IL DIRE E L’ESSERE
Ciò che è poetico
La vita in versi
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel sopramondo s’allacciano
complicità di viscere, saettano occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.
inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.
Finis fabulae
Come una scia si richiude la favola
sugli sbruffi dell’elica lussureggiante di schiuma.
Guardala a poppavia che si appiattisce
levigata da diavoli mulinelli.
L’essere è più del dire – siamo d’accordo.
Ma non dire è talvolta anche non essere.
Ah diserta più del dovere fu l’incoscienza.
Presto tutte le acque saranno uguali e lisce.
Due poesie di Giovanni Giudici tratte da La vita in versi (1965) descrivono icasticamente la parabola compiuta dalle arti visive negli ultimi decenni.
Le “acque” dell’arte contemporanea sono da tempo “uguali e lisce”. L’assenza di differenze significative e di increspature vitali è dovuta a una sopravvalutazione storica dell’essere rispetto al dire. Negli anni Sessanta si è davvero creduto che “in ogni caso l’essere è più del dire”, salvo poi lasciarsi turbare dal dubbio che “non dire talvolta è anche non essere”. L’aspirazione al mutismo, la celebrazione della vacuità, la politica dello straniamento che caratterizzano la scena artistica alla fine di quel decennio sono l’equivalente dell’impersonalità, dell’oggettualità, dell’alienazione insistentemente indagate, evocate, anelate dai poeti che all’inizio di quello stesso decennio si qualificano come Novissimi. Per gli artisti come per i poeti, la novità di cui si sentono dei superlativi assoluti è la stessa: la tensione a inesprimere l’esprimibile ha preso il posto del desiderio di esprimere l’inesprimibile. Si deve raggiungere l’essere non dicendo il dicibile, invece che tentando di dire l’indicibile. Il rovesciamento dei canoni dell’ermetismo genera, nelle arti poetiche così come in quelle visive, il trionfo dell’inespressività, e soprattutto l’eclissi della percezione di ciò che è irrinunciabile. Nell’arte, in tutte le arti, “non dire” è anche “non essere”, senza il “talvolta”. Per superare il compiacimento dell’oscuro, l’abbandono a una dimensione aridamente metafisica, l’immobilità ipnotica che si accompagnano a una contemplazione ossequiosa dell’essere, tocca di forzare i limiti del dire, di scavarli, di esasperarli, sino a farli coincidere con l’essere stesso.
Non senza il dire è possibile raggiungere l’essere, ma con l’ontologia delle parti del discorso proposta da Amelia Rosselli in Spazi metrici (1962)
“Per una classificazione non grafica o formale era necessario, nel cercare i fondi della forma poetica, parlare invece della sillaba, intesa non troppo scolasticamente, ma piuttosto come particella ritmica. Salendo su per questa materia ancora insignificante, incorrevo nella parola intera, intesa come definizione e senso, idea, pozzo della comunicazione. Generalmente la parola viene considerata sì come definizione di una realtà data, ma la si vede piuttosto come un “oggetto” da classificare e sottoclassificare, e non come idea. Io invece (e qui forse farei bene ad avvertire che essendo il mio sperimentare e dedurre assai personali e in parte incomunicabili, ogni conclusione che io ne possa aver tratto è da prendersi davvero “cum grano salis”) avevo proprio altre idee in proposito, e consideravo perfino “il” e “la” e “come” come “idee”, e non meramente congiunzioni e precisazioni di un discorso esprimente una idea. Premettevo che il discorso intero indicasse il pensiero stesso, e cioè che la frase (con tutti i suoi coloriti funzionali) fosse una idea divenuta un poco più complessa e maneggiabile, e che il periodo fosse l’esposizione logica di una idea non statica come quella materializzatasi nella parola, ma piuttosto dinamica e “in divenire” e spesso anche inconscia.”
Non è stata questa la strada intrapresa dalla poesia e dalle arti visive. Invece della coincidenza tra significante e significato – o forse meglio della loro fusione in un’entità non scindibile e quindi neppure strutturabile secondo gerarchie interne – poeti e artisti hanno privilegiato le algide peripezie del significante o, in alternativa, il calore rassicurante del significato. L’alternativa è stata in realtà un’alternanza: a un decennio di dominio cerebrale e formalista ha fatto seguito un decennio di riscoperta dell’effusione lirica e della veemenza del colore, del narrar per versi e per figure, delle virtù prodigiose della rima baciata e della figura piacevolmente deformata, per poi lasciar spazio a un decennio-patchwork, a quella strana miscellanea di tendenze espressive che sono stati gli anni Novanta, e poi a questi anni, che forse sono solo i dopo-Novanta, una mistura, un intruglio di dimensioni ancor più vaste, di cui non si intravede il limite e nemmeno il senso. (Detto altrimenti: alla riduzione dell’io teorizzata negli anni Sessanta e praticata fino ai Settanta è succeduta negli anni Ottanta la dilatazione quasi liquida di quello stesso io, almeno finché l’espansione non ha assunto una forma gassosa, e l’io si è propagato ovunque senza essere realmente in nessun luogo.) Nel dopo-Novanta ciò che sembra parzialmente distinguere i due ambiti è una minore sciatteria della poesia, una minore disonestà rispetto all’arte, che forse è dovuta alla mancanza di tentazione, all’assenza di un mercato della poesia stessa, con il risibile strascico di denaro e di potere che ciò comporterebbe, o forse soltanto alla perdurante nostalgia di poeti come Paolo Ruffilli per…
…un reale
ricomposto, reso
logico e ordinato
sottratto al
flusso incontrollato
della vita, atteso
al passo e
scivolato nel lungo
e stretto corridoio,
nel collo dell’imbuto
che l’ha raccolto
frantumato e
reso per incanto
in un suo essere
compiuto e, nello
spazio di un istante,
intatto e ritrovato
da Camera oscura (1992)
Nemmeno la nostalgia di questa realtà è sufficiente per fare poesia o arte. Senza la consapevolezza che il dire ha la possibilità di insinuarsi nell’essere, e che l’essere è una materia inerte senza il dire, resta solo l’afasia, spesso iniquamente spacciata per silenzio. Anche soltanto una timida fiducia nel dire può spingere a credere come Alberto Veca che…
…l’occasione comunque non è mai persa, oggetto
gettato contro una logica di ridondanza,
il parlare
nella forma sintetica della poesia
non dice
e lascia intendere
il completamento possibile. O meglio il ventaglio
dei significati che non occorre esplicitare.
L’atto di poesia
significa
per chi esercita il mestiere di tradurre
in parole articolate, ogni volta
dover esprimere i passaggi logici,
anche quando questi
sono da sottintendere, o meglio la connessione
segue i binari consueti
ripetuti all’estenuazione;
l’atto di poesia significa una vacanza
dall’obbligo, dalla condiscendenza, dal compromesso
la scelta dell’atto imperioso, il parlare
oscuro
il giudizio e la predizione.
Da Quasi un proverbio. Per Mario Benedetti (1990)
In questo testo mi ero ripromesso di parlare anche agli artisti che in tempi recenti hanno scritto poesia, come Toti Scialoja e Vincenzo Agnetti, e dei poeti che hanno creato versi per gli artisti, indagandone o anche solo chiosandone le opere. Mi sono reso conto però che un discorso del genere sarebbe risultato stucchevole e soprattutto fuorviante. L’argomento di questo scritto non è in fondo né la poesia né l’arte, ma ciò che è poetico e ciò che di poetico si è smarrito o ha continuato a esistere in entrambe. Per quanto mi riguarda, è solo per caso che alcuni artisti di cui sono pubblicate le opere in queste pagine siano appartenuti a una tendenza chiamata Poesia visiva: la mia fonte di interesse per loro sta soltanto nell’aver creato visioni poetiche, e magari nell’averle attinte dalla lettura di certi versi, come è il caso degli altri artisti di cui ho scelto di pubblicare alcune immagini. Quanto ai poeti, lascio loro l’occasione di dire qualcosa di poetico nelle pagine che seguono.
Roberto Borghi (2008)
Il dire e l’essere:
Roberto Borghi, 2008
William Xerra, 2002
Valentino Zeichen, 2008
Maurizio Cucchi, 2008
Giorgio Guglielmino, 2008
Gregorio Scalise, 2008
Davide Longfils, 2008
Lorenzo Morandotti, 2008
Annalisa Manstretta, 2008
Patrizia Valduga, 2008
Luigi Ballerini, 2008
Paul Vangelisti, 2008
Italo Testa, 2008