Cavalleria Rusticana e Pagliacci alla Scala. Considerazioni.
La rappresentazione del 18 cui ho assistito avrebbe dovuto essere la seconda, ma di fatto è stata la prima, dato che, credo per uno sciopero, la rappresentazione del 16 è saltata. Questa precisazione non l’ho fatta a caso: non sono molto interessato ad assistere alla prima, alla seconda o anche all’ultima rappresentazione della serie (quella in cui ho assistito alla Walkiria è stata la penultima rappresentazione e mi è piaciuta immensamente). La precisazione serve a spiegare la mia costernazione allo scatenarsi di booo (soprattutto provenienti dal loggione) cui ho assistito alla fine dei Pagliacci e, un po’ meno, alla fine della Cavalleria. Sono cose alle quali che decine e decine di registrazioni radiofoniche in diretta delle prima scaligere mi avevano assuefatto, ma alle quali non avevo mai assistito di persona. Mi sono chiesto il perché, e come me se lo sono chiesti in molti, almeno fra quelli seduti ai posti vicino al mio. Poi la risposta mi è venuta ripensando a certi post di frequentatori di IAMC, che si definiscono “intenditori”. Chiaro: la risposta ai nostri perché era semplicissima: non ci intendiamo di musica.
Comunque, anche se non mi intendo di musica, a me la musica piace, e molto; e mi piace particolarmente il teatro musicale. Così vado all’opera anch’io, con buona pace di chi pensa che i non intenditori invadono i teatri e impediscono ai veri intenditori di recarvicisi (come succede a qualcuno).
Allora veniamo a questa rappresentazione. Premetto che non sono un fanatico del verismo e che queste due opere, Cavalleria Rusticana e Pagliacci, pur avendone sentito molte volte la musica, non le avevo mai viste a teatro. Esiste un film, molto diffuso, diretto da Prêtre con la regia di Zeffirelli. Il protagonista maschile è Placido Domingo in entrambe le opere, le protagoniste femminili sono Teresa Stratas nei Pagliacci e Elena Obrazova nella Cavalleria. Il lato positivo di questo film (che credo sia tratto da una rappresentazione teatrale) è quello di sposare una regia straordinariamente realistica con due opere profondamente veriste. In Pagliacci Zeffirelli ricostruisce un villaggio calabrese, nella Cavalleria un villaggio siciliano; in entrambi i casi l’ambientazione, il coro e gli stessi protagonisti raffigurano un po’ la popolazione di quelle terre, nei costumi, nelle movenze, nel modo di comportarsi, etc. Da questo punto di vista direi che Zeffirelli ha saputo dare il meglio di sé.
La rappresentazione di martedì sera ha avuto tutta un’altra logica. Qui la direzione teatrale è stata di Mario Martone, regista napoletano, noto per alcuni suoi film, ma attivo anche in campo operistico: per esempio, ricordo un Così fan tutte a Ferrara nel 2000 diretto da Claudio Abbado. Personalmente ritengo Martone un regista con idee, e questa rappresentazione scaligera me l’ha confermato.
Pagliacci: ambientazione moderna (tanto per dire, a un certo punto compare una BMW con la quale arriva sulla scena Silvio), ma in un ambiente molto degradato: un campo, quasi una discarica abusiva, alla periferia della città sotto un viadotto autostradale. Un camper malandato è l’abitazione di Canio e Nedda (mi è parsa una citazione di ambiente zingaresco, tipo “campi Rom”, confermata, almeno mi è sembrato, dal costume di Canio e soprattutto da quello di Nedda). La scena si svolge in parte sul palcoscenico e in parte in platea dando in questo modo un collegamento decisamente veristico. Per esempio Silvio, durante il teatrino del secondo atto era seduto in una poltrone in prima fila, accanto a un amico, col quale applaudiva alle gag della commediola; altre comparse occupavano altri posti sempre in platea; Canio, se la prende con uno spettatore strattonandolo e poi tendendogli la mano (credo che fosse uno spettatore vero, non una comparsa, in un palco di quelli vicini al palcoscenico), e così via. La commediola che si svolge nel secondo atto non si dispone in modo da simulare un ambiente teatrale. I protagonisti agiscono su tutto il palcoscenico e anche fuori, in platea, mentre il coro è ammassato in grande confusione su un lato. Nel finale questo intreccio fra palcoscenico e platea accentua in modo molto efficace la drammaticità della situazione.
Il protagonista maschile, Canio è José Cura. È stato molto buato alla fine dell’opera, e credo, per la sua voce, certamente non limpida, e tantomeno cristallina, ma un po’ appannata e in sostanza abbastanza deteriorata. Ma mi sento di ribadirlo: Cura è un vero animale da palcoscenico. Sia nelle movenze del corpo, che nell’uso della voce, secondo me è stato un Canio molto credibile, ma forse non propriamente veristico. In lui avvertivo quasi la personificazione della gelosia, della disperazione, del desiderio di vendetta che sono appunto le caratteristiche principali del personaggio. Oserei dire che anche la sua voce così offuscata ha contribuito a dare questa valenza più generale ai sentimenti prorompenti dal canto. Ho trovato del tutto ingiusti i booo cui è stato fatto segno. Modesto è stato l’apporto della protagonista femminile, Oksana Dyka, che non ha offerto una grande personalità, al contrario mi è sembrata abbastanza piatta, senza sfoderare una voce particolarmente avvincente. Il Tonio di Maestri ha esibito una voce molto potente, che perforava il velo dell’orchestra con grande facilità, ma che si è dimostrata quasi completamente priva di convincenti inflessioni, come d’altronde priva di espressione è stata anche la sua recitazione.
La direzione orchestrale di Harding secondo me è stata buona, anche se so che si tratta di un direttore discussissimo e, a Milano, particolarmente inviso ai loggionisti e non solo. I booo alla fine non si sono certo sprecati e hanno compreso un po’ tutti, in modo particolare direttore, José Cura e la Dyka. Non sono mancati, occorre dirlo, tuttavia anche spettatori che hanno gradito lo spettacolo e che si sforzavano di contrastare i booo gridando all’indirizzo degli interpreti applausi vigorosi e grida di “Bravi!”.
La Cavalleria. Qui Martone ha fatto una scelta completamente diversa. Poiché l’opera deriva da una novella di Verga che offre una valenza avviluppata intensamente sul sesso come forma paradigmatica di relazione uomo-donna, all’inizio, dopo la sinfonia, suonata a sipario chiuso, nel lungo brano orchestrale che precede il coro dei contadini che tornano dai campi, nella parte centrale del palcoscenico si materializza una compatta costruzione, su uno sfondo nero assolutamente opaco, che ha l‘aspetto dell’ingresso di un bordello, con tanto di maitresse che riceve il costo delle prestazioni, fanciulle succinte che su divani aspettano clienti che vanno e vengono, scale e di porte dietro le quali le coppie si appartano. La costruzione scorre da destra a sinistra, e prima dell’ingresso del coro essa è completamente uscita di scena. Così comincia l’opera. La caratteristica principale della regia è rappresentata dal fatto che l’ambientazione non si basa sulla presenza di componenti “naturali” come edifici o arredi, ma è costruita sul coro che rappresenta, come massa umana, il villaggio, la chiesa, la folla. Per rappresentare questo esso si dispone sul palcoscenico in file ordinatamente schierate (le case non sono delle mura, ma sono la gente, le vie non sono delle strade lastricate, ma sono gli spazzi fra i blocchi delle persone, etc.). Gli eventi fra i protagonisti avvengono davanti o in mezzo alla massa. Al momento della funzione religiosa pasquale, la massa umana che nella prima parte rappresentava il villaggio, si volge con le spalle al pubblico, mentre un enorme crocefisso sullo sfondo scende lentamente dall’alto, e una processione si avvia fra i blocchi, e un sacerdote davanti al crocefisso celebra il rito. Nella scena finale del brindisi, il coro si sparpaglia e dà la raffigurazione di un ambiente da “osteria”. Lo sfondo è sempre quella “luce” nera, completamente opaca, tanto che, quando i vari personaggi escono di scena, finiscono per immergersi in questo sfondo buio e gradualmente scomparire alla vista. A me questa regia è sembrata molto efficace, intelligente, visivamente bella.
Per quanto concerne gli interpreti, l’aspetto del canto in quest’opera è stato decisamente superiore a quello dei Pagliacci. Licitra ha sfoderato una voce fresca e intensa nel ruolo di Turiddu, la D’Intino ha cantato con la consueta abilità nel ruolo di Santuzza. Di buon livello anche gli altri interpreti, soprattutto l’Alfio di Claudio Sgura e la Lucia di Elena Zilio. Dal punto di vista teatrale, Licitra non mi ha entusiasmato: trascinato un po’ dalla sua voce, mi è parso che abbia interpretato il suo ruolo con una certa retorica: cosa assai facile nell’interpretazione di un personaggio “verista”, ma tutto sommato abbastanza scontata. Più semplici, ma anche più efficaci mi sono sembrati la D’Intino e Sgura. Alla fine i booo del loggione sono stati meno intensi che per Pagliacci, e anche Harding, in quest’opera è stato abbastanza graziato. D’altronde non mi è sembrato che la sua direzione fosse così scandalosa, anzi. Chi è stato violentemente contestato alla fine è stato proprio Martone, che, per me, da povero ignorante, è stato senz’altro quello che ha dato il contributo più intelligente e più valido alla spettacolo. Ma tant’è. Questi registi, come anche noi poveri spettatori di platea, non capiscono niente di musica e rovinano le opere. Giusto buarli.
20 gennaio 2011 alle 18:46
Come al solito, Rodolfo riesce a catturare lo spirito della rappresentazione, e presentarlo con semplicità e espositiva catturando al massimo l’attenzione del lettore. Complimenti!!!!
25 gennaio 2011 alle 03:48
Ho visto e registrato da RAI 5, la trasmissione completa di ieri. Per puro miracolo perchè con la RAI 5 non si sa mai bene quando e cosa stiano per trasmettere. Comunque ce l’ ho fatta. Ho letto il tuo commento e vorrei aggiungere che ho trovato ignobili e pre-decisi tutti quei buuu che ci sono stati contro Cura, Oksana Dyka e Martone. La solita scanagliata di quel branco di melochecche superstiti che da quando vivevo a Milano si sono avventate sempre o quasi sempre senza una vera ragione contro cantanti, direttori, registi e scenografi. Hanno il dente avvelenato per principio e non dimenticherò mai la vergognosa reazione a Del Monaco nella Carmen di circa 35 anni fa, o agli insulti al geniale Kleiber nell’ Otello e decine di altri casi che hanno coinvolto la Callas, la Caballe, la Scotto etc.
Ebbene a me son piaciute sia Pagliacci che Cavalleria. Non posso giudicare dal vivo perchè per TV sia ha sempre una percezione alterata, però ho ben apprezzato le scene e la regiia sia dei Pagliacci che di Cavalleria. Ho trovato genialle i Pagliacci, con quell’ambientazione gelida vista dal parapetto dell’ autostrada su uno spiazzo arido dove si sono allineati i carrozzoni dei guitti. Teatralmente e scenicamente una delle migliori scelte per un’ opera come i Pagliacci, vista e rivista in tutte le salse e con gli effettacci del passato. E’ vero. Il verismo non ha mai conquistato neppure il mio gusto musicale, ma non si può negare l’ efficacia visiva e piscologica di queste due produzioni. Se devo essere sincero mi è piaciuta di piu la scenografia e la regia dei Pagliacchi che quella di Cavalleria. In quest’ultima non mi ha convinto l’ aspetto “protestante” di quel coro seduto in una chiesa aperta, cui tutto si contrappoineva meno che una piazza siciliana. Questo ha disturbato la percezione passionale e la sensualita degli avvenimenti. Musicalmente, sia come voci che direzione, meglio dei Pagliacci.
Anche quì però vorrei osservare che Cura ha dato una vigorosa interpretazione scenica al personaggio. La maturità lo ha portato a migliorare il suo essere animale da palcoscenico. La voce non ha retto allo sforzo fisico interpretativo. Ma questo l’ avevamo già capito nel famoso Otello di Torino di 14 anni fa, del quale a suo tempo parlammo a lungo. In questa produzione ha stonato varie volte, ha calato a più riprese, ma gli si perdona perchè ha fatto centro nell’ insieme sull’ aspetto veristico dell’ opera. Non meritava tutti quei buuu isterici e neppure la Oksana che ha cantato in tono, con garbo con precisione ma senza sensualità o alcun segno emotivo il che ha reso il suo canto freddo e inaccettabile ai loggonisti. Trovo poi che Harding ha diretto bene sia l’ una che l’ altra opera. Forse meglio Cavalleria, ma anche lui, se non ci fosse un odio precostituito, non avrebbe ricevuto le disapprovazioni che ci sono state. Se penso che quel teatro non ha mai buato Sansogno, nè Votto nè Gavazzeni che negli anni 60 spadroneggiavano e dirigevano male, o quasi, tutto il repertorio che Ghiringhelli gli affidava, non riesco a credere che si possa buare il giovane Harding, ormai affermato direttore e di qualità assai meno provinciale e insulsa di quella dei direttori che ho ricordato. A quei tempi le melochecche consumavano i fischi, i fiati, e le grida chioccie contro (o pro) Callas e Tebaldi. Ma erano altri tempi. Oggi è cambiata la musica ma i suonatori sono rimasti gli stessi….! Giampaolo
25 gennaio 2011 alle 11:09
Ti ringrazio per il commento, che in larghissima misura concorda con le mie osservazioni. A proposito di melochecche, oltre alle assurdità che hai citato, ti ricorderò che alla fine della Lucrezia Borgia, sono andati ad aspettare la Fleming (che certamente aveva sbagliato l’aria finale “era desso il figlio mio”, ma può succedere a tutti) all’uscita del teatro gridandole dietro “Puttana! Torna in America!”. Così la Fleming a Milano non è più tornata, e non credo che questa sia un fatto di cui vantarsi.
Ciao
26 gennaio 2011 alle 03:06
Mi ricordo benissimo. Pioveva e ci vedemmo un attimo all’ uscita mentre stavamo aspettando proprio la Fleming e c’ era sotto il porticato anche Leyla Genger. Tu non rimanesti a cena con noi. Peccato. C’era anche Giovanna Lomazzi e Giovanni De Merulis. Ma quanti anni son passati? Certo più di 10 !
La Scala è un teatro sui generis. Stasera discutevo a cena col maestro Vincenzo Grisostomi. Anche lui disapprovava il comportamento del loggione, ma ha aggiunto una osservazione. La Scala volere o volare è il teatro più famoso del mondo. Qualcosa si deve pagare per questo primato e l’ attesa delle reazioni è temuta peggio di una sentenza. Ma è un costo che fa parte della vita di quel teatro, risaputo nel mondo. Un tempo c’ era Parma che era temuta dai cantanti più della peste. Si narrava che nel loggione il pubblico neppure guardava l’ azione scenica. Le donne facevano la calza coi ferri per abitudine e alzavano tutte insieme la testa, pronte a strillare, appena avvertivano una stonatura, o anche meno. Mi pare ricordare che anche la Callas affrontò queste forche caudine, oppure si rifiutò di cantare in quel teatro. Ci andavo spesso quando abitavo a Milano (dal 1957 al 1964) . Ci vidi anche il grande Bastianini e ero presente con Roberto Bauer, l’ uomo di Rudolph Bing a Milano, la serà che scritturò per il Metropolitan Eugenio Fernandi, un tenore dalla bellissima voce che poi durò solo qualche anno. Bei tempi !
Non mi ricordo se ti ho mandato il clip di Zelmira di Rossini, con Kunde, Florez e la Aldrich. Pesaro 2010. E’ una bellissima opera con una regia onirica ma elegante. Ben cantata e ben diretta da Roberto Abbado. Se ti fa piacere ti mando il DVD. Comunque il clip lo puoi vedere sul mio profilo in FB. E’ il bel concertato che precede il gran finale del primo atto. Ciao