LA FORZA DEL DESTINO, alla Scala

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Buon ultimo del NG ho potuto finalmente vedere anch’io La forza del destino alla Scala. Dirò subito che lo spettacolo mi è piaciuto molto. Ma prima vorrei fare qualche considerazione sull’opera.

Personalmente la trovo un’opera non esaltante: drammaturgicamente è squilibrata. L’insegnamento di Aristotele, per cui un dramma teatrale deve aver unità di tempo e di luogo, non è una frase buttata lì tanto per dare una regola. È una esigenza della drammaturgia. La diluizione nel tempo porta ad annacquare le emozioni. I personaggi offuscano la loro psicologia (fatta appunto delle emozioni che in teatro vengono espresse, e che si riferiscono a fatti ben precisi che hanno determinato le emozioni) e si riducono a portatori sterili di una istanza.

Nella Forza del destino, diluita nella spazio di 18 anni o giù di lì, e che si svolge in luoghi lontanissimi, senza alcun legame fra loro, i personaggi principali cadono nella trappola. Carlo è un personaggio monocromo, che pensa le stesse cose, vuole le stesse cose, persegue le stesse cose, indipendentemente da ciò che gli accade intorno, per tutti i lunghi 18 anni. Non è un personaggio, è un robot programmato che compie la sua azione programmata anche all’ultimo istante della sua vita. Anche Alvaro non manifesta conflitti (se non un accenno all’inizio del primo atto, quando Leonora esita un attimo a seguirlo). Poi insegue un fantasma (non importa se vivo o morto, le sue reazioni non cambiano), e tutto il suo personaggio gira attorno a quello senza un minimo tentativo di uscire dalla spirale. La romanza che dovrebbe esprimere i suoi conflitti capita lì, all’inizio del terzo atto, senza che ci sia una motivazione, mi pare 5 anni dopo eventi che non conosciamo e che ci saranno spiegati in un qualche modo in seguito. La stessa Leonora ci si presenta in due occasioni: nel primo atto e nel secondo, con due diverse disposizioni d’animo (il conflitto fra l’amore per Alvaro e quello per il padre (una), e il desiderio di espiazione l’altra), ma che rimangono rigide, e non riescono ad essere risolte in una finale affrettato che la vede uccisa pochi istanti dopo l’incontro (finalmente!) con Alvaro. Tutto questo per 18 anni, che sembrano non essere mai trascorsi per quanto concerne l’economia del dramma. I personaggi si incontrano in ogni occasione, sempre portatori delle stesse identiche emozioni.

Uno dei tanti esempi dell’inconsistenza drammaturgica (anche a livello musicale) è la ripetizione ravvicinata nell’opera, ma distante nel tempo, del duetto-scontro fra Alvaro e Carlo prima di ciascun duello. Il tono del duetto è lo stesso, le frasi che si dicono quasi sovrapponibili: uno vuole morto l’avversario perché ha macchiato il suo onore, l’altro proclama la sua innocenza, etc. Questi due duetti si verificano alla fine del terzo atto e circa a metà del quarto. Direi che è una ripetizione drammaturgicamente non giustificabile. Non parliamo delle violenze fatte al tempo drammaturgico, come il tempo intercorrente fra la ferita e la guarigione di Alvaro, etc.

Mi si obietterà: ma tutte le opere hanno delle incongruenze, quello che conta è la musica. La mia risposta è no. Le incongruenze delle opere in genere sono incongruenze dovute alle difficoltà nella ricostruzione una determinata azione, ma l’azione c’è, ha una sua logica, o come si dice, un suo inizio, un suo sviluppo, e una sua fine. E la musica è lì per far superare le incongruenze della costruzione del testo. E lo può fare perché comunque c’è una logica: l’inizio, lo svolgimento, il culmine (o climax) e la fine o epilogo. Nella Forza del destino, mancando questa logica, anche la musica ne risente. Vi sono certamente delle belle arie, delle belle melodie, ma la mia sensazione è che esse si limitano a fare emergere quella che è l’emozione di quel momento, senza entrare nel merito dell’economia della vicenda nel suo complesso. Penso alla romanza del soprano nel primo atto, al bellissimo coro della Vergine degli Angeli, alla romanza finale del soprano, al duetto “della barella”.Ma che cosa lega questi pur bellissimi episodi? Il coro. Il coro che è totalmente estraneo alla vicenda. Che è una protagonista che viaggia per proprio conto. E dal coro emergono i personaggi minori, che sono a volte anche splendidamente caratterizzati, come Preziosilla, come Trabucco (Melitone mi entusiasma molto meno, e trovo un po’ cervellotico dire, come fanno alcuni, che è una specie di premonizione di Falstaff. Per carità!!), come le varie sezioni del coro (i soldati, i poveri, i venditori, i contadini, etc.). C’è chi dice che Verdi abbia appunto voluto scavare in questo ambiente per rinnovare il modo di fare opera. Può darsi che sia così. Ma l’opera, in quanto unità strutturale drammatica ne ha sofferto molto, e la riuscita caratterizzazione di personaggi minori non è sufficiente per dare una spina dorsale al lavoro.

Dal punto di vista musicale, poi ci sono delle cose bellissime, ma anche delle cose piuttosto banali. Si pensi al duetto dell’amicizia virile fra Alvaro e Carlo: una amicizia destinata a durare poco, è vero. Ma quale differenza con la musica del duetto dell’amicizia virile fra Carlo e Posa nel Don Carlos! Nella Forza è un arietta con timbro marziale e nulla più. Nel Don Carlos una penetrazione nel sentimento che non lascia spazio ad altro. L’amicizia virile come emozione coinvolgente fino alla morte… Sentimento quasi più intenso dell’amore perché privo di condizionamenti.

Lo spettacolo. Ho detto che mi è piaciuto. De Ana è un grande regista, che sa trovare, pur in una visione tradizionale, una veste nuova, moderna. Questo non solo per scenografie molto belle e piacevoli, che si richiamano a quadri del sei-settecento barocco spagnolo: La casa ricca ma in decadenza del Marchese di Calatrava, resa molto bene, finalmente senza il fatidico “verone” aperto; le processioni dei frati che di volta in volta ricordano El Greco, oppure in altre occasioni Goya. E ancora a Goya si rifà la scena della battaglia. Murillo potrebbe essere il modello della scena dell’osteria, e così via. Scene molto belle, almeno per me, in cui domina l’horror vacui tipico del mondo barocco.

Ma anche dal punto di vista proprio dell’impianto registico occorre essere stupiti da come De Ana sia riuscito a legare fra loro i diversi episodi, usando accortamente il coro, i cambi di scena a vista o in intervalli brevissimi. Ho in mente l’edizione del Metropolitan diretta da Levine nel 1982, pedissequamente legata alle didascalie con perfezione hollywoodiana, ma dove l’opera manifesta in modo palese tutte le sue sfilacciature. Qui no. De Ana è riuscito a stringere, per quanto possibile, il tutto in una unità, cui indubbiamente hanno contribuito il sapore barocco delle scene, ma anche, appunto, certe scelte che hanno permesso al coro (quello che canta, ma anche quello muto delle comparse e dei mimi) di fungere da tessuto connettivo efficace.

La direzione orchestrale: intensa, lucida. Senza particolari trovate, ma molto ben coerente con i sentimenti che via via rappresentavano il filo conduttore del momento. A partire dalla sinfonia, dove nelle frasi ascendenti degli archi bassi si avverte il fremito del mistero rappresentato dal destino, o l’ansia di redenzione dei temi suonati dai violini, allo squillo perentorio degli accordi dei fiati che indicano la irreversibilità delle scelte del fato, etc. Ma anche nei vari episodi dell’opera la chiarezza di un’orchestra che si fonde perfettamente con i numerosi e importanti interventi del coro, oppure nel commento di passi di particolare significato: penso, ad esempio, allo stridulo accompagnamento dei legni al duetto della “barella” (per me una delle cose più belle dell’opera), che nella solennità del momento, nella fiducia di Alvaro che sa di poter morire tranquillo per i giuramenti dell’amico, introducono un motivo sarcastico che lascia presagire come tutto questo prenderà una strada molto differente.

E ora dirò qualche cosa anch’io sulle voci. Quello che posso dire è che le voci, bene o male hanno risposto alle esigenze del ruolo che ricoprivano. Nella mia edizione c’era ancora la Lukacs. Pur non avendo la voce piena, drammatica che si potrebbe immaginare per un ruolo come quello, ma una voce anche troppo sottile, ha comunque ricoperto con dignità il suo ruolo. Le incertezze dell’intonazione, che anch’io ho notato alla prima, qui non ci sono state. Cura ha una bella voce, e la fa valere. Solo che ho la sensazione (di più alla prima, un po’ meno ieri sera) che affronti con troppo “eroismo” il ruolo di Alvaro. Questo vale soprattutto nella romanza “La vita è inferno all’infelice“, dove il contenuto malinconico è accorato del testo era abbastanza in contrasto col timbro aggressivo della sua voce. Nulla da dire su Nucci, Carlo oltretutto già ampiamente sperimentato in diverse altre edizioni dell’opera, e ancor meno su gli altri. Mi spiace solo che il Fra Melitone fosse stato interpretato da Di Candia anziché da Antoniozzi. Tuttavia Di Candia ha svolto bene il suo ruolo, evitando di cadere nella trappola del macchiettismo, e quindi, credo, interpretando correttamente le indicazioni del regista. Ultimo grande protagonista il coro. È stato fantastico, anche nella ricerca degli effetti della stereofonia, con la opportuna distribuzione delle voci sul palcoscenico.

Che dire d’altro? Che indubbiamente questo è uno spettacolo che va “visto” oltre che ascoltato. E il vederlo mi ha dato piacere, sicuramente molto di più che non il semplice ascolto radiofonico. Posso capire giudizi negativi dati da chi ha ascoltato la prima solo per radio. Posso capirli, ma non li condivido, non tanto per il merito (sì certo, anche per quello), ma soprattutto perché sono giudizi che sono stati dati su uno spezzone dello spettacolo, quello sonoro, che preso a sé può anche trarre in inganno. E di quelli che l’hanno visto e ne hanno parlato male? beh, questa è una questione di gusti, o anche una questione di che cosa si cerca nell’opera. Per quanto mi concerne, e per come ho cercato di spiegare, personalmente, quello che cercavo: bellezza coordinata degli occhi e dell’orecchio, senso di meraviglia, accompagnamento della mente lungo una strada di gradevole compagnia, in questa opera l’ho trovato. E per questo dico che mi è piaciuta e sono molto contento di averla vista.

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