LA GUERRA CHE NON SI PUÒ VINCERE, di David Grossman
Si tratta di una serie di articoli che Grossman ha scritto per diversi giornali dal 1993 al 2002.
L’argomento è quello che sta più a cuore al grande scrittore israeliano: la possibilità di un futuro per i due popoli che abitano la terra di Palestina: il popolo israeliano e il popolo palestinese; futuro che le cronache sanguinose che si succedono dal 1948, anno della proclamazione di indipendenza della stato di Israele, allontanano sempre più, decretandone l’aleatorietà se non l’impossibilità.
Il titolo inglese è molto esplicativo: Death As a Way of Life, la morte come modo di vivere. Ed è proprio ciò che accade in terra di Palestina. Ogni attentato terroristico, ogni rappresaglia sanguinosa allontanano l’unico futuro possibile, quello di una pacifica convivenza fra i due popoli.
Il titolo italiano si rifà al contenuto di un articolo, “La guerra che non si può vincere” del giugno 2002. Grossman riferisce di un convegno londinese organizzato dal quotidiano The Guardian. Sostenitori della pace israeliani e palestinesi si sono incontrati con i leader della lotta nord-irlandese. Forse da questo confronto potrebbero scaturire nuove idee per il conseguimento della pace. Riporto il periodo cruciale nella sua testualità:
«Ad un certo punto uno degli israeliani ha domandato [agli irlandesi]: come avete fatto? Come vi siete lasciati alle spalle secoli di violenza e di odio, e come siete riusciti a imboccare la via del dialogo? Qual’è stato il momento in cui avete capito che non c’era altra scelta? David Ervine, uno dei leader protestanti catturato a suo tempo con una bomba in mano, ha guardato Martin McGuiness, uno dei dirigenti cattolici, l’uomo contro cui aveva combattuto, l’acerrimo nemico, e ha detto: “C’è stato un momento in cui ho semplicemente capito che questa guerra non poteva essere vinta”. McGuiness ha annuito in segno di approvazione.»
Ecco in questo periodo è condensata l’essenza di questo libro: non esistono alternative a un futuro di pacifica convivenza fra i due popoli. Prima questa verità verrà capita sia dal governo e dalla società civile israeliana, sia dall’Autorità e dal popolo palestinese, prima si potrà realizzare questo futuro, e prima si potrà interrompere la catena di morte (“La morte come modo di vivere”, come appunto recita il titolo inglese) che oggi domina il panorama.
Grossman è un israeliano che ama infinitamente il suo paese. È una persona dolcissima, ricca di sentimenti che lo legano alla famiglia, ai figli in particolare, e forse, tramite l’amore per i figli, a tutti i bambini, cui ha dedicato una fiorente letteratura.
Israele è la sua patria, e vorrebbe che fosse una patria sicura, dove una parte del popolo ebreo, la parte che ha scelto l’immigrazione in terra di Palestina, possa vivere e prosperare senza dover chiedere il permesso a chicchesia, e governandosi secondo regole democratiche.
Ma, proprio perché ama la sua terra e il suo popolo, non può esimersi da critiche quando il suo popolo, anziché cercare di ottenere un futuro di pace e prosperità, rispettando le esigenze del vicino popolo palestinese, si comporta con l’arroganza di chi è militarmente più forte e può permettersi (ma fino a un certo punto, come gli eventi dimostrano) di dettar legge.
Oggetto delle sue critiche sono i comportamenti dei governi israeliani e di una parte della società civile che non tengono conto delle sofferenze del popolo palestinese. Per esempio, in merito agli accordi di Oslo, e ai negoziati successivi, tutti terminati in clamorosi fallimenti, certamente riconosce la responsabilità di Arafat e di una politica palestinese irrigidita su posizioni inaccettabili per Israele, come ad esempio, il riconoscimento del “diritto al ritorno” dei profughi. È evidente che un simile diritto metterebbe in discussione la natura ebraica della stato di Israele, per ora giustamente non toccabile. Ma d’altra parte Grossman non lesina critiche neppure agli Israeliani, che si sono dimostrati molto parchi in concessioni che riguardano la realtà stessa di uno stato Palestinese. Testualmente Grossman legge in questo modo le concessioni israeliane: «Chiunque avesse dato ascolto in quegli anni alle lamentele e agli avvertimenti dei palestinesi in merito agli accordi di Oslo e alla realtà che ne sarebbe scaturita – uno stato palestinese minuscolo, frammentato, dominato da una massiccia presenza israeliana e sottomesso alle rigorose necessità di difesa d’Israele – avrebbe potuto intuire che qualche cosa non andava.» (Due anni di intifada, settembre 2002) Ma, afferma Grossman, Israele non solo non ha avuto la sensibilità necessaria, ma ha aumentato gli insediamenti in terra di Cisgiordania e non ha lesinato umiliazioni ai suoi potenziali futuri vicini.
A questo punto, Grossman non può fare a meno di capire, ma anche di disapprovare, le risposte terroristiche dei palestinesi, che a loro volta richiamano violenza di rappresaglia, e via ammazzando.
Per concludere: Grossman è ottimista o pessimista? Da una parte il suo pessimismo sorge dalla constatazione che situazioni di insicurezza come quelle perpetrate dagli attentati con l’elevato numero di civili innocenti uccisi, tendono a radicare nello stato d’animo della popolazione israeliana l’illusione che la sicurezza possa essere trovata in un uso sistematico della forza; quindi dalla constatazione di una deriva della società israeliana verso l’esaltazione dell’aggressività, della violenza, del razzismo e verso una riduzione degli spazi di democrazia. Dall’altra il pessimismo riguarda l’evoluzione della società palestinese verso processi ancor più pericolosi, quelli di una società che manda i suoi giovani a suicidarsi e a uccidere civili innocenti. «Nell’attimo in cui la possibilità di commettere un’azione così terribile prende forma nella coscienza di un popolo, è destinata a rimanervi per sempre. Non c’è da stupirsi se i palestinesi moderati sono spaventati quanto gli israeliani da questo fenomeno.» (Lo stato delle cose, marzo 2002).
Ma non manca neppure una volontà di ottimismo. Se non altro la speranza che venga alla luce, prima o poi, ma forse troppo poi, il concetto che questa è una guerra che non si può vincere.
Nel libro vi sono due aspetti che ignoravo e che mi hanno interessato.
Il primo è il rapporto fra gli ebrei e i tedeschi. Si tratta di un rapporto complesso con moltissime sfumature: sensi di colpa irrisolti da una parte, sentimenti di revanscismo dall’altra. Ma di fatto una vera e propria conciliazione non è ancora avvenuta. E Grossman fa profonde e interessanti riflessioni nell’articolo I piccioni viaggiatori della Shoah del gennaio 1995, scritto per il quotidiano tedesco Die Zeit. La strada che egli indica, perché la riconciliazione possa avvenire in termini non ambigui, è che prima di tutto occorra che i due popoli, il tedesco e l’ebraico, aprano il discorso al proprio interno. «Cinquant’anni sono pochi perché la ferita si rimargini, è troppo presto per tirare le somme e non c’è urgenza di parlare di una “riconciliazione”. Dopotutto oggi non c’è ostilità fra israeliani e tedeschi. Al contrario: c’è una varietà di rapporti in quasi ogni campo […] Ma il quel tragico punto di contatto la ferita è ancora aperta. nessuno è moralmente autorizzato a coprirla con una falsa benda di cerimonie e di dichiarazioni. nessuno ha il diritto di decidere “la data d’inizio del processo di cicatrizzazione”, e quindi la fine della responsabilità. La strada da percorrere è ancora lunga»
Il secondo è il rapporto fra i sopravvissuti all’olocausto e gli ebrei israeliani, i Sabra. Il rapporto, ben lungi dall’essere di comprensione e sensibilità, si è manifestato spesso in arrogante insensibilità con accuse «alle vittime dell’Olocausto di essere andate a morire “come un gregge al macello”, senza cercare di difendersi; o con la crudeltà con cui hanno trattato i sopravvissuti spingendoli a tacere, a nascondersi, a vergognarsi delle vessazioni subite, a vergognarsi addirittura di essersi salvati.» (I piccioni viaggiatori della Shoah, gennaio 1995)