ANNA ACHMATOVA: ANNIVERSARIO DELLA MORTE
Oggi, 5 marzo, è l’anniversario della morte di Anna Achmatova, grande poeta russa. Vale la pena di ricordarla perché è un simbolo di come l’arte, attraverso la sofferenza, può avere ragione delle tirannie, anche di quelle più feroci, come lo è stata quella di Stalin. Melo Freni ha scritto un bellissimo articolo su Le ragioni del riformista del 4 marzo, che riporto qui per intero, al fine di rinfrescare nella mente delle persone che amano l’arte, la cultura, la civiltà e la poesia l’immagine e l’opera di questo grande personaggio.
Anna Achmatova poetessa resistente sbarcata a Taormina
di Melo Franchi (1)
Quando nel dicembre del 1964 Anna Achmatova venne in Sicilia per ritirare il premio “Etna Taormina” fu per il mondo un evento di straordinaria importanza sotto il profilo politico. Dal 1917, era la prima volta che si concedeva ad un intellettuale di uscire dalla Russia sovietica ed anche con quel gesto il presidente Kruscev dimostrava la concretezza della sua politica del “disgelo”. D’altronde era stato lui stesso a riabilitare la poetessa che per “disimpegno politico” era stata espulsa dall’Unione Scrittori.
Intorno a lei, già da quando aveva poco più di vent’anni ed aveva pubblicato i primi versi, Vecer (la sera) e Cetki (il rosario), si erano allertate la catene della sorveglianza speciale, ma i suoi versi erano riusciti a filtrare le maglie della proibizione e ne fanno testo le diverse traduzioni e le pubblicazioni avvenute nel 1929 un po’ dappertutto in Europa, la sua presenza nelle riviste dei letterati russi dell’emigrazione, che fra Berlino, Monaco e Parigi mantenevano viva la propria voce.
A Taormina e a Catania, città dove si svolse la premiazione presso il museo di Castell’Ursino, si presentò una donna che, con i suoi 75 anni, alta, slanciata, nel portamento e nello sguardo condensava un misto di fierezza e di dolcezza che la rendevano, in una parola, bellissima.
Dopo essersi fermata tre giorni a Roma (inviò cartolina dalla fontana di Trevi, visitò la tomba di Raffaello al Pantheon e s’incantò lungo l’Appia antica) giunse in Sicilia accompagnata da Irina Punin, figlia di uno storico dell’arte suo compagno di vita già dal 1929, dopo due matrimoni, e vi arrivò in treno dopo quattro giorni e quattro notti di viaggio, a causa della sofferenza al cuore che aveva indotto i medici a sconsigliarle l’aereo.
Nel contesto di un convegno internazionale, quel 12 dicembre del 1964, fu accolta dal gotha della poesia e della critica letteraria non solo italiana, ma in più era stato invitato il poeta Alexander Tvardovskij per il discorso ufficiale.
«Io sono quasi in Africa, tutto è in fiore all’intorno, e riluce, olezza. Il mare è splendente. Questa sera in lbrgo, a Taormina, recital di poesia, domani la consegna del premio in un’atmosfera solenne, a Catania…»
Bella sì, ma anche sofferente. Appena più che ragazza aveva intuito ogni cosa del suo destino:
Nessuno ormai
vorrà ascoltar canzoni.
I giorni presagiti sono giunti.
Era pesante il fardello che si portava dentro, dalla fucilazione del suo prima marito, il poeta Nicolaj Gumilëv, nel 1921, accusato di attività controrivoluzionaria, al destino del figlio, lev, sempre incarcerato, perseguitato politico («per il solo nome che porta»), deportato, un destino che influì in modo decisivo sul suo carattere di madre e sulla sua poesia.
Rekviem (Requiem), il capolavoro iniziato nel 1935, mentre infuriava la repressione staliniana, aveva trovato in quella esperienza materna il fulcro della sua ulteriore ispirazione:
All’alba ti hanno portato via.
Dietro di te, come a un funerale andavo,
…Le montagne si piegano davanti a questa angoscia
Non scorre l’ampio fiume
Ma nel carcere sono saldi i chiavistelli,
Sulla fronte un sudore di morte… Come dimenticare?
Urlerò come le mogli degli strelcy
Sotto le torri del Cremlino.
«In quegli anni terribili – scrive – io trascorsi diciassette mesi in code di attese fuori dal carcere a Leningrado. Un giorno una donna mi riconobbe e, riprendendosi dal torpore mentale che ci accomunava, mi domandò all’orecchio (lì comunicavamo tutti sotto voce): Ma lei questo può descriverlo? E io dissi “posso” ed allora una sorta di sorriso sorse per quello che una volta era stato il suo viso».
Che cosa sia successo non capisco,
Come in carcere, figlio,
Le notti bianche ti guardassero,
Come nuovamente ti guardino
Con occhio di sparviero,
…e parlino di morte
…Le gialla luna entra nella casa
Entra con il cappello di sghimbescio,
Vede la gialla luna un’ombra,
Questa donna è inferma,
Questa donna è sola.
Il marito nella fossa, il figlio in cella,
Pregate per me
…Ma il coro degli angeli magnificò l’ora grande
E i cieli si fusero nel fuoco.
Al Padre disse – Perché mi hai abbandonato?
E alla Madre – Oh, non singhiozzare per me.
… E andavano colonne di condannati ormai,
E una breve canzone di commiato
cantavano i fischi delle locomotive
… Figlio mio e mio terrore
Tutto è sovvertito per sempre
E adesso non capisco
Chi sia la belva
Chi l’umana creatura
E se lunga per l’esecuzione sarà l’attesa.
La costrinsero a scrivere 15 poesie per Stalin al fine di salvare la vita del figlio e Lev infatti non venne fucilato, si offrì volontariamente di andare al fronte durante l’occupazione nazista del 1941, ma finita la guerra venne ancora rinchiuso in prigione per ritornare libero nel 1956, a tre anni dalla mote di Stalin. Anna strappò le 15 poesie.
Intanto, molte altre cose erano passate tremendamente per segnare la sua vita: colpita anche lei dalla repressione staliniana del 1935 aveva subito la mortificazione di essere classificata dalla Literaturnaja Enciklopedia come una “poetessa del passato”.
Oh, quel 1941 capolinea di tante sventure! Anche il suicidio di Marina Cvetaeva in quell’anno, altra vita di stenti: una figlia morta di denutrizione in un asilo d’infanzia, un’altra, già cresciuta, deportata, il marito scomparso e forse fucilato, e lei stessa raminga fra gli arresti ed il confino, ed anche per lei i tanti amori svaniti, e “miseria e solitudine”, fino all’ultima evacuazione di quell’orribile anno, che la portò nella isba dei contadini tartari dove s’impiccò.
«È terribile pensare come la stessa Marina avrebbe descritto i nostri incontri se fosse rimasta viva e io, invece, fossi morta…»
Poetessa del dolore, ma anche della fierezza, in una stagione ricca di presenze e di interlocutori che rispondevano, fra gli altri, ai nomi di Blok, Brodskij, Pasternak, della stessa Cveteva.
Cosa voleva dire con quel “io sono la vostra voce” se mom ‘assunzione di responsabilità di denunciare, da donna, da madre e da poeta la sopraffazione del potere?
Si chiamava Gorenko la poetessa, Anna Gorenko, ma discendeva dall’ultimo Gran Khan dell’impero dei tartari, Achmat, per cui quando decise di darsi un nome d’arte risalì i secoli e si chiamò Achmatova. Nome di un’antica fierezza che onorò con la sua vita e coi suoi versi.
Fra il 1910 e l’11 l’Achmatova, appena più che ventenne, a Parigi aveva conosciuto Amedeo Modigliani, lo aveva frequentato, forse si erano anche amati sulle panchine del Luxemburg e nello studio del pittore livornese si erano dedicati poesie e canzoni.
Non s’incontrarono più. Anna lo ricordò nei suoi scritti, lei le inviò a Leningrado alcuni disegni del suo volto, come lo ricordava, perché non le chiese mai di posare. Ma nella casa di Leningrado, il vento della rivoluzione spazzò anche quelli.
Nel giugno del 1965 l’Università do Oxford («sono stata nella patria di Shakespeare») le conferì la laurea honoris causa. Un anno dopo, il 5 marzo del 1966, Anna Achmatova morì. Aveva 77 anni.
(1) Melo Freni, giornalista e scrittore. È presente in “Culture e scuola” della Treccani, in diverse editorie della letteratura del ‘900 ed antologie anche di università straniere.
Per leggere alcune sue bellissime poesie