Per William Xerra




L’arte sta rotolando per le chine del sogno. Si chiude in immagini di nostalgia, già consunte, di cui l’artista del presente riporta tracce flebili, impercettibili, quasi vergognosi di una fascinazione incapace di trascinare, di travolgere, di condurre alla danza e al canto ciò che resta dell’uomo, o degli uomini. Ed ecco i segni di una musica sena suono.

Simboli di una sacralità orba dei suoi Angeli e dei suoi Démoni sfiorano impallidendo l’antica tela del pittore, si insinuano nel gesto dell’artista esangue, ricoprono di silenzi sena malinconia ciò che furono le cose, gli oggetti, i simulacri dell’illusione.

L’artefice d’inganni sublimi ha perduto il senso del rito e della bellezza. Rimasto senza memoria e senza speranze, ormai (impraticabile le realtà) ha creduto di potersi rifugiare nel sogno, ove la realtà del presente preme più implacata. I sogni, scriveva Savinio, sono privi di memoria. «Nel sogno noi non pensiamo: ieri e domani. Nel sogno, nessuno ci dice: ieri e domani. La nostra vita invece poggia tutta intera sull’ieri e sul domani, come un ponte sui due rive, Perché soltanto l’ieri e il domani danno valore al presente: perché senza il ricordo dell’ieri e senza la speranza del domani, il presente crolla e svanisce, come crollano e svaniscono i sogni; nei quali il presente scorre senza ieridomani. Perché quando nella mente dell’uomo il ricordo dell’ieri e la speranza del domani si oscurano, egli si affaccia sulla soglia del nulla, della disperazione, e uccide se stesso».

L’artista è il custode delle memorie collettive, egli vive il presente come negazione, lo carica di infinite significazioni, gli dona lo spessore del tempo e così lo annulla. William Xerra ha cancellato l’oggi, quale presente senza possibili memorie che rende deserti i sassi e gli ori antichi di Matera e ne fa un luogo impercorribile per i passi e i pensieri dell’uomo. Il suo è il cammino benedetto degli esorcismi capaci di scacciare il Demonio e di riportare la terra nel dominio dell’Angelo, là dove passato e futuro si ricongiungono in una lunga preghiera, nel campo di una ritrovata poesia. Come l’esorcista egli ha levato cori e canti d’uomini semplici, o che per un momento hanno potuto credere di essere tali. Come il sacerdote, ha invocato il sole e la luce, e ha dato agli uomini sole e luce attraverso l’inganno supremo del rito. Come l’artista ha mentito, celebrando nella dolce perversione della memoria i sogni dei ciechi.

Tutto ciò è accaduto in un giorno qualunque di un luogo qualunque.

Matera, terra del presente, s’è adornata del rito trovando nell’arte la verità della propria finzione, la sublime irrealtà della propria immagine e delle proprie memorie. È bastato un passo, una musica, un segno rituale e lo spettacolo si è riaperto su scenari di fiabe immemorabili. E se il gesto era del presente, qualcosa delle antiche memorie poteva ormai riaffiorare senza timore di essere disperso. William Xerra ci ha così consegnato un calco del tempo su cui sono incisi i segni di una nuova sacralità. Se il destino dei vati, dei poeti e degli dei è di fingere e di fingersi, ebbene William Xerra ha avuto il coraggio di affrontare il proprio mito, il più incredulo ma non il più incredibile, almeno per chi voglia ancora conservare agli uomini il dono della meravigliosa menzogna, la poesia. Questa può ancora far vivere pietre inaridite, popolare città scomparse, colmare d’orrore i luoghi più dolci, strappare voci ai gorghi del silenzio, levare canti azzurri da cadaveri insepolti.

Tutto può fare la poesia delle nostre memorie, tutto può compiere la memoria della nostra poesia.

All’uomo scegliere fra l’inganno dei ricordi e quello della realtà, all’uomo scegliere tra metafisica e quotidiano, all’uomo scegliere fra il vero e l’ambiguo: all’artista, o al poeta, la scelta è preclusa. Egli ha già compiuto il rito di elezione e non può abbandonare il cammino degli splendidi inganni. Egli è dannato per sempre, ed è salvo in eterno. Chi non crede non cerchi dannazione o salvezza, vita o morte, dolore o gioia: solo il nulla potrà accoglierlo perché egli si è ucciso a se stesso.

L’artista ha forse perduto il coraggio della sua religione? Se così fosse, l’arte sarebbe davvero morta e i falsi profeti avrebbero vinto, gli uomini del presente avrebbero sconfitto l’innocenza del passato e del futuro, avrebbero trionfato coloro contro i quali Nietzsche scagliò l’anatema: «Giacché voi così parlate, noi siamo reali in tutto e senza fede e senza superstizioni: ecco di che vi gloriate! Oh, come mai potreste credere, voi multicolori, voi che siete immagini dipinte di tutto ciò che fu creduto?».

Ecco William uomo di fede e di superstizione: egli ha solcato mille sentieri, ha infranto l’immagine di mille specchi, ha versato colori di rosa su mille cimiteri, su mille morti ha tracciato la parola Vive! Ha mentito agli altri per poter credere a se stesso, ha inchiodato la propria innocenza alle porte del sogno, ha affidato all’Angelo le proprie perversioni. E, infine, ha saputo ancora una volta fingere la propria immagine. Che altro potreste chiedere a un artista, o uomini del presente?


Franco Solmi

Bologna, novembre 1979