LA VERITÀ NON DETTA
William Xerra, da VIVE a IO MENTO
Due idee di verità si affiancano e talvolta si affrontano nella storia della cultura occidentale. la prima ha il suo referente linguistico nella parola greca alètheia, in cui l’a- che precede il verbo lanthàno (“resto nascosto”) è intesa in senso privativo: da qui il concetto di verità come “non nascondimento”, come qualcosa di luminoso e terso, come quella “nozione chiara e distinta” di cartesiana memoria che è ancora parte del nostro universo semantico. La seconda è condensata nel termine ebraico ‘emèt, che significa innanzitutto “stabilità”, “fermezza”, in relazione a persone o a cose, mentre riferita a parole dette o scritte significa “verità” nel senso di “credibilità”, “affidabilità”, “veridicità”. Secondo la mentalità dell’uomo biblico, Dio è la verità poiché è “l’affidabile” per antonomasia, anche se le sue azioni sono circondate dall’oscurità e il suo volto è tutt’altro che terso. Nella prospettiva greca e poi cristiana, la verità è qualcosa che “si conosce”, in quella ebraica – e poi in un filone di pensiero che esula dai confini dell’ebraismo e accomuna i misticismi e le eresie di molte religioni – è qualche cosa che “si fa”, che si pratica dando fiducia alle situazioni, alle persone, alle divinità che sono considerate degne di riceverla.
Scrivendo IO MENTO, come fa nelle sue opere da più di un decennio a questa parte, William Xerra ci spinge a domandarci qual’è la verità che sta negando. In realtà il binomio vero/falso, nella variante corretto/sbagliato, caratterizza il suo lavoro fin dalle origini: anche il ciclo del VIVE, iniziato nei primi anni Settanta, si sviluppa a partire da una rivalutazione dell’errore, da un riscatto virtuoso dello sbaglio. Nel lessico tipografico, VIVE è una sigla che si appone sulle bozze quando un elemento in precedenza cancellato viene poi ritenuto valido. Nelle opere realizzate durante gli anni Settanta e Ottanta, Xerra ha scritto VIVE su immagini o oggetti del passato ritenuti obsoleti, brutti e insignificanti, cioè sbagliati secondo i normali parametri di correttezza mnemonica, estetica e semantica. Applicando il criterio dell’arte e della poesia, l’errore può invece essere oggetto di ricordo, strumento di bellezza e fonte di significato: l’artista e il poeta possono fare in modo che sia tale, possono esercitare una peculiare capacità demiurgica che consiste nell’individuare gli aspetti credibili della realtà, nello scorgere ciò che di veritiero e assurdamente trascurato ci circonda.
Forse, per quanto concerne l’arte, la menzogna non si limita a caratterizzare l’oggetto di comunicazione ma è intrinseca al comunicare stesso: è questo almeno ciò che sembrano dire le opere nelle quali William Xerra scrive IO MENTO in lingue che spaziano dall’inglese, al greco moderno, allo swahili. L’impossibilità di non mentire facendo arte non comporta alcun atteggiamento nichilista, nessun abbandono alle innumerevoli tragedie di cartapesta che rappresentano l’altra e proverbiale faccia della stessa medaglia, il risvolto di una scena artistica sostanzialmente grottesca. La verità non detta, la verità che anzi non si può che non dire, è quel che resta di un’alètheia da operetta a cui nessuno crede più veramente, per quanto paradossale possa sembrare. L’altra idea di verità è ancora tutta da fare: magari iniziando dalla consapevolezza che anche il dire, soprattutto quando è poetico, non è altro che un fare.
Roberto Borghi, 2008.