L’impiccagione di Saddam Hussein
Questa mattina Saddam Hussein è stato impiccato a Bagdad come esecuzione della condanna a morte inflittagli il 5 novembre 2006 dal tribunale da cui è stato processato per la strage di 148 iraqeni sciti nel villaggio di Dujail nel luglio 1982 e successivamente anche per il massacro di 180.000 iraqeni curdi ad Anfal tra il 1987-88, e confermata dalla corte di appello il 26 dicembre.
Saddam Hussein è stato un dittatore. Un dittatore feroce quanto lo sono stati altri dittatori prosperati in questo secolo appena trascorso un po’ dovunque nel mondo, sotto l’egida di una o dell’altra delle grandi potenze. Di questi dittatori alcuni sono stati uccisi direttamente dopo processi sommari (Ceausescu in Romania) altri sono fuggiti chiedendo asilo in paesi compiacenti nelle cui banche erano stati accumulati ingenti tesori frutto della loro attività di dittatori (la maggior parte), altri sono stati assassinati (come Sadat in Egitto), altri sono ancora al potere (Fidel castro a Cuba, Gheddafi in Libia, Mubarak in Egitto, etc), altri sono tornati in patria dove hanno vissuto rispettati fino alla loro morte naturale (Pinochet in Cile), altri sono stati condannati a morte e giustiziati (Saddam Hussein).
La condanna a morte di Saddam Hussein e soprattutto la sua esecuzione ha sollevato proteste in gran parte del mondo, soprattutto in Europa e ancor di più in Italia. La pena di morte, nella concezione europea e italiana in particolare, è considerata da tempo un atto di barbarie, un omicidio di stato, una vendetta. Libri, film, opere di vario genere hanno impegnato artisti, uomini di cultura per illustrare l’orrore di questa ritualità oscena, che non è giustificabile come punizione nemmeno per il più orribile dei delitti.
Purtroppo questa civile considerazione, che ha portato all’abolizione della pena di morte in tutti i paesi europei, non viene accolta altrove: gli USA, la Cina, e una miriade di altri paesi, fra cui tutti i paesi arabi, continuano ad avere la pena di morte nelle loro istituzioni, senza che tuttavia questo abbia diminuito in quei paesi la frequenza e la gravità dei crimini capitali per i quali verrebbe comminata la pena di morte.
Manifestazioni, prese di posizione di varia natura sono state fatte in Italia e nei vari paesi d’Europa in numerose occasioni di condanne a morte, sia per delitti cosiddetti comuni, sia per vendette di tipo politico. Questa di Saddam Hussein è l’ultima in ordine di tempo. In questa occasione i carnefici hanno voluto sottolineare l’aspetto di vendetta dell’esecuzione, trasmettendola in TV; e la rispondenza non è mancata, se diamo retta alle manifestazioni di festa che fotografie e filmati hanno documentato fra gli sciti iraqeni e non solo fra loro.
Ciò rende già di per sé il significato di orrore di questa condanna: vendetta eseguita con le forme della legalità e con un rituale macabro non meno di quello celebrato dai tagliagola di Al Qaeda e soci.
Ma ciò che sconvolge ancora di più è la constatazione, da una miriade di segnali, che il processo e la sua conclusione siano stati influenzati dalla invadente presenza, se non addirittura dalla interferenza, del governo americano. Qui la vendetta non c’entra. Saddam Hussein non è il responsabile degli attentati dell’11 settembre. Qui quello che conta è la volontà di potenza, l’arroganza della superpotenza i cui interessi non possono essere messi in discussione (e chi lo fa paga, come nelle migliori tradizioni della mafia), e forse anche il desiderio di Bush di mostrare al popolo americano che in Iraq si sta facendo sul serio, si sta procedendo nel processo di esportazione della democrazia (l’esecuzione del Rais definita “pietra miliare” di questo processo), e quindi ricuperare un po’ di quel gradimento che negli ultimi sondaggi sembra essere depresso come il peggiore dei mal di testa.
Come si potrebbe non pensare alla recente morte dell’ex dittatore cileno Pinochet, avvenuta nel suo letto a 90 anni, senza che sia mai stata pronunciata una condanna per i suoi crimini, e per il quale sono stati fatti funerali solenni, con gli onori militari? Sarebbe interessante sapere che cosa ne pensano coloro che accusano le proteste per la condanna a morte di Saddam Hussein di essere “a senso unico”.
Particolarmente agghiacciante è quindi l’articolo sul Corriere della sera di venerdì 29 dicembre di Magdi Allam dal titolo “Se l’Italia è unita per la vita di Saddam”. Nel leggerlo mi si è gelato il sangue nelle vene.
Si mette a confronto (?!) la protesta contro la condanna a morte di Saddam Hussein con le migliaia di condanne a morte in tutte le parti del mondo (USA e Cina comprese) contro le quali non si sarebbe fatto nulla, nessuna mobilitazione, nessuna protesta specifica, implicitamente sostenendo che di fatto gli italiani siano dalla parte dell’Islam sanguinario, o comunque non sufficientemente contro, e facendo pensare quindi che la contrarietà alla condanna a morte di Saddam Hussein sia solo un pretesto. E poi, peggio del peggio, si rafforza questa tesi chiamando in causa le opinioni emerse a commento della tragedia di Welby!!!
E tutto questo perché? Per umanitarismo? Per difesa della sacralità della vita? No, ovviamente, perché non si sono mai viste, né si vedono manifestazione contro i delitti dei tagliagole islamici, dei kamikaze, delle autobombe, etc. E nella tragedia di Welby, sostenendo il suo diritto a concludere una vita che per lui era una insopportabile prigione, abbiamo dimostrato di avere la cultura della morte, più che quella della vita.
Quindi, la nostra contrarietà all’impiccagione di Saddam Hussein sarebbe solo per interesse!!!
Magdi Allam continua a dire di amare l’Italia, anche più degli italiani. Ho la sensazione che ciò che lui ama si chiami Stati Uniti d’America. Caro Magdi, forse non lo sai, ma l’Italia è la patria di Cesare Beccaria, non di George Bush.