DIE FRAU OHNE SCHATTEN, alla Scala
È difficile pensare a questa rappresentazione senza sentire la necessità di trasferire agli altri l’entusiasmo che si è provato durante e alla fine dello spettacolo. Ma prima di parlare dello spettacolo, ho voglia di fare qualche considerazione sull’opera. Si tratta di un’opera complessa, forse neanche troppo ben conosciuta, perché poco rappresentata a causa delle difficoltà che presenta. In un’intervista alla RAI lo stesso Sinopoli ha affermato che sono pochi i direttori che attualmente l’hanno in repertorio, e quando ha provato a fare qualche nome si è fermato a quello di Sawallisch. E proprio Sawallisch ha diretto le precedente rappresentazione fatta alla Scala nel 1986, sempre con la messa in scena di Ponnelle, ripresa anche nell’attuale edizione.
Quest’opera è lo splendido risultato di uno straordinario sodalizio artistico. È difficile pensare a Hofmannsthal come a un librettista. In realtà è il poeta che ha offerto il dramma, le parole al musicista. E Strauss non ha musicato un libretto, ma ha dato la voce a sentimenti e passioni, quella voce che certamente Hofmannsthal sentiva dentro ci sé, ma che non era esprimibile con le sole parole. Fortunatamente una porta d’ingresso che ci permette di entrare in questo sodalizio l’abbiamo: l’epistolario che è intercorso fra i due grandi artisti: non solo una fonte insostituibile di notizie, ma anche testimonianza del come i capolavori nascevano e si sviluppavano nella ricerca comune.
Da un punto di vista drammaturgico, Die Frau ha una geometria
strabiliantemente chiara: al centro un quadrilatero con due coppie: una
alta e una bassa. In questo quadrilatero i rapporti interni si
intersecano obbedendo alle tensioni che provengono da una doppia
polarità: una rappresentata dal bene e dal male, che nell’opera sono
personificati da Keikobad e dalla nutrice, l’altra dal mondo degli
spiriti e dal mondo degli umani. E la musica si incarica di dar corpo a
questo quadrilatero, assegnando, attraverso un grandissimo numero di
temi, al loro intrecciarsi contrappuntistico, alle soluzioni armoniche,
agli effetti timbrici estremamente mutevoli e fonte di una iridescente
tavolozza coloristica, la caratterizzazione ai diversi personaggi
seguendone l’evoluzione e l’intrecciarsi dei rapporti. L’imperatore,
amante e cacciatore, come lo definisce lo stesso H., viene espresso da
una musica e una canto dispiegati, in qualche misura sontuosi.
L’imperatrice, la donna senz’ombra, diafana, tale da essere attraversata
dalla luce, ma fonte di luce essa stessa, viene descritta dalla musica
mediante temi aerei , “volatili”, costituiti da scale o arpeggi
ascendenti (stupenda all’inizio la musica che accompagna la sua
apparizione), finché la conoscenza dovuta alla “compassione” del dolore
di Barak non la trasformano in un essere umano (e questo le permetterà
di ottenere in premio l’ombra). In questa veste il suo canto diventa
teso, angosciato, doloroso. Barak, il tintore, dalla natura buona,
gentile, caritatevole, è espresso da un canto piano, tranquillo, se non
addirittura allegro, come nella scena con i piccoli mendicante cui dà
nutrimento e gioia (fra parentesi è l’unico personaggio che ha un nome,
quindi l’unico personaggio realmente umano). La moglie del tintore,
carattere nevrotico, insoddisfatto, frustrato, (ma infondo buono: un
aneddoto ci dice che Hofmannsthal abbia pensato al carattere delle
moglie di Strauss, la terribile madame Pauline) che la musica descrive
benissimo con ritmi e timbri che potremmo definire “bisbetici”. E la
musica, intrecciando motivi, e impastando timbri in maniere iridescente
e mutevole, ci accompagna nel corso delle interrelazioni fra i quattro
personaggi del quadrangolo centrale, ricordandoci tuttavia continuamente
l’esistenza di poli di tensione: Keikobad, che non compare mai nel corso
dell’opera, ma è sempre presente col suo tema minaccioso, suonato da
strumenti di timbro profondo: timpani, basso tuba, tromboni; oppure la
nutrice, con un canto estremamente contorto, sinuoso, insinuante, teso
all’ inganno, vero e proprio “Mefistofele” goethiano.
Anche dal punto di vista strutturale l’opera ha un equilibrio pressoché
perfetto: a un primo atto di carattere prevalentemente descrittivo,
segue un secondo atto di crescente tensione che porta al climax,
rappresentato dal grande temporale e dall’inondazione della casa del
tintore, e quindi un terzo atto, di scioglimento dell’intreccio, dove
gli errori dei protagonisti, i rapporti sbagliati vengono via via
riconosciuti fino alla felice conclusione.
Da un punto di vista del contenuto, si tratta di un’opera basata
fondamentalmente sul simbolismo: il rapporto fra umanità intesa nella
sua veste peggiore (egoismo, desiderio di evasione, etc.) e umanità
come dote, come qualità, come sensibilità, che consente appunto la
”compassione” e quindi la redenzione. Al centro del simbolismo sta
l’ombra, espressione della fertilità della donna, o meglio della sua
volontà di procreare, cioè di consentire l’arrivo nel mondo visibile
di quegli esseri che aspettano in un mondo sconosciuto di essere
chiamati fra noi: i bambini non nati (l’altro invisibile protagonista
dell’opera) caratterizzati da un tema che in fase discendente indica la
loro sofferenza per l’abbandono, e in fasce ascendente la gioia
dell’attesa che diverrà realtà.
Da un punto di vista delle radici culturali, l’opera sicuramente nasce
nell’atmosfera di quello straordinario periodo dell’arte viennese che va
sotto il nome di Secessione. E Hofmannsthal stesso è uno scrittore che
collabora con la rivista dei secessionisti Ver Sacrum, scrivendo poesie.
In questo clima si comprende meglio il significato del simbolismo che
permea tutta l’opera.
E proprio nello stile della Secessione, che non esitava a cercare le
radici delle proprie creazioni, in tutto ciò che potesse essere
funzionale ad un discorso creativo, nella Frau si manifestano richiami a
Flauto magico (H. e S. sentivano molto il fascino di Mozart, come appare
esplicitamente nelle loro corrispondenza): le due coppie, le prove che
devono sostenere per raggiungere la redenzione, lo scontro fra bene e
male in un mondo superiore che si riflette nel mondo inferiore; richiami
a Goethe e al secondo Faust: la nutrice quale Mefistofele, il mondo
sotterraneo delle Madri, etc. ; richiami a Wagner: non solo per una
musica fatta di intrecci ricchissimi di leitmotiv, ma anche per episodi
ben identificabili: il volo della Nutrice e dell’imperatrice verso la
terra degli uomini, interpretato da una musica descrittiva, non può non
far venire in mente la discesa di Loge e Wotan nel mondo dei Nibelunghi.
Il processo della “compassione” da parte dell’imperatrice delle pene di
Barak, da lei stessa procurategli, attraverso la quale ella si redime,
non può ricordare il Parsifal. Ma anche una certa ritualità, come le
voci dall’alto, comuni ad entrambe le opere nell’atto della redenzione.
Infine non è possibile non riferirci ad un’altra chiave di lettura:
quella freudiana, evidente non solo nel simbolismo di tutta l’opera, ma
in modo particolare nell’episodio del sogno dell’imperatrice, e del
processo attraverso il quale ella raggiunge la “compassione”, oppure
tutte le arti che la Nutrice mette in opera per richiamare dal profondo
della moglie del tintore l’incontro con il giovinetto, e il turbamento
da lei sperimentato.
Per concludere sull’opera, un cenno alla musica di Strauss: ne sono
state fatte analisi attente, dal punto di vista del trattamento dei
motivi, dal punto di vista dell’uso delle armonie, etc. Io non posso
entrare nel merito, non ho sufficienti conoscenze. Posso solo dire che
la musica qui è un misto di descrittivo esteriore e di espressivo di
sentimenti, di emozioni, oltre a riferimenti alle minacce oscure che
gravano sui personaggi, o alle imitazioni onomatopeiche (il suono del
falco, un ostinato che preannuncia in più di un’occasione la
pietrificazione dell’imperatore, gli arpeggi che vedono sgorgare o
ritirarsi l’acqua della vita). Insomma una musica che varia da una
estrema cupezza, al fragore degli elementi scatenati, alla iridescenza
timbrica e armonica che accompagna le scene del soprannaturale, al canto
disteso dell’amore.
Tutto queste sono le cifre di un capolavoro assoluto, che tiene incollato lo spettatore (me medesimo) alla poltrona, in preda ad un fascino meraviglioso che si vorrebbe non finisse mai.