GIULIO CESARE, al Comunale di Bologna
Come ho già affermato in un altro post, una delle mie macerazioni mentali è quella di non apprezzare le opere di Handel, o per dirla tutta, le opere del barocco che qualcuno chiama debordante. Fedele al principio che se una cosa che ha tanti ammiratori entusiasti non mi piace, ci deve essere per forza alla base una mia incomprensione, ho deciso (soffrendo non poco) di ascoltare molto barocco. E ho cominciato con Handel, e soprattutto con quello che viene da molti definito il suo capolavoro, il Giulio Cesare.
L’ho ascoltato e riascoltato in diverse interpretazioni (Mackerras, Fischer, Mortensen e soprattutto Minkowski) e poi, visto che se ne presentava l’occasione, ho deciso di andare a vedere l’opera a Bologna sotto la direzione di Alessandrini.
A che punto sono giunto?
Prima di tutto, continuo a rimanere fermo nella mia idea che la drammaturgia in queste opere sia praticamente assente. Ma anche (e questo potrebbe essere considerato un passo avanti) che in queste opere (almeno nel Giulio Cesare, ma presumibilmente non solo in quella) si trova della musica bellissima.
La drammaturgia. Una cosa che sembra sostenere il mio scetticismo è il tipo di ascolto che si faceva nel settecento. Queste opere sono generalmente lunghissime, in media una quarantina di numeri inframmezzati da recitativo. Ebbene, ho scoperto che il pubblico di allora non andava a teatro come andiamo noi, seduti nella nostra poltrona, fermi, immobili per lunghe ore, in ascolto. Al contrario il pubblico del settecento era un pubblico molto “indisciplinato”. A teatro si faceva di tutto (mangiare, bere, chiacchierare, giocare e tante altre cose) magari ogni tanto, in presenza di un cantante particolarmente virtuoso, o di un’aria particolarmente bella, ci si fermava un attimo ad ascoltare, ad applaudire o a fischiare. Insomma, il teatro aveva una prevalente finalità che era quella proprio di intrattenere. Ricordiamo come erano costruiti i teatri: i palchi sulle pareti erano tutti di proprietà dei nobili, ed erano dotati di retrocamerino ben arredato per le diverse bisogne, mentre la platea, riservata a chi non possedeva palchi, non aveva posti a sedere, e ciascuno, se poteva, si portava dietro le sedie, o qualunque altra cosa, oppure se ne stava in piedi entrando e uscendo a proprio piacimento.
È chiaro che in un ambiente del genere, le opere potevano durare anche quattro-cinque ore che nessuno se ne sarebbe lamentato. Anzi!
In queste condizioni mi pare abbastanza naturale che il discorso sulla drammaturgia non avesse molto senso, e che invece largo spazio venisse lasciato alle esibizioni. Ecco allora come le arie finissero per assumere un ruolo particolare. La tripartizione in ABA rispondeva molto bene allo scopo. Una prima parte per esporre l’aria, una seconda per creare una specie di “tridimensionalità” e infine il “da capo variato” nel quale il tema dell’aria veniva ripetuto (fissandosi così meglio nella memoria dell’ascoltatore) ma nella quale anche tutto il virtuosismo dell’esecutore poteva esaltarsi al massimo, e offrirsi all’ascolto estasiato del pubblico.
Oggi il tipo di ascolto è molto diverso. E coloro che propongono in teatro un’opera barocca devono fare i conti con questo diverso pubblico. E Alessandrini, in un’intervista alla radio, ha espressamente citato il problema dandone la sua soluzione. Non tutte le arie devono essere eseguite, e tagli abbondanti devono essere fatti nei recitativi. Questo per non stancare (annoiare) lo spettatore con uno spettacolo di eccessiva lunghezza
Il risultato, nel Giulio Cesare da lui diretto è stato che delle 33 arie solistiche ne sono state tagliate 9. La durata complessiva è stata, minuto più minuto meno, di 3 ore. In realtà per “compensare” i tagli eseguiti, le arie sono state quasi tutte eseguite con dei “da capo” variati spesso di notevole lunghezza. Questo secondo me non ha affatto alleggerito l’ascolto. Se il “da capo” variato era una prassi esecutiva dell’epoca, credo che questo rispondesse a delle ragioni ben precise (cioè la natura esibizionistica di queste arie).
Se si fa un paragone col Giulio Cesare diretto da Minkowski a Palais Garnier nell’ottobre del 2002, si vede un modo molto diverso di interpretazione. I tagli di arie sono stati ridotti al minimo (1 o 2, mi pare), e così i recitativi, mentre non sono state effettuate variazioni, se non minime, nei “da capo”. L’opera è durata circa 15 minuti di più di quella di Bologna, ma a me è parsa più variata ed ha consentito di poter ascoltare arie molto belle come “Se in fiorito, ameno prato” di Cesare col il bel dialogo col violino solista, che invece a Bologna è stata tagliata.
La messa in scena. Da una parte ho ammirato l’abilità di Ronconi, che in un ampio spazio, definito simbolicamente da qualche colonna e qualche testa di sfinge come egiziano, ha costruito le numerose scene dell’opera con pochissimi mezzi: una biga che viene trasportata da un paio di comparse per significare l’autorità di Cesare generale vittorioso, un piccolo trono con qualche gradino che viene portato rapidamente in scena all’occorrenza, simbolo del regno egiziano, una conchiglia (di sapore botticelliano) nell’aria del Parnaso di Cleopatra, una scena della battaglia fra soldati di Tolomeo e quelli di Cleopatra, con guerrieri che immobili incrociano le loro spade e che alla fine della sinfonia cadono tutti a terra dove resteranno immobili fino alla fine dell’opera, e così via. Sul fondo giganteggiano due schermi dove si alternano proiezioni che non hanno alcuna finalità narrativa, ma solo quella di arricchire il sapore e il colore ambientale.
Insomma una scenografia molto economica in quanto a mezzi, ma molto efficace nell’identificare luoghi e ambienti.
I costumi rifuggono dalla sontuosità che si è soliti vedere nelle rappresentazioni in stile settecentesco. Le comparse egiziane vestono costumi “egiziani”. Cesare indossa una divisa grigioverde un po’ fantasiosa, e i soldati romani una specie di divisa bianca con tanto di fez. Non sono mancati, fra capo e militari, scambi di saluti romani. I costumi delle donne sono vestiti semplici, ma molto eleganti. Nireno, viene visto come una specie di mezzano, con tanto di fez rosso in stile marocchino. Tolomeo e Sesto, come due ragazzi poco più che adolescenti.
I movimenti scenici, purtroppo, secondo me, sono stati il lato debole della regia. Ronconi evidentemente ha dato istruzioni, ma che movimenti può fare un cantante quando nell’aria ripete per dieci venti volte la stessa frase? Ogni fantasia qui trova il suo limite. E qui, secondo me, torna a cascare l’asino della scarsa drammaturgia di queste opere.
Il Rinaldo, di cui ho parlato in un mio precedente post, potrebbe essere una soluzione. Cercare di sopperire alla continua cesura recitativo-aria-recitativo, con movimenti di scena che, iniziati nel corso del recitativo, si possono prolungare nel corso dell’aria. Ma questo è possibile solo inserendo nella vicenda una forte componente ironica, che per molti potrebbe significare una denaturazione dell’opera. Tuttavia questo non mi pare sia stato il caso della regia di Ronconi.
Personaggi ed interpreti.
Della direzione di Alessandrini ho detto all’inizio. Dal punto di vista esecutivo mi è sembrata buona. Non credo che l’orchestra del teatro comunale abbia usato strumenti originali. Tuttavia, personalmente non ne ho sentito la mancanza. C’è da dire che l’orchestra non è nella sua buca naturale, ma era sullo sfondo della scena, in una ampia nicchia in parte coperta da uno degli schermi delle proiezioni. Il clavicembalo, col suo violoncello, sono invece in una buca nella parte anteriore del palcoscenico. La piccola orchestra che accompagna l’aria del Parnaso è invece proprio sul palcoscenico. L’impasto che ne esce è, almeno dal mio punto di osservazione, omogeneo e ben calibrato con le voci.
Gli interpreti principali sono tutti femminili (mi è venuto da sorridere pensando a un Giulio Cesare decisamente matriarcale).
La Barcellona, nel ruolo del titolo, ha sfoderato non solo la sua bellissima voce, ma anche una grande agilità e una grande padronanza del fiato. Occorre sapere che questa è la sua prima interpretazione handeliana, e che le sue arie, soprattutto le due arie iniziali che si susseguono a distanza molto ravvicinata, sono due arie molto difficili, che Alessandrini oltretutto ha arricchito con molti vocalizzi. Molto brava è stata anche nell’aria più celebre dell’opera, quella dell’astuto cacciatore, con quel bellissimo dialogo col corno, che, detto fra parentesi, ha molto ben figurato; e nei due interventi maggiormente riflessivi, il recitativo accompagnato “Alma del gran Pompeo” e il recitativo con aria del terzo atto, quando, bagnato fradicio, riesce a salvarsi, la sua bella voce ha saputo creare vera emozione
Molto brava anche la Sara Mingardo nella parte di Cornelia. Le sue arie sono tutte manifestazioni di dolore, che la sua voce contraltile ha saputo rendere in modo veramente emozionante: penso alla sua aria di sortita “Priva son d’ogni conforto”, o allo stupendo duetto “Son nata a lacrimar” che chiude il primo atto, condotto magnificamente con la Bacelli nel suolo di Sesto.
Straordinaria anche la Bayo, nella parte di Cleopatra. Qui la coloratura ha il suo campo vincente, soprattutto nell’ultima sua aria “Da tempeste il legno infranto”, ma grande emozione ha saputo dare anche nelle due stupende arie “Se pietà di me non senti” e “Piangerò la sorte mia”, due arie di straordinaria bellezza. Nelle altre ha sfoderato la vivacità e la malizia proprie del personaggio, come nelle belle arie “Non disperar chissà” o “Vi adoro pupille”, l’aria del Parnaso
Nel ruolo di Sesto oltre a quello stupendo duetto che chiude il primo atto, mi è piaciuta molto l’aria dell’angue offeso, mentre la Santafè ha interpretato un Tolomeo più che crudele, direi discolo capriccioso.
In conclusione lo spettacolo mi è piaciuto, e mi ha dato anche momenti di intensa emozione, soprattutto nei passaggi che ho citato. Inoltre mi ha fatto capire meglio la logica del teatro barocco. E questo per me è un fatto positivo.