IL Trittico pucciniano alla Scala

 schicchi.jpg

A distanza di una decina giorni dal Wozzeck ecco alla Scala il Trittico di Puccini. Rappresentazione interessante, visto il direttore d’orchestra (Riccardo Chailly) e il regista (Luca Ronconi). Il cast: nel Tabarro, Juan Pons, Antonello Palombi (in sostituzione di Dvorsky, indisposto) e la Paoletta Marrocu; in Suor Angelica, La Barabara Frittoli e la Mariana Lipovsek; nel Gianni Schicchi, Leo Nucci, Stefano Secco e Nino Machaidze.

Anzitutto le tre opere. Ronconi ha cercato di dare una unità al Trittico attraverso i colori dominanti delle scene. Nel Tabarro, che potremmo definire una tragedia a fosche tinte, la scena è rappresentata da uno spazio grande come tutto il palcoscenico delimitato da tre pareti di un nero molto lugubre. Nello spazio scenico era visibile la prora di una chiatta da carico come quelle che navigano nella Senna, dai fianchi anche loro neri, con un grande timone e un piccolo castello centrale come abitazione del padrone, e una passerella che conduce a riva, cioè alla parete di fondo, dove una grossa apertura dai contorni irregolari e illuminata da una luce contrastante rappresenta (si fa per dire) la terra ferma.

In Suor Angelica la tinta dominante è quella della purezza, il bianco, il colore delle pareti che definiscono lo spazio scenico e degli abiti delle suore. Il suolo della scena è occupato da una enorme statua della Vergine in posizione prona con un manto celestino, sulla quale e intorno alla quale si muovono le suore. Sulla parete di fondo, con un’apertura simile a quella del Tabarro, è posta un’altra statua della vergine, più piccola, questa volta trionfante con corona e Bambino in braccio. Il clima è quello del miracolo.

Nel Gianni Schicchi il colore dominante è il rosso: rosse le pareti che delimitano lo spazio, rosso il pavimento, rosse le coperte del letto dove giace morto il “povero Buoso”. L’apertura sulla parete di fondo questa volta offre, in un disegno della Divina Commedia che potrebbe essere di Dorè, la vista del povero Gianni Schicchi all’inferno torturato dai diavoli, e successivamente una veduta di Firenze, Duomo, cupola, campanile.

Si potrebbe cercare di scandire le tre opere come le parti di una (quasi) forma sonata: un primo tempo, il Tabarro, drammatico, fortemente espressivo; un secondo tempo, Suor Angelica, caratterizzato da un ambiente mistico e soprannaturale; un terzo tempo, Gianni Schicchi, un presto pieno di vivacità e frizzante. Il problema per l’ascoltatore tuttavia è che ogni “tempo” dura oltre 50 minuti e che fra un tempo e l’altro è necessaria una lunga pausa (non meno di 30 minuti).

Anche da un punto di vista drammaturgico le tre opere presentano forti differenze: Il tabarro appare un’opera compatta e proiettata in modo deciso verso il tragico finale. Suor Angelica, indulge per lungo tempo (troppo secondo me) in dettagliate descrizioni dell’ambiente del monastero, e solo nell’ultima parte si ravviva, nel corso del colloquio di Suor Angelica con la zia principessa, dopo che la nipote viene informata della morte di suo figlio. Gianni Schicchi è un’opera buffa (l’unica di Puccini, anche se comunque almeno un personaggio buffo è sempre presente nelle sue opere) che potrebbe essere messa sullo stesso piano della grandi opere buffe che l’hanno preceduta: quelle di Rossini, soprattutto Barbiere e Cenerentola, il Don Pasquale e il Falstaff.

Ronconi, dal punto di vista registico, si è attenuto al tradizionale. Nel Tabarro l’ambientazione, l’intrigo amoroso, il rapporto fra Michele il padrone, e gli scaricatori, sono molto tradizionali. Io mi sarei aspettato da Ronconi un tono più forte ad esempio, nel sottolineare gli aspetti sociali che traspaiono nell’opera: la fatica del lavoro di scaricatore, i rapporti di questi salariati col padrone, etc. Ciò tuttavia non mi sembra che sia avvenuto, o per lo meno non sia avvenuto al di là di quelle che sono le tradizionali rappresentazioni.

Nella Suor Angelica, la regia si è adattata alla staticità dell’opera. Le suore, tutte vestite di bianco in sintonia con l’ambente, si spostano sulla scena in modo tranquillo, senza dar luogo a fenomeni di emozione o di tensione. Non si può, davanti alla ricostruzione di un ambiente monasteriale come questo, non pensare a quanto più incisiva e dinamica sia la ricostruzione dell’ambiente monasteriale ne I Dialoghi della Carmelitane di Poulenc. Anche in Suor Angelica mi sarei aspettato da Ronconi un atto di maggior coraggio, per esempio, nell’evitare di rappresentare il miracolo alla fine. Invece nelle ultime note dell’opera un bambino esce dal di sotto del corpo disteso della Vergine e corre fra le braccia della madre che così risulta essere perdonata. La scena richiama il finale del Lohengrin, ma direi che la forza delle due apparizioni dei bambini è molto differente.

Anche nel Gianni Schicchi la regia di Ronconi mi è sembrata molto tradizionale, a parte l’ambientazione in questo rosso sgargiante. Gli abiti dei cantanti sono moderni (ma ormai pullulano le rappresentazioni del Gianni Schicchi in abiti moderni); l’unico colpo di scena è rappresentato dall’abito di Gianni Schicchi, rifatto su un modello del 1200, molto vistoso e fortemente (e direi brillantemente) contrastante con gli abiti scuri a lutto dei parenti di Buoso. Volendo si può pensare anche all’attualità: l’ostilità dei Donati, patrizi di Firenze contro la “gente nova” (fra cui Giotto e i Medici) non può non far pensare alla becera ostilità di tanta nostra gente “bene” nei confronti degli immigrati. Forse da Ronconi ci si poteva aspettare una sottolineatura ironica del rifiuto del “diverso”, che invece, al di là della musica pucciniana, è mancata.

La parte musicale. La musica del Tabarro è ricca di dissonanze, anche se è sempre una musica tonale. Sotto certi aspetti vi sono passaggi che anticipano la Turandot. Mi sembra che la musica sia molto coerente con la drammaturgia, ed esprima, alternativamente, la fatica degli scaricatori, l’allegra del bicchiere di vino dopo la fatica, il duetto appassionato di Giorgetta e Luigi, ricco di dissonanze, le meditazioni tristi di Michele che avverte il distacco dalla moglie dopo la morte del bambino, il ricordo, la malinconia, e infine il colpo di teatro finale e la scoperta (letterale) del cadavere di Luigi alla moglie, con l’orchestra in fortissimo.

Suor Angelica è caratterizzata da una musica lieve come si pensa si possa addicere a un convento di monache devote alla vergine Maria, ingenue, sottomesse. Ciò sembra, tutto sommato, essere una introduzione al vero momento drammatico dell’opera, dove la musica esplode quasi improvvisamente per esprimere la disperazione di Suor Angelica.

In Gianni Schicchi la musica decrive con grande ironia le vicende dei parenti diseredati e beffati di Buoso Donati. Il tema del lamento col quale si apre l’opera, le scale discendenti, quasi glissandi, con cui Puccini insegue la frenetica ricerca del testamento, il tema solenne, quasi chiesastico del testamento, il tema di Firenze e della gente nova, l’aria del babbino caro cantata da Lauretta, il tema dell’addio a Firenze col moncherino… sono tutte piccole e deliziose perle musicali dell’opera che la rendono così frizzante e così viva.

Chailly ha diretto bene, ma non mi ha coinvolto più di tanto. Mi sembra che Puccini non sia del tutto nelle sua corde. Forse egli lo trova troppo strappalacrime, forse Chailly non si lascia coinvolgere più di tanto dal melodramma pucciniano. Fatto sta che la sua direzione mi è parsa non completamente convinta.

I cantanti: Nel Tabarro direi che i tre protagonisti hanno cantato al meglio. Antonello Palombi, che sostituiva Dvorsky, in particolare ha rivelato una bella voce, un tono appassionato. Pons è stato alla sua altezza, e anche la Marrocu, dopo un inizio un po’ incerto, è entrata bene nella parte.

In Suor Angelica, la Frittoli ha cantato in modo quasi inudibile per tutta l’opera, per poi risorgere nelle ultime arie. Forse sta logorando il suo bellissimo strumento e tende al risparmio? Molto bene la Mariana Lipovsek nei panni della zia principessa: tono gelido, sicuro, crudele.

Nel Gianni Schicchi abbiamo ancora una volta Leo Nucci. Indubbiamente bisognerebbe fare un monumento alla sua bravura. Ma quest’anno lo vedremo ancora nel Macbeth. Per fortuna la Scala non rappresenta il Rigoletto, altrimenti lo vedremmo anche lì, e chissà in quante e quali altre opere.

Domanda: sono finiti i baritoni italiani? Non ce ne sono proprio più? Leo Nucci non è più un ragazzino.

Scherzi a parte, io credo che occorrerebbe un po’ di fantasia e trovare qualcosa d’altro, non per svalutare la bravura di Nucci, ma per aprire strada a nuovi interpreti. Per esempio, penso ad Antoniozzi. Alla Scala lo abbiamo visto due volte: nella Linda di Chamounix e nel Barbiere di Siviglia. Ma ormai è passato tanto tempo. So che ha avuto grandi successi come basso-baritono in opere buffe. Non si potrebbe qualche volta averlo ancora alla Scala? Gli altri due protagonisti sono stati entrambi all’altezza della situazione, in particolare Nino Machaidze che ha cantato un “babbino caro” molto dolce e affettuoso (confesso di essermi commosso a sentirla: Puccini colpisce ancora!!)

Comunque lo spettacolo è piaciuto al pubblico che alla fine ha applaudito con grande entusiasmo, e tributato le solite ovazioni a Nucci.

 

Guarda foto di scena

Scrivi un commento