L’INTERVISTA. William Xerra espone in questi giorni alla Radium Artis
Sulla tela pensiero e anima
Erano gli anni sessanta e William Xerra andava saccheggiando i negozietti di Brera, alla ricerca di frammenti pittorici del Settecento, da dividere e riassemblare in un restauro creativo.
Una ricerca colta, ma appassionata, suggellata dai sigilli forti del Vive e dell’Io Mento che, fino al 27 aprile, saranno esposti alla Galleria Radium Artis, nell’interessante personale curata da Angela Lazzaretti. Una mostra che, come la recente esposizione milanese di Artepensiero, si propone di dare un senso alla contemporaneità e a un proliferare di “idee” che pretendono di bastare a se stesse, senza porsi il problema di entrare in contatto con la realtà, di acquistare un forma compiuta e di farsi carico di un significato.
È fiorentino per nascita e piacentino per affetti, ma Reggio Emilia ricorre spesso nella sua biografia artistica. Puro caso o legame particolare con la città?
«Potrebbe sembrare casuale, ma il caso certe volte è programmato. Mia madre era di San Polo e faceva dei tortelli di zucca squisiti, Corrado Costa e Marco Gerra erano miei grandi amici, tanto che, a partire dagli anni Sessanta, cominciai ad esporre con loro in città.»
Dove?
«Credo che il mio debutto sia stato nel ’64 in occasione della Mostra del Tricolore, poi nel ’68 con una personale curata da Sebastiano Vassalli alla libreria Rinascita e, nello stesso anno, con il gruppo di Corrado Costa, raccolto nella collettiva Spazio Negato che, in un certo senso, ha segnato il ’68.»
E di recente?
«Di recente ho avuto due grandi soddisfazioni legate all’Emilia: prima la grande antologica voluta da Arturo Carlo Quintavalle e dal centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma, poi la personale di Palazzo Magnani, curata da Sandro Parmiggiani. Sempre nel reggiano sono stato invitato alla Galleria 8,75 e, in questi giorni, dalla Galleria Radium Artis».
La mostra s’intitola “Mento sulla mia verità”…
«È un titolo un po’ forte, estrapolato dal manifesto Io mento che Pierre Restany aveva letto nel 2002 alla Fondazione Mudima di Milano: è una presa di coscienza che riguarda sia me stesso che la società in cui viviamo.»
Le opere che compongono la mostra?
«Si tratta di una piccola selezione di tele dagli anni ’80 ad oggi. Soprattutto le ultime, sia che si sviluppino nella piccola che nella grande dimensione, sono pensate come appunti, in cui qualcosa scompare e qualcosa s’intravede, perché il fine non è fare il “capolavoro”, ma esprimere un pensiero. Con aggiunta d’anima.»
Come aveva conosciuto Restany?
«Lo avevo incontrato per la prima volta in via Borgonuovo a Milano, quando Luciano Inga-Pin aveva la galleria lì. Era il 1970 e io ero alla mia prima vera personale. Ha detto “molto piacere”, si è lisciato i baffi e ha iniziato a riflettere ad alta voce sulla mia scultura-ambiente. Da allora ha seguito tutte le mie mostre e ogni mese – appuntamento fisso – andavo a trovarlo a Milano.»
Erano anni di grande pulsione…
«Sì, erano anni in cui venivano prima le opere della loro definizione. Si parlava di sculture-ambiente, ma in realtà erano istallazioni. Oggi la situazione è molto cambiata.»
In che senso?
«Sono appena stato a Los Angeles per un omaggio ad Adriano Spatola, poi, a New York, ho avuto modo di visitare la Biennale dei Giovani Artisti del Whitney Museum. Devo dire che, appena uscito, mi sono trovato immerso nelle luci, nei colori e nei manifesti della città, in una vita molto più vera di quella in mostra e ho capito che, oggi, molto probabilmente, questa è l’“arte”.»
Per questo ha intitolato la sua personale appena conclusasi alla Galleria Artepensiero di Milano, “Le Idee non hanno significato”?
«Non è proprio per questo, ma devo dire che da qualche tempo il problema è nei miei pensieri. le idee non possono pretendere di bastare a se stesse, senza porsi il problema di entrare in contatto con la realtà materiale, di acquisire una forma compiuta e di farsi carico di un significato, insomma, di essere “nutrite” da un corpo.
Cos’è l’arte?
«L’arte è soprattutto aggiunta d’anima».
Chiara Serri
L’Informazione, 22/4/2008