ARMIDE di Gluck alla Scala

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Ho letto con molto piacere la tua informativa su Armide alla Scala. 
Permettimi solo un appunto: accenti, apostrofi e segnali ortografici 
vari mi sono giunti in codice, per cui la lettura mi è stata piuttosto 
faticosa. Entro subito nel merito, poiché ho avuto anch’io il grande piacere di 
assistere alla rappresentazione. Sicuramente è stato il più grande 
avvenimento artistico italiano dell’anno.  Sono stato molto perplesso 
nel vedere tanto poco interesse. Forse, se non fosse stato per la 
serata inaugurale, ho la sensazione che Armide sarebbe passata quasi 
inosservata anche sulla stampa il day after.

È vero, Armide è una bellissima opera (non mi attirano i confronti o 
i paragoni) e la rappresentazione all’altezza. Sono stato incollato 
allo spettacolo per tutta la sua durata (e lo rivedrei ancora, anzi mi 
piacerebbe che fosse trasmesso in TV per poterlo registrare). In attesa dello spettacolo ero molto eccitato (ho cercato ovviamente 
di documentarmi, per quello che sono riuscito a trovare: scarsissimo 
materiale, anche su Internet). Ho ascoltato il CD della EMI, 
fortunatamente rimesso in vendita qualche settimana prima, e ho 
trovato un video amatoriale di una edizione fatta a Barcellona, con la 
Caballè nell’86: video in condizioni disastrose, ma sufficiente per 
avere un’idea.

Se ero emozionato prima, figurati dopo, con la voglia di parlarne e di 
sentirne parlare. Commenti di Isotta e di Zurleschi favorevoli, ma con 
riserva: certamente non interpretavano il mio entusiasmo. Sul 
programma di sala, un bellissimo, e da me condiviso, articolo di Paolo 
Gallarati. Commenti ne ho anche ricavati dalla registrazione 
radiofonica della serata di S. Ambrogio, con uno splendido intervento 
di Muti, che mi ha aiutato a capire, un intervento di Pizzi, sul quale 
tornerò, un altro intervento di Gallarati, che di fatto riassumeva 
l’articolo del programma di sala (interessante il suo richiamo a 
Rousseau), un intervento di Bortolotto, lontano le mille miglia dal 
mio entusiasmo (lo definirei un intervento “banalizzante”).

Quello che mi ha più colpito, dolorosamente colpito, è stato un 
articolo del Times, a firma di Rodney Milnes, che diceva 
sostanzialmente questo: il giornalista ha passato la prima metà dello 
spettacolo a cercare di capire quanto fosse stato speso, e l’altra 
metà a cercare di capire perché. Questa “meditazione”, associata al 
chiedersi come mai si avesse avuto il cattivo gusto di inaugurare la 
stagione della scala con Armide, opera che sarebbe andata bene per un 
seminario di fine settimana, ha occupato più di metà dell’articolo. 
L’altra metà è stata occupata a criticare (ovviamente) il regista e i 
cantanti, tutti tranne la Urmana (che avrebbe volentieri visto al 
posto dell’Antonacci) e Vinson Cole (che – osservava malignamente – è 
stato “naturalmente” (sic) l’unico ad essere contestato, mentre era 
tutta da apprezzare la nobiltà del suo canto). L’unico a salvarsi 
sarebbe stato Muti, perché (testuale) avrebbe ben diretto le danze, ma 
tuttavia avrebbe fatto l’errore di dirigere una grande orchestra 
romantica (sic!!!) quando l’opera di stile neoclassico (!?) richiedeva 
un’orchestra leggera (forse, impegnato com’era a fare i conti, non si 
è accorto che l’orchestra era proprio quella richiesta). 
Di questo articolo, ne hanno anche accennato i giornali italiani, 
senza fare commenti, almeno sulla rozzezza del suo contenuto.

Mi sembra di parlare troppo, ma questo è un argomento che mi sta molto 
a cuore. 
Nel merito dei contenuti dell’opera devo dire che sono d’accordo con 
quanto hai scritto. E’ bellissimo quel continuo fluire della musica 
che non si frena quasi mai in recitativi di tipo tradizionale, come 
non si slancia mai in arie di tipo belcantistico, ma ondeggia 
continuamente fra invenzioni melodiche emozionanti, spesso di durata 
breve o brevissima, e sottolineature drammatiche o di tensione 
dolorosa affidate insieme alle voci e agli strumenti dell’orchestra, 
così come si conviene  un vero teatro musicale. Splendidi i timbri 
orchestrali (a me sono piaciuti particolarmente gli interventi delle 
viole).

Un topico della discussione (prima e dopo la rappresentazione) è il 
genere storico cui appartenga Armide. 
Pizzi nei suoi interventi, come nella sua regia (per questo da molti 
criticata) sostiene che si tratti di una vera Tragedie-lyrique, quindi 
di un’opera barocca, e da questo punto di vista ha impostato la sua 
regia. Infatti (e qui credo che tu abbia commesso una imprecisione) i 
quadri che ricoprivano i siparietti e le quinte appartenevano al 
barocco, e per di più a quello italiano secentesco, in primis il Caravaggio. Nella scena del tentativo di uccisione, nel secondo atto, 
si vedeva molto bene Giuditta decapita Oloferne. Anche sulla scena ho 
notato riferimenti al Caravaggio (La Haine = La Gorgone; Il coro nel 
secondo atto, che compare e scompare dietro le siepi con il capo 
coperto da cespugli = Bacco con la testa adornata da foglie di vite), 
ma ovviamente, più che ha specifiche immagini di pittori, l’aspetto 
visivo, costumi compresi, si richiamava nettamente al barocco in senso 
generale (penso anche a Poussin, soprattutto nella prima scena, divisa 
in due, con a sinistra Armide in una specie di specola astronomica, e 
nel IV atto, la scena del palazzo sullo sfondo). Tutto questo modo di vedere di Pizzi, si riferisce chiaramente al testo, scritto un secolo 
prima, e destinato alla sontuosa corte di Luigi XIV.

La musica di Gluck, anche se perfettamente inserita nella metrica del 
linguaggio secentesco, è molto più leggera. Barocca, certo, non 
neoclassica, ma si tratta di un barocco leggero, vicino al rococò 
francese (per intenderci, Watteau, Fragonard, Boucher: la corte di 
Luigi XVI), ma forse ancora di più vicino al Tiepolo. Ho avuto 
occasione di vedere proprio qualche settimana prima della 
rappresentazione i quadri del Tiepolo sulla Gerusalemme Liberata 
(erano alla mostra di Venezia), e mi sono ritornati alla mente: quel Renaud adolescente, con espressione rapita, ancora al momento 
dell’abbandono; le posture dolorose di un’Armide orgogliosa, ma vinta 
nel suo orgoglio da un amore irresistibile e per lei vergognoso 
(“portatemi ai confini del mondo; nessuno mi deve vedere in questo 
stato”). La vergogna di Renaud, davanti allo specchio dura un attimo. 
Subito ritorna la sua commozione per la sofferenza della sua ex 
amante: “Trop malheureuse Armide, helas!” (penso sempre 
all’espressione di Rinaldo nel quadro dell’abbandono). E i colori 
chiari, luminosi, del Tiepolo, come bene si intonano alla musica di 
Gluck!

Per questo non sono d’accordo sulle critiche all’Antonacci e a Cole. 
Secondo me l’Antonacci ha saputo esprimere molto bene quel confuso 
groviglio di sentimenti che chiamerei l’amore doloroso. La Caballè 
certamente ha dato un’interpretazione più aggressiva, più “vincente” 
di Armide, e cos“ pure la Palmer (un po’ meno per la verità). Ma 
Armide è una perdente: il finale della scena dell’Odio lo dimostra, 
soprattutto nella musica. Quello della Antonacci è un canto 
tormentato, come tormentato è il suo personaggio. Nel suo canto ho 
sentito i sentimenti, le struggenze, i dubbi dolorosi, le paure di un 
grande impossibile e odiato amore. In sostanza, come ha più volte 
sottolineato Muti, Armide, in questa opera (anche se non nel libretto) 
è una donna più che una maga, e certamente non un’eroina. Diverso il 
tono di Cole, e della Urmana. Entrambi sono personaggi a “una 
dimensione”, e a una dimensione è stato il loro canto: quello di 
Renaud, rapito, soggiogato, ancor prima di addormentarsi sulla sponda 
del fiume (o della fontana secondo Pizzi), ancora prima 
dell’incantesimo (Rousseau, secondo Gallarati). Come eroe vittorioso, 
nell’opera non ha nulla da dire. Il suo falsetto, cantato con nobiltà 
ha ben raffigurato questo personaggio. E la Haine è un dio, quindi non 
ha sentimenti, se non quelli che impersona. A me è piaciuta molto. Io 
ho trovato il complesso molto bello, e molto convincente. Credo che 
una impostazione così coerente, dei personaggi, del loro modo di 
cantare, e del loro immedesimarsi in una musica estremamente 
espressiva, sia il più grande merito di Muti, che ha saputo molto bene 
dirigere (oltre l’orchestra) anche proprio questo grande teatro 
musicale. Se poi si vuole entrare nell’analisi delle voci, questo lo 
lascio fare agli esperti, ma francamente la cosa mi interessa molto 
meno.

Alla fine, si devono considerare valide le critiche fatte a Pizzi, per 
aver scelto una messa in scena, tutto sommato, non perfettamente 
consona alla musica? A mio parere no. Perché, al di là di tutte le 
considerazioni, diciamo, di carattere intellettualistico, quello che conta è la riuscita dello spettacolo. E io credo che questa ci sia 
stata proprio tutta. 

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