VIVA L’ITALIA di Aldo Cazzullo

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Si tratta di un libro scritto per rivendicare con orgoglio la nostra appartenenza a una nazione che ha avuto una storia: una storia con momenti gloriosi, anche se tormentata. Oggi sembra che ci sia bisogno di richiamare questo orgoglio, mentre al contrario sta emergendo una forma sempre più diffusa di indifferenza, in parte motivata da sfiducia nella politica, in parte scaturita da invocazioni a forme di indipendenza localistica a volte spinte fino allo scissionismo e separatismo.

Il libro contesta alcuni luoghi comuni, oggi sempre più frequenti: ad esempio il significato e il valore di parole come patria, tricolore, o dello stesso inno nazionale che si manifesterebbero come simboli dalla destra ma, come tali, rifiutati o accettati con sufficienza dalla sinistra; il giudizio su Mussolini, valorizzato da diversi settori come grande statista, dimenticando gli orrori di cui è stato protagonista, mentre la Resistenza verrebbe sempre più diffusamente negata e relegata al ruolo di mito; oppure, ancora, il luogo comune di un Risorgimento che avrebbe portato a una Unità nazionale, che molti oggi giudicano inesistente, senza il necessario coinvolgimento dei popoli.

Cazzullo articola il libro in quattro capitoli: il primo ricostruisce il Risorgimento mettendone in evidenza gli aspetti corali; il secondo valuta la partecipazione del nostro paese alla Grande Guerra e il suo significato in merito all’Unità nazionale; il terzo ripropone il valore della Resistenza e il giudizio sulle parti in causa nella cosiddetta guerra civile; il quarto cerca di analizzare il rapporto fra la politica degli ultimi decenni e il nascere di tentazioni scissionistiche nell’ambito di una rivendicazione del federalismo.

Premesso che mi trovo perfettamente d’accordo con le analisi di Cazzullo in merito al grande valore dell’Unità Nazionale e dei processi che vi hanno condotto, tuttavia mi sembra che lo scrittore sottovaluti in parte la complessità di tali processi e le contraddizioni, a volte profonde che ne sono scaturite. Questo mi sembra giusto evidenziarlo sia negli aspetti dell’evoluzione risorgimentale, sia in quelli della partecipazione alla Grande Guerra e del Fascismo che ne è conseguito, sia negli aspetti della Resistenza.

 

Il Risorgimento. Ha ragione Cazzullo a negare che l’unità d’Italia, come oggi è sempre più diffusamente sostenuto, sia stata solo un ingrandimento del regno di Sardegna voluto dalla dinastia dei Savoia. L’unità nazionale è stata in effetti un obiettivo diffusamente condiviso, almeno fra i ceti più colti, nato dopo l’epopea napoleonica.  Le linee politiche per raggiungerlo  si sono realizzate, fra le diverse associazioni e organizzazioni, e fra gli stessi uomini di pensiero, in modi diversi, in parte convergenti, in parte contraddittorî: dalla via repubblicana preconizzata da Mazzini e dalla Giovane Italia, a quella monarchica appoggiata da Cavour e dai Savoia, a quella federale ideata e sostenuta da Cattaneo. Nel prevalere delle diverse linee contavano le forze che potevano essere messe in campo: da una parte il sostegno popolare, dall’altra le alleanze e l’appoggio di Stati esterni, e infine dal prestigio, l’abilità, l’azione di singoli personaggi.

Non c’è dubbio che la linea che prevalse sia stata quella preconizzata dal regno di Sardegna e in particolare da Cavour. Questo portò a una forma asimmetrica di unità: le regioni settentrionali entrarono senza eccessivi problemi nel processo unitario, avvenuto in parte come liberazione da un dominio straniero, come quello dell’Austria, in parte da guerre alle quali oltre all’esercito piemontese, partecipavano volontari di ogni provenienza.

Discorso molto diverso deve essere fatto per il meridione, soprattutto per il regno borbonico. Qui l’unità non ha avuto la stessa tensione che al nord. Garibaldi è stato accolto, soprattutto in Sicilia, come una liberazione da una monarchia mal sopportata, e perché aveva promesso e cercato di realizzare riforme importanti, come la riforma agraria, soprattutto in merito al latifondo. Cavour temendo questo approdo, ha fatto di tutto per fermarlo. Ha così inviato l’esercito lungo la penisola, e successivamente lo ha costretto all’incontro di Teano. In queste condizioni l’unità d’Italia si è realizzata in modo asimmetrico.  Il banditismo del sud che ne è conseguito, ha rappresentato la ribellione a una presenza che veniva giudicata straniera.

Questa ribellione ha avuto certamente aspetti reazionari e spesso banditeschi. In molti casi era guidata da ufficiali del disciolto esercito borbonico. Ma sarebbe un errore non approfondire le motivazioni per cui un banditismo di tale estensione e tale durata sia stato possibile.

L’analisi andrebbe poi prolungata anche a dopo il compimento dell’unità, e varrebbe la pena di approfondire le ragioni per cui lo sviluppo economico del nostro paese si è realizzato a due velocità, o anche le ragioni per cui la malavita organizzata ha potuto prendere piede e, di fatto, controllare il territorio in maniera più efficace dello stato nazionale. Forse, secondo me, è opportuno parlare di ferite inflitte durante il processo di unità, e mai più sapute rimarginare dallo stato unitario. L’obiettivo di un governo responsabile dovrebbe essere quello di rimarginare queste ferite, ricuperare il controllo del territorio sottraendolo alla criminalità organizzata, e  riattivarne lo sviluppo economico restituendo alla popolazione l’iniziativa imprenditoriale, e riottenendone la fiducia.

 

Cazzullo sostiene un’altra tesi che mi pare discutibile: che la Grande Guerra sia stata un’occasione per rafforzare l’unità nazionale, al punto da riportarne la definizione di guerra patriottica. E per dimostrare questo cita l’esempio di personaggi di grande statura morale, oltre che di grande intelligenza e valore, che si sono offerti volontari: Giuseppe Ungaretti e Carlo Emilio Gadda. Questo punto di vista, che ha le sue ragioni, contrasta con un altro aspetto del problema: l’ostilità alla guerra dei sindacati e del partiti socialisti che si sono battuti a lungo contro i fautori del famoso “maggio radioso” guidati da Gabriele D’Annunzio. In realtà a me sembra che la guerra, ben lungi dal rafforzare l’unità nazionale, abbia contribuito a minarne le basi, tenendo conto del dolore che le centinaia di migliaia di morti, in grande maggioranza provenienti dalle terre del meridione, ha provocato nelle famiglie. Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi ci introduce in un mondo per il quale lo stato viene considerato come un potere estraneo dal quale è necessario difendersi. In conclusione, non mi sento di condividere un giudizio positivo sul valore patriottico della guerra.

 

Il Fascismo. È giusto affermare con Cazzullo che non è vero che nel periodo fiorente ed espansivo del fascismo, soprattutto gli anni Trenta, tutti gli italiani fossero fascisti. Probabilmente dalla maggioranza degli italiani il fascismo era accettato come governo, senza porsi il problema di come gestisse il potere. Occorre tuttavia rilevare come essa si sia dimostrata sostanzialmente indifferente alle guerre coloniali, compreso il crimine della guerra d’Abissinia; lo sia stata alle leggi razziali; lo sia stata all’alleanza con Hitler e alla discesa in campo contro l’Albania, la Francia, la Grecia, la Russia. Solo quando le armate alleate sono sbarcate in Sicilia e il re ha destituito Mussolini, la maggioranza della popolazione si è scoperta antifascista. Solo dopo la caduta del fascismo l’unità nazionale ha smesso di essere un mito infarcito di retorica, per diventare un obiettivo realistico da perseguire sulla base della Costituzione.

 

La Resistenza. Questo capitolo, del tutto condivisibile, mi lascia una domanda: perché definire, come oggi si tende a fare da parte di molti, la Resistenza una guerra civile?

Anzitutto mi sembra pleonastico ricordare che la guerra dei partigiani sulle montagne è stata in primo luogo resistenza a un’invasione. E questa, neppure stiracchiando, può essere definita guerra civile. La RSI è stato solamente uno stato fantoccio al servizio dell’invasore nazista. I suoi cosiddetti “combattenti” erano in gran parte criminali che militavano in famigerate bande costituite per svolgere il lavoro sporco degli invasori: le brigate nere, la decima mas, le esse esse italiane, la banda Koch, la banda Carità, e altri agglomerati di fucilatori, torturatori. I soldati, quelli inquadrati nelle divisioni dell’esercito ufficiale, la Monte Rosa, la San Marco, la Littorio e l’Italia, non venivamo utilizzati per azioni di guerra, sia pure contro partigiani, ma per attività logistiche al servizio dell’esercito tedesco. Dove sta quindi la guerra civile? Di guerra civile non si parla in altri paesi europei dove sono stati attivi movimenti partigiani di liberazione contro l’invasore nazista: la Francia, la Jugoslavia, la Norvegia etc. Perché se ne parla in Italia? Forse che l’uso di questo termine non è per caso un modo subdolo per rivendicare un onore e una realtà a uno stato fantoccio imposto da Hitler (su Internet ci sono molti tentativi di questo genere), che, questo sì, dovrebbe essere sepolto per sempre come vergogna nazionale?

 

Il federalismo. È l’ultimo capitolo. Certamente, credo che sia una scelta giusta riformare l’organizzazione nazionale italiana da stato centralizzato, a imitazione di quello francese, a stato dotato di ampie autonomie amministrative, in sintonia con le differenti radici culturali della diverse aree. E, giustamente, credo che sia necessario rivendicare anche, e soprattutto, le autonomie più localistiche, quelle legate ai comuni, ancor più di quelle di derivazione regionale. Ma questa evoluzione riformatrice credo che debba essere attuata in concomitanza con una politica che sia in grado di ricuperare le aree meridionali, di rimarginare le ferite delle quali queste aree soffrono, e di riportare l’Unità nazionale a quella simmetria che le vicende storiche fino ad ora hanno impedito. Il federalismo di Cattaneo era tale in quanto avrebbe dovuto portare ad uno stato nazionale unitario. Sarebbe assurdo invocare il federalismo per il progetto diametralmente opposto: quello della scissione.

 

Per concludere, io credo che l’Unità d’Italia sia un valore di grande importanza. Le tormentate vicende storiche attraverso le quali si è realizzata, non devono far dimenticare che essa in primo luogo è la rappresentazione di una cultura nazionale. Nella storia della letteratura, della musica, delle arti figurative e via dicendo, grandissimi nomi, fin dal lontano medioevo hanno contribuito a realizzare questa cultura, indipendentemente dalla loro terra d’origine. E nel mondo, i personaggi che hanno costruito questa cultura, e i frutti delle loro opere, vengono unanimemente indicati come italiani, cioè espressione di un popolo unitario. Il Risorgimento ha contribuito a dare a questo popolo una nazione e uno stato. Oggi, affidarsi a tentativi scissionistici, rivendicando e sottolineando le differenti radici culturali delle varie aree del nostro paese, significa far tornare indietro la storia, e oltrettutto rinnegare l’opera di grandi personaggi: dei Mazzini dei Cavour, dei Garibaldi, dei Silvio Pellico, dei Pisacane, dei Mameli e di tutti gli altri che si sono impegnati per realizzare lo stato unitario e la Nazione. 

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