si basa prevalentemente sulla mobilità di stati d’animo continuamente cangianti, in cui fanno da contrappasso le ansie, le paure, le pene dell’invecchiamento e invece il rifiorire continuo della gioia di vivere attraverso le sue varie manifestazioni: l’amore, il piacere del sesso, il vino, i cibi… Ed è la musica a dar vita a tutti questi stati d’animo, con i suoi cambiamenti di passo, di timbro, di colore. Una musica sempre in bilico fra la malinconia e la gioia, intrisa di una sensualità sottile che ricorda certi dipinti di Ingres, penso sopratturro al Bagno turco, dove i corpi nudi delle fanciulle, nelle rotondità delle curve, esprimono una carnalità quasi palpabile, ma mai volgare o rozza.

E infatti Pamilton ha perfettamente ragione di negare che la sostanza di questa musica possa richiamare il neoclassicismo alla Canova. Ha invece parlato di una regia geniale, che si è ben guardata da una ricostruzione “arcadica” dell’ambiente, puntando tutto invece proprio sui temi portanti. Mi spiace immensamente non averla vista.

Rimane sempre una domanda. Perché questi capolavori devono restare sepolti per decenni, e non approdano invece ad un ascolto molto più diffuso, come essi meriterebbero, e soprattutto come la gente, gli spettatori potrebbero apprezzare?

 

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