Umani silenzi
In una delle Operette morali, fattosi comicamente segretario verbalizzante di una ipotetica accademia della Parodia, e fregiatosi in Premessa di una citazione petrarchesca (Del fortunato secolo in cui siamo), il Recanatese constatava che “gli uomini di oggidì procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i passati”, e che “oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita”1. Correva l’anno 1824, e Leopardi, vessillifero – come sarebbe definito al giorno d’oggi – di ‘certa gente che per mestiere è contraria a tutto’, pronunciava da Recanati la sua profezia di tempi in cui “gli uffici e gli usi delle macchine” si sarebbero estesi “a comprendere oltre le cose materiali, anche le spirituali”.
Così egli, volgendo il discorso in caricatura, dopo essersi scusato della “novità dei nomi” (allora ci si scusava per la bizzarria del lessico) vaticinava l’invenzione di “qualche parainvidia, qualche paracalunnie o paraperfidia o parafrodi, qualche filo di salute o altro ingegno che ci scampi dall’egoismo, dal predominio della mediocrità, dalla prospera fortuna degl’insensati, de’ ribaldi e de’ vili, dall’universale noncuranza e dalla miseria de’ saggi, de’ costumati e de’ magnanimi, e da altri siffatti incommodi”.
La fantascientifica narrazione del Poeta è dunque presaga, oltre che degli armamentari tecnico-farmaceutici disponibili agli strizzacervelli attuali, del repertorio dei protagonismi visibili sulla scena sociale contemporanea, ove la metastasi del dire e del figurare (dalle cronache alle rappresentazioni, dagli intrattenimenti più meno spettacolari alle ostentazioni più oscene) seppellisce ogni narrazione figurale sotto la spessa coltre lavica delle esibizioni.
Non a caso tra i moderni saperi le discipline relative alla struttura logica del discorso (si pensi alla Retorica) hanno perso rilevanza rispetto a quelle relative ai mezzi di diffusione (i mass media) e a quelle cui fa capo la comunicazione specializzata nello specificare la natura dei soggetti emittenti e le caratteristiche dei destinatari. La moltiplicazione delle finalità pratiche ha così prodotto una pletora di narrazioni, ciascuna della quali dotata di una propria rilevanza e impegnata a perseguire la propria missione con il massimo dell’efficienza possibile. Nel loro insieme esse producono un rumore indistinto, un brusìo intenso continuo e fastidioso, il cui risultato è una diffusa inappetenza percettiva, originata dall’ininterrotta alluvione di linguaggi e di messaggi cui si è sottoposti.
Va a finire che, paradossalmente, sembra da raccomandare l‘auspicio burlesco dell’illustre: “che gli uomini si rimuovano dai negozi della vita il più che si possa, e che a poco a poco dieno luogo, sottentrando le macchine in loro scambio”. Solo, ci si sente di declinare la sua raccomandazione nel senso di lasciar spazio alle macchine, sottrarsi alla competizione con esse, delegar loro il più possibile l’intelligenza della cose pratiche (i “negozi della vita”), per volgere l’intelligenza umana non già alla produzione di altri racconti destinati ad ingolfare ulteriormente il marasma delle comunicazioni, ma al presidio di quell’esperienza di sé e del linguaggio da cui gli spunti immaginifici della narrazione e della significazione traggono alimento.
È questo lo spazio ampiamente frequentato da William Xerra, il cui lavoro trascorre – esplicitamente compiaciuto della propria ‘incoerenza’ – dal sentimento tragico del Sacro (come nelle Stazioni della Via Crucis) alla dichiarazione grottesca dell’inganno (la serie dell’Io mento), dal formalismo geometrico (Amor sacro, amor profano) all’informe scritturale (Polvere di nuvole), dalla contraddizione della preesistenza (Ritratto d’epoca) all’affermazione del suo inevitabile sopravvivere (Vive), dall’astratta concettualità del vuoto (Incorniciata l’assenza) all’opaca materialità di una pittura data a corpo con voluta rozzezza (Una montagna sull’altra), dal sottile grafismo (Così la notte contro il giorno) all’inserto fotografico-materico estratto dai repertori di una pop art piccolo borghese (Cravatta; Amori 1975).
A questo mascolino marcare il territorio figurale il percorso espositivo giustappone il sentire femminile di Angela Occhipinti, inflesso in una indiscrezione paradossalmente impenetrabile e anch’essa compiaciuta del suo ampio scorazzare nel campo della visibilità. Ma quanto l’altro s’attesta nella pratica dei linguaggi, altrettanto ella celebra il demone del Racconto. La sua narrazione è fratta, episodica, quotidiana; raccoglie memorie ed affezioni, incontri con le cose e con i luoghi, vicende che si accumulano e compongono in complessi imperscrutabili, cui nessun’altra forma può essere data se non quella emblematica del Labirinto. Come il divenire dell’esistenza, il suo racconto è l’evidenza di un caos generatore di un senso ricostruibile solo a posteriori: ricostruibile, ma non riconoscibile dall’esterno, se non come risultato di una sommatoria che, non a caso, trova definizione nei Reliquiari e nei Libri della memoria, tanto fitti di contenuti appena intuibili quanto impenetrabilmente serrati.
Sicché si constata che, rinunciando entrambi all’enunciazione del Racconto, entrambi discorrono della fertilità di un esercizio silenzioso, nel quale più che tacere ciascuno di loro sottintende un’esemplarità dei luoghi d’esperienza e d’esistenza (nel linguaggio del Poeta: le “cose spirituali”) quanto mai raccomandabile a chi soffre l’ipertrofia della comunicazione.
Due secoli ci separano ormai dai “sovrumani silenzi” del naufragio leopardiano, e ci si trova oggi a vivere l’esperienza d’infiniti ben diversi da quello ch’egli si figurava oltre la siepe dell’“ermo colle”. Posti di fronte al rischio di ben altri naufragi, l’infinito numero dei messaggi informativi compresenti in un orizzonte ingombro d’antenne e ripetitori induca ad apprezzare gli umani silenzi generatori d’identità e di coscienza.
Parlare di un Discorso-Silenzio come si sta facendo per i lavori di Angela Occhipinti e di William Xerra appare senza dubbio paradossale, ma l’arte figurativa è paradosso essa stessa.
Giulio Angelucci, 2010
1 Giacomo Leopardi, Operette morali. Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi