Non so da dove sia venuta a William Xerra l’ispirazione per immedesimarsi nei codici dell’antica profezia biblica con l’autorevole determinazione del veggente e l’umile distacco del testimone. Il carattere essenziale dell’autentico codice profetico – a scanso di equivoci – non è la banale previsione del futuro o l’antica evocazione del passato. La vera profezia non è oroscopo e spiritismo. Non è nemmeno una sapienza esoterica. La profezia espone una rivelazione del presente, nella sua pura nudità. Ne scaturiscono bagliori di insopportabile chiarezza e ombre di infinita ambiguità sull’intero tempo vissuto. Questa rivelazione è fatta semplicemente di quello che accade ora. Eppure prende abissale distanza dal mondo e ci immerge nella sua impressionante intimità. Frequenta la sua superficie apparentemente già tutta esposta, svolgendola, con ieraticità senza enfasi, come un rotolo sacro. Ed ecco, la superficie della visione si distacca come una pellicola morta: subito cavità apparentemente disabitate, palpitanti come visceri dell’anima, incominciano a rimandare segnali. Più che percepirli li fiutiamo, più che vederli, li abitiamo. La coincidenza degli opposti, che la logica superficiale delle potenze mondane della spazio e del tempo distingue astutamente, diventa oscuro linguaggio di incandescente svelamento.

Quale linguaggio, qui? Linguaggio della morte nella nascita e della nascita nella morte. Il vero Natale si narra nella lingua dell’Apocalisse. Eppure, nell’Apocalisse c’è la vera rivelazione (apokalypsis, svelamento) del Natale. “Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato” (Apocalisse, XII, 1-4).

Oro, incenso e mirra. Vive. Senza sapere. Il sacrificio che ci dà diritto alla speranza è dono di sé, che stravolge la mattanza reclamandone l’ingiustizia in nome dell’innocenza: gettata nel macello delle nostre passioni distruttive, come in un crogiuolo. Noi peccatori abbiamo solo questa per invocare giustizia. Fossimo pure senza colpa – e non lo siamo, noi – là dove non accettassimo di portare gli uni le croci degli altri, in nome degli innocenti che sperano senza sapere anche per noi, non saremmo migliori della Bestia. Non più sacrifici di animali che sostituiscono la nostra confessione di colpa. Dono di parti vitali, da uomo a uomo, per non dargliela vinta ai sacrificatori dell’innocenza. Attraversare la linea del fuoco, fino al calor bianco, perché il filo dell’oro si distilla nell’inafferrabile confluenza dei due. Umiliare i segni del potere e della concupiscenza, consegnandoli al Bambino.

Oro incenso e mirra. Vive. Senza sapere. Intanto se ne prende di figli il Drago, come fossero sacrifici di animali. Dio, quanti se ne prende. I bagliori del divino sono di luce bianca come le vesti degli innumerevoli uomini e donne che “hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello” (Apocalisse, VII, 14). Mandano riflessi di sangue, come il solco scarlatto che adorna il collo di Colui che siede sul trono. Il trono fu già sempre un capannone, una mangiatoia, un macello, un mattatoio di figli innocenti, una croce per tutte le madri. In virtù del Natale che resiste, e si insedia ostinato nel luogo della Bestia, sono anche riflessi fiammeggianti d’aurora. Fuoco dell’intimità. Calore della vita. Tracce del parto. Irradiazione di roveto ardente e sudari di nuovo candidi: fasce e grembo di una nuova vita. La vita rinasce, ignara del nostro sapere confuso. Inconfutabile come una sapienza che attraversa la carne e il sangue senza temerne il duro contraddittorio.

Oro, incenso e mirra. Vive. Senza sapere. In questa nube del non sapere, che i mistici conoscono benissimo, c’è una rivelazione. Non basta ascoltarla, come un’antica storia. Bisogna guardarla, lasciarsene avvolgere, affrontarla. Il suono che l’accompagna è quello dell’antica vibrazione che annunciò la vita: sciogliendo la terra e armonizzando il chaos. Quel suono genera fenditure dei mondi, irruzioni incandescenti, rottura di acque. Fa anche risuonare le cavità, sempre di nuovo, di grida, vagiti, voci, e canti non ancora uditi. Il suono di tutte le voci che si raccolgono sempre di nuovo sull’Arca, come nella Città celeste. Le antiche parole, scritte sulla nuda pietra, senza sapere perché, ci guidano attraverso il contraddittorio inventario del mondo, come una stella dirottata dal corso previsto: senza spiegazione. Il sepolcro del crocifisso e la grotta dell’incarnazione, la memoria del sangue e l’ostinazione della nascita, non si lasciano distinguere: ciò che Dio ha unito, non separi l’uomo. Anche senza sapere, chiunque si muova verso le tracce della vita, si incontrerà lì. Oro, incenso e mirra. I Magi si muovono verso il Bambino, senza sapere dove sia nato (Matteo, II, 2). Vive. Maria di Màgdala vide il Risorto accanto a lei, senza sapere che era Lui (Giovanni, XX, 14). Quando ci sembra di avere già visto tutto, i profeti ci riportano sulla soglia della nostra cecità, scandendo ciò che abbiamo perso di vista.

Sono convinto che gli artisti autentici custodiscano frammenti del mantello di questi antichi veggenti. Se li passano tra loro. Li strofinano in gran segreto nei monumenti in cui c’è bisogno di una rivelazione che accenda le nostre rovine e la nostra speranza. Senza sapere.


Pierangelo Sequeri

IL TESTIMONE WILLIAM XERRA