15 luglio 2006

Rivedo dopo 13 anni alla Scala la Lucia di Lammermoor. L’allestimento è lo stesso di Pier’Alli. Il direttore di allora era Stefano Ranzani. Il cast era quello di riserva: Tiziana Fabbricini, Salvatore Fisichella, Alexandru Agache (Invece della Devia, La Scola e Bruson). Già allora non rimasi particolarmente impressionato da questa opera, che mi sembrò povera di drammaturgia, come d’altra parte mi sono apparse in genere le opere di Donizetti (eccezion fatta per il Don Pasquale).
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28 gennaio 2006
Neve, gelo, caos sulle strade, alle stazioni, sui treni, nella
metropolitana… Tutto questo per andare e sentire il Rigoletto e dare
il bentornato a Chailly.
Ciliegina sulla torta: L’opera inizia con trequarti d’ora di ritardo.
Colpa del tempaccio e, dicono loro, di pubblico ritardatario. La solita
bugia. Il pubblico c’era tutto; e comunque da quando in qua la direzione
scaligera si preoccupa del pubblico? In realtà in ritardo erano loro.
Sarebbe stato più onesto (e più gradito dal pubblico) se avessero detto
le cose come stavano realmente.
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22 gennaio 2006

Chajkovskij definì “scene liriche” quest’opera, per significare che essa si allontana dal paradigma aristotelico dell’unità di tempo e di luogo. L’azione si dipana per un tempo che va dall’adolescenza di Tatjana alla sua maturità di sposa nel grande mondo; e per luoghi che si estendono da una Russia di campagna e tutto sommato popolare, agli splendori della capitale.
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15 novembre 2005
Il Pelléas è un’opera sulla quale vi sono pareri molto discordi. C’è chi la ama moltissimo, come me; c’è chi la trova noiosa, come diverse persone che conosco. In verità io credo che sarebbe sbagliato aspettarsi emozione dalla musica del Pelleas. Quello che potrei dire è che questa musica, più che essere emozionante, è affascinante, proprio nel senso francese di “charme”. Le armonie continuamente cangianti, i colori orchestrali sempre inattesi, il declamato che galleggia sul suono orchestrale e lo collega agli eventi scenici, alle riflessioni dei protagonisti, sono offerti con una tale raffinatezza espressiva, che, se si deve per forza fare un paragone, lo farei con i paesaggi di Monet.
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9 novembre 2005

La Capria ripensa, all’età di ottant’anni, ad alcuni episodi della sua vita recente e meno recente. E farlo a ottant’anni non significa solo ricordare, ma significa farlo con la consapevolezza che il tempo scorre; che il punto di vista con il quale si guardano le cose cambia, a volte in modo doloroso; tante cose arrivano a ricordarci che il lungo percorso della vita scandisce le sue ultime battute. La folla degli amici con i quali si condividono ricordi di giorni felici, si va gradualmente diradando; la morte diventa più che una possibilità, una realtà. “Io non ci penso direttamente, dice La Capria, però la morte è come un arrière pensée che sta sempre sullo sfondo.” Leggere pagine come queste mi ha fatto immedesimare molto: il procedere nell’età evidentemente ci porta tutti quanti a condividere quel senso di “fine” delle cose che fa capolino in ogni momento. La gioia di guardare una bella ragazza, per esempio, è raffreddata dalla consapevolezza che lei non solo non ti guarda, ma proprio non ti vede, non esisti proprio.
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