Il Wozzeck per la terza volta alla Scala
Ieri sera il terzo appuntamento scaligero: Il Wozzeck. E’ la terza volta in 10 anni che questo allestimento viene rappresentato alla Scala: nel 1997 con la direzione di Giuseppe Sinopoli, nel 2000 con le direzione di James Colon e ora con la direzione di Daniele Gatti. L’allestimento è sempre quello di Jürgen Flimm, con la scena di Erich Wonder, e i costumi di Florence von Gerkan. Nel cast i ruoli principali, quello di Wozzeck e quello di Marie, erano affidati rispettivamente a Georg Nigl e a Evelyn Herlitzius, entrambi cantanti da me prima d’ora mai ascoltati in ruoli impegnativi.
Sull’opera è stato detto molto in moltissime occasioni. Si tratta certamente di uno dei capolavori non solo della musica operistica novecentesca, ma direi in assoluto.
Nell’opera convivono diverse tematiche, che vanno dalla psicologia della solitudine, alla follia, alla critica sociale (noi povera gente, ripeterà spesso Wozzeck,), alla satira contro una cultura piccolo borghese (il Capitano) o contro una scienza inconcludente (il dottore); ma anche l’erotismo, la gelosia, la prepotenza dei comportamenti (il tamburmaggiore), l’elementare pensiero religioso che si esprime soprattutto nella speranza del perdono entrano a far parte della vicenda portata sulla scena.
Tutti questi temi si intrecciano per essere attraversati da un Wozzeck specchio e proiezione della miseria umana.
Il libretto è magistrale. Scritto da Berg condensando all’essenziale il dramma di Büchner, offre una drammaturgia asciutta che in quindici scene porta lo spettatore lungo la china discendente di un povero soldato, che nell’ambito di un giorno, vedendosi sottrarre l’unica ragione della sua vita, la donna che gli ha dato un figlio, viene afferrato dalla gelosia, che ben presto esplode in follia e ne fa un assassino suicida.
La musica traduce gli eventi del libretto in un linguaggio armonicamente e timbricamente ricchissimo; il canto è espresso in un declamato di forte impatto emotivo, e arriva, nella parte di Wozzeck, fino allo sprechgesang. La drammaturgia del libretto trova nell’espressione musicale il linguaggio perfetto.
L’allestimento di Jürgen Flimm si avvale di un’unica scena costituita da una parete concava color rosso mattone che delimita uno spazio all’interno del palcoscenico dove per lo più si svolgono gli eventi. Gli arredi scenici sono poverissimi. Dietro la parete si espande lo spazio esterno, che assumerà un ruolo importante soprattutto nelle ultime scene nelle quali la luce lunare azzurra, ma anche rossa, inonda gli ultimi momenti della follia omicida di Wozzeck. Il quadro complessivo che ne risulta è quello di una claustrofobia ossessiva.
In questo ambiente si muovono personaggi che sembrano agire realisticamente, ma che in realtà svolgono ruoli caratterizzanti i temi loro propri: a parte Wozzeck e Marie che sviluppano nell’opera il dramma di un’umanità misera e senza speranza, gli altri si muovono all’interno di un simbolismo reso esplicitamente da un mondo di comparse che ruota attorno agli interpreti affollando soprattutto gli intermezzi musicali: un popolo di borghesi con un falso cavallo formato da due uomini coperti da una sacca sormontata da una testa, e montato da una eterea fanciulla; una teoria di personaggi vestiti di nero, con tanto di cilindro, che si muovono in disciplinata fila indiana, come assistenti del dottore che prendono appunti, trasportano strumenti medici o vasi (di urina?); una schiera di soldati in divisa con cappellini come quelli che i bambini fanno con la carta ma che potrebbe essere una schiera di matti; mentre il matto, quello che alla fine della scena della balera stimola in Wozzeck l’idea del sangue e quindi del massacro di Marie, percorre un po’ tutta l’opera come baby sitter (o forse nonno) del bambino.
L’erotismo fa la sua comparsa in modo prorompente nell’ultima scena del primo atto, con la seduzione e quindi l’amplesso assai realisticamente espresso fra Marie e il Tamburmaggiore, e poi, successivamente si ripropone nelle due scene della balera dove coppie di ballerini oscillano fra la danza, le audaci carezze, e la mimica del rapporto amoroso.
Tutto questo muoversi di protagonisti e comparse configura un ambiente realistico nella espressione dei sentimenti ma tendente al burattinesco negli aspetti visuali. C’è un rapporto diretto con la musica: anzi, l’abilità registica di Flimm e il suo accordo con Gatti fanno in modo che le movenze dei personaggi e delle comparse descrivano in modo convincente le dinamiche, i timbri, le disarmonie dell’orchestra e la declamazione del canto, facendo così che le due componenti del linguaggio dell’opera, quella auditiva-musicale e quella visiva-recitativa si completino reciprocamente realizzando una splendida unità all’opera stessa.
Come di grande interesse e di grande impatto emotivo è stata la parte registica, altrettanto di può dire della parte musicale. Gatti ha diretto l’orchestra in modo molto espressivo, sfruttando appieno i contrasti dinamici, le variazioni timbriche, le dissonanze, i frammenti tematici. Ironia e drammaticità, erotismo e follia, trovano nel suono orchestrale o nel canto e nella voce dei protagonisti, alternandosi nelle diverse situazioni nelle quali agiscono i diversi personaggi, la loro giustificazione sia da un punto di vista estetico, sia da un punto di vista dei contenuti. L’orchestra ha risposto molto bene alle sollecitazioni di Gatti, mentre i cantanti sulla scena hanno dato voce e corpo a personaggi in bilico fra il comportamento realistico e quello simbolistico. Personalmente ne ho apprezzato la loro capacità di immedesimazione nei personaggi, con una menzione speciale per i due protagonisti: la Herlitzius e Nigl, ai quali dal pubblico è stata tributato un applauso convinto, entusiasta e a parer mio, giustificato. Solo un loggionista, evidentemente un “vero intenditore” ha voluto punire non so quale “mancanza” di Nigl con un sonoro buu! Mah!
Un particolare che mi è piaciuto: alla fine dell’opera, con quel finale espresso dalla reiterazione di un frammento tematico, quasi a voler significare che tutto ciò che è stato narrato non è terminato, ma si prolunga ben oltre nella continuità della nostra consapevolezza, e si interrompe improvvisamente quasi che l’interruzione non fosse una vera e propria fine ma solo una sospensione, il pubblico (come anche il direttore) hanno osservato una manciata di secondi di silenzio, immedesimati nel clima dell’opera. Poi gli applausi sono stati fragorosi.